Costruire una road map digitale oggi è fondamentale per ogni azienda, ma il processo deve essere condiviso e partecipato dai collaboratori. Serve una forma mentis disponibile all’innovazione e al cambiamento, ma pensare che questa sia soltanto appannaggio delle generazioni più giovani sarebbe un errore. Il digitale può essere una leva per incoraggiare il mentoring reciproco e favorire lo scambio di conoscenze.

 Andando oltre i dibattiti (e la retorica imperante) sull’Intelligenza artificiale e verificando i numeri di una recente ricerca, scopriamo che, se il 61% delle grandi aziende ha già attivato programmi di IA, solo il 18% delle Pmi ha intrapreso percorsi analoghi. Nel confronto continuo con le aziende clienti, abbiamo maturato la convinzione che diverse siano le cause che spiegano questo divario, ma in particolare registriamo una sorta di “stordimento” dovuto non solo ad un eccesso di comunicazione ma anche alle continue evoluzioni che vengono lanciate sul mercato da operatori, ahimè, prevalentemente extra-europei.

Su questo ultimo aspetto non ci dilunghiamo, limitandoci a suggerire la lettura del rapporto Draghi su “Il futuro della competitività europea”, che ha messo in evidenza i rischi di questo ritardo nei confronti degli Stati Uniti e della Cina e di una progressiva sudditanza dell’Europa. In questo contesto non semplice, molti dei nostri interlocutori stanno cercando come costruire una digital road map funzionale al proprio business e come gestire l’inevitabile cambiamento da un punto di vista gestionale e organizzativo.

In questa fase si rivela quanto mai utile promuovere una sorta di valutazione della maturità digitale dell’azienda attraverso una metodologia che fornisca una visione strutturata del livello attuale di maturità digitale e un adeguato supporto nell’implementazione di strategie efficaci per una trasformazione digitale completa e sostenibile.

In base alla nostra esperienza è importante analizzare quelle che sono le dimensioni cruciali di un’azienda: la tecnologia applicata, i processi conseguenti, la customer experience, l’innovazione.

  • La tecnologia: per valutare le soluzioni sinora adottate e l’efficienza dell’infrastruttura IT (rilevano a questo proposito l’adozione del cloud, la sicurezza informatica, l’integrazione dei sistemi).
  • I processi: per verificare il livello attuale (as is) di ottimizzazione e il livello potenziale (to be) di ulteriore ottimizzazione (rilevano l’automazione, l’efficienza operativa, la gestione dei dati).
  • La customer experience: per verificare il livello di interazione con i clienti, le potenziali personalizzazioni possibili, lo sviluppo della ‘servitizzazione’.
  • L’innovazione: per verificare la capacità di innovare sia attraverso risorse interne che esterne (startup, centri di ricerca).

Questa metodologia assicura:

  • una diagnosi accurata perché permette di identificare punti di forza e aree di miglioramento nella strategia digitale;
  • una pianificazione perché permette la definizione di obiettivi chiari e prioritari per la trasformazione;
  • il monitoraggio perché permette di tracciare i progressi nel tempo e adattare le strategie in base ai cambiamenti del mercato;
  • il coinvolgimento delle risorse perché facilita l’allineamento di tutte le funzioni aziendali verso obiettivi comuni di digitalizzazione.

Riteniamo utile soffermarci in particolare sul coinvolgimento delle