Titolo cadutomi nel piatto come una prelibatezza. Una leccornia, una succulenta metafora della definitiva “Dimenticanza del sole”. Qualcosa mi dice che il giocattolo si è rotto.
Sarò l’anatopatologa di me stessa e sottoporrò ad autopsia la parola Felicità.
Come Balthazar, medico legale interpretato da Tomer Sisley, l’uomo più sensuale del globo terracqueo, evocherò non solo “il fantasma del Natale passato”, ma tutte le emozioni dilaniate, date alle fiamme, soffocate, accoltellate, prese a calci.
Un tempo il caldo si soffriva, ora si percepisce. E’ segno che il clima non è più sincero?
O è soltanto l’abitudine a nascondere la polvere della verità sotto lo zerbino davanti casa.
La percezione è in stretta parentela con l’ipocrisia, sono “sorecucine”. Futilità e ossessione.
Fa caldo, ne sento tutto il peso e il giardino mi è recluso per eccesso di percezione, quindi mi sono rinserrata in camera da letto per lavorare. Questa stanza dà su Vico Paradiso che come un fiume sterile di acque, cola dalle pendici del Vesuvio portando in maniera irriverente aria ventosa e fresca.
Ho allestito un piccolo studio con un corto tavolo di cristallo, una sedia, uno sgabello dell’artigianato lucano di Vigianello e un vecchissimo condizionatore, ultimo rimasto attivo, che quando non avvelena refrigera.
Tutto bene se non fosse per l’odore. Il vicolo ha visto passare molte ere geologiche: quella dei “vasci” dei mestieri e dell’artigianato, quella delle venditrici di sigarette americane di contrabbando e dei guappi di quartiere, quella della droga e dei furti di motorette. Ora ci sono famiglie cingalesi che cucinano cose buone ma micidiali per la mia rinite allergica (tra acufeni e riniti “songo proprio nù guaio”).
Così se riesco ad evitare la morte per esalazioni tossiche da condizionatore preistorico, sarà il pesce speziato dello Sri Lanka a mettere fine alla mia vita.
C’è stato un tempo in cui il vico esalava respiri di caffè, che dalle finestre, dalle scale dei palazzi arrivavano in strada oltraggiosi profumi di fritture di “fravaglie ‘e triglie o ‘e rutunno”.
Alla domenica la musica degli ziti spezzati cotti al forno con ragù di tracchiulelle, gallinelle di maiale, polpettine, salame e uova sode.
Nei giorni feriali, tutti i lunedì in casa mia, si cuocevano i legumi. Sottile sentore di fagioli. Alfredo aspettava che arrivassero a cottura per immergere un pezzo di pane nella loro acqua, condirlo con olio e sale in un glorioso e peccaminoso rituale di golosità.
Scrivere immersa in un luogo alieno a tale scopo, usando carta e penna, imitando le grandi scrittrici dell’800, è punitivo, mi mancano i rumori degli alberi che chiacchierano, dei merli che si danno da fare, non si sa per cosa, e dei piccioni che grugano in cerca di cibo. Sì, i piccioni grugano e i tacchini goglottano, i merli chioccolano, i tordi zirlano e le cicale friniscono. Le rondini garriscono mentre gli elefanti barriscono.
Ho sentito qualcuno affermare e persino scommettere che il leone appartiene alla Famiglia dei Canidi.
Possibile che una persona adulta non abbia mai saputo, con una certa dose di indifferenza e noncuranza, che il leone è un Felino, il più bello tra i felini…il Re della Famiglia dei Felidi.
Io so di non sapere moltissime cose e me ne dolgo, ma sono in tanti a non sapere un cazzo e andarne fieri, come se la mancanza di intelletto, cultura e conoscenza fosse un merito, una virtù, un bollino blu stampigliato sulla loro banana Cichita.
Ma c’è chi affronta il mondo per capire, solo per farsene un’idea.
Andrea era un viaggiatore con cane, ci sarà un termine inglese per dirlo ma non lo conosco, veniva dalla Spagna assieme ad un bellissimo bracco ungherese femmina. Lo incontrai per la prima volta una mattina davanti alla “mia” banca, seduto o meglio assiso, con Leila accucciata accanto e vari oggetti in terra. Era una scena mistica, bellissima. Avvicinarsi e parlargli fu naturale. La strana sensazione di sapere di lui, di conoscerlo, di essergli amica, di invidiarlo anche un po’.
