La politica si sta rimettendo in moto dopo la pausa estiva e mi piace che da parte di un ricercatore come me si faccia uno sforzo da un lato per sintetizzare le problematiche attuali come percepite, dall’altro per manifestare i suoi timori e preoccupazioni.
Vorrei partire dai due estremi del nostro Paese, il punto più debole ed il punto più forte dell’Italia di oggi.
Credo che sul primo non ci siano dubbi ad individuarlo nel debito di quasi 3.000 milioni di euro. Non si tratta solo di entità, ma anche di come si è nel tempo progressivamente dilatato. A mitigare lo stato d’animo che da questo debito deriva contribuisce l’individuazione dei creditori, in buona parte gli stessi cittadini italiani. Questo debito rappresenta in ogni caso un fardello sulle spalle di ogni italiano a partire da quando nasce, in quanto in ogni caso gli interessi vanno pagati, sottraendoli a possibili altri investimenti.
Sulla ricerca del punto forte non si può non riconoscerlo nell’ingegno, creatività, cultura che hanno consentito -applicati ad un patrimonio come il nostro, di beni culturali, siti archeologici, palazzi antichi- di avere riconosciuta l’Italia la nazione con il maggior numero di Siti patrimonio Unesco.
Addentrandoci nell’analisi non si può che rilevare che qualsiasi ipotesi di riduzione del debito non può che partire da un aumento del PIL mediante crescita della produzione, sia pure scegliendo in quali direzioni e filiere indirizzarla. Con questa elementare esigenza cozza una situazione demografica in continua recessione con denatalità crescente. Diminuiscono i cittadini, quindi i produttori dei singoli redditi, e risulta quindi veramente difficile fare aumentare il reddito pubblico complessivo, a meno che non si riesca a contrastare l’inverno demografico attraverso politiche di accoglienza.
Peraltro su queste purtroppo non tutti al Governo concordano; le diverse strategie proposte –ius sanguinis, ius scholae, ius soli– finiscono per essere motivo di instabilità politica.
E questa è la prima responsabile di una determinata lentezza ed indisponibilità a grandi investimenti da parte dei grandi industriali nel Bel Paese, a danno di input economici significativi. Per invertire questa situazione servono quindi fondi ed agevolazioni che possano spingere a creare insediamenti produttivi nuovi in Italia, pretendendo dagli imprenditori che li gestiscono comportamenti corretti e rispettosi delle realtà del territorio di insediamento.
Tornando al discorso iniziale, l’Italia é un Paese povero di materie prime per sua natura geologica, ma anche -per quanto si diceva prima a proposito dell’invecchiamento della popolazione- di mano d’opera: in queste condizioni il patrimonio culturale immenso di cui il Paese dispone diviene l’unica reale ricchezza su cui costruire una politica di entrate e di auto-finanziamento.
Focalizzando sull’immediato presente, sto seguendo con preoccupazione i passi del Governo sulla Manovra Finanziaria. Il rischio è che le esigenze economiche cancellino il carattere sociale della democrazia, conquista prima del Novecento.
Questo carattere ha consentito di estendere la fruizione dei servizi alimentari e igienico sanitari, di assicurare retribuzioni corrispondenti (o quasi) al lavoro prestato, di vedere assicurato il diritto all’istruzione, alla casa, all’ambiente. Il rischio è che le richieste, spesso corporative che pretendono risposte, trovino da parte del Governo le risorse necessarie sacrificando quelle che garantiscono il carattere sociale della nostra democrazia.
Quote crescenti della popolazione vedono messi in discussione elementari diritti della vita, anche al di sotto di livelli di qualità di vita proprio minimi. Uno dei percorsi viziosi di questo processo è collegato all’aumento speculativo dei prezzi attribuito invece ad un aumento dei costi produttivi.
Un altro percorso altrettanto vizioso riguarda i servizi essenziali, a partire dalla sanità, sempre meno a carico del servizio pubblico (come dovrebbe essere per una democrazia sociale) e sempre più sulle spalle dei cittadini contribuendo alle disuguaglianze sulla base del censo. L’equilibrio sociale ne risulta in pericolo e quindi le manovre dei Governi dovrebbero stanziare risorse per le esigenze economiche ma anche pensare a restaurarlo.
La volatilità del consenso elettorale e la conseguente instabilità politica di certo non agevolano spingendo verso atteggiamenti colpevolmente populistici. Purtroppo anche le regole imposte dall’Europa non sembrano garantire rispetto a questa primaria esigenza.
Sono un chimico e vorrei concludere con una riflessione circa il ruolo che la Chimica e la Ricerca possono svolgere in questa situazione. La chimica oltre ad essere un indicatore economico è la disciplina industria che trasforma la materia: in mancanza di materie prime questa trasformazione -con la conseguente aggiunta di valore che ne deriverebbe- diviene fonte economica essenziale.
Squinzi, il rimpianto e compianto presidente di Federchimica e Confindustria, sosteneva che per assolvere il suo ruolo economico e sociale la ricerca e l’industria chimica hanno bisogno di costi energetici e di personale che siano sostenibili, di infrastrutture, e di una burocrazia intelligente. Oggi, probabilmente, nessuna di queste condizioni è completamente soddisfatta in Italia ed in Europa. Estremo Oriente e Medio Oriente rappresentano concorrenti molto più ferrati su quei tre fronti.
Ma la Chimica europea ha reagito a questa situazione grazie proprio a quella creatività a cui mi riferivo all’inizio. La chimica fine, prodotto dell’ingegno e del capitale umano, ha aperto nuove strade in molte filiere industriali, anche puntando alla valorizzazione e protezione del patrimonio storico ed artistico di cui il nostro Paese è ricco.