Gli parlai, mi narrò di lui, poche parole, gentilezza negli occhi. Andrea era soltanto un ragazzo, accettava i miei soldi quasi scusandosene. Mai pensai ad una elemosina: aiutavo un amico coraggioso a vivere la sua esistenza e curare la sua compagna di viaggio. Era una gioia ritrovarlo, vederlo da lontano. Sempre attorniato dagli abitanti del luogo, Via Chiaja, che gli offrivano caffè, cibo e coccole per Leila.
Poi un giorno è scomparso, poi un giorno non c’è più stato. Dormiva nella Galleria Umberto Primo nel gelo invernale e nell’afa estiva, soffrendo il freddo e il caldo.
La sua “casa” di cartone fu data alle fiamme, fu derubato, e bastonato. Ho ritrovato il numero del suo cellulare dentro una vecchia rubrica, ma non ho osato chiamarlo. La ricerca della felicità è un’ardua e inutile fatica, tuttavia non è saggio provocare l’infelicità.
Nel conto fatto da Dio nel creare il suo giocattolino terrestre, eden, serpenti, fratricidi compresi la quota di infelicità assegnata a ciascuno è cospicua, non abbiamo bisogno noi esseri umani e viventi di procurarcene “n’atu poco”. Al mercante che sbaglia volutamente il peso e ci chiede suadente ” E’ in più o lasciammo, signò ?” impariamo a rispondere “no, nun pazzià … lieva, lieva”
Ecchecazzo! Stiamo facendo i conti col muscolo cardiaco.
La mente sa elaborare le immagini trasmettendole al cervello nella veste che le è più grata.
C’è una visione che mi appare come un quadro impressionista: ” Le donne alla finestra”.
Sono mia madre e mia sorella che mi salutano dall’alto del terzo piano affacciate alla finestra che dà sul cortile dell’antico palazzo di Via Egiziaca a Pizzofalcone. Era un rituale che si ripeteva ogniqualvolta lasciavo casa di mamma per tornarmene in Paradiso.
I rituali mi affascinano, non come consuetudini o abitudini bensì come fenomeni magici ricorrenti che consolidano la gioia, e soffiano una esile”refola” di felicità.
Così come il rito del pane, non quello di Sant’Antonio poetico ed estinto, ma quello dei “cuzzetielli”.
Le mie unne del Labrador lo adoravano. Aspettavano che “portassi a casa il pane”, nella fattispecie due o tre sfilatini morbidi e croccanti (mollica tenera e crosta ben cotta).
Le invitavo al gioco con un grido propiziatorio “Cuzzetielli, cuzzetielli…” e lanciavo loro i coni dorati strappati dal resto del corpo, che restava monco delle due estremità.
Sembravano gatti sgambettanti dietro topi stupiti , consapevoli di avere pochi minuti di vita.
“Cuzzetielli comme suricille ” Betta e Blanche hanno vissute chiuse in casa, nel loro giardino, nelle loro stanze, sui loro divani. Hikikomori della razza canina, non hanno conosciuto le vie della città, né le automobile, solo la carrozzella su cui camminava Alfredo.
Ulisse sì che ha viaggiato : Alfredo ha preso la patente e comprato la sua prima Citroen, color cobalto, per lui. D’estate eravamo a Massa Lubrense nella piccola casa di vacanza, Ulisse aspettava con pazienza di uscire e poi affrontava le scale della Lobra correndo, libero.
Ha attraversato il tratto di mare da Sorrento a Positano sulla prua di un bellissimo gozzo sorrentino dei Cantieri Aprea, serio e possente, degno esemplare di un maestoso pastore tedesco.
Credo che i miei amatissimi cani abbiano avuto una vita felice…ma chi può dirlo.
La parola felicità è difficile da pronunciare, si nasconde nelle pieghe delle pagine, tra i risvolti di copertina, tra una sillaba e l’altra. Tra una ruga e l’altra.
Chiudo l’autopsia: ricucio il corpo con filo di sutura sull’immagine di Alfredo che si tuffa dallo Zodiac e sparisce nelle profondità delle acque della baia di Ieranto a caccia di polpi.
Sulle lucertole stese al sole lungo il viale che porta al nocciolo, il capo teso verso il cielo, in estasi…
Sui merli salterellanti nelle pozze di pioggia estiva come limpide piscine.
E rivedo mia sorella e mia madre che mi salutano dalla finestra all’imbrunire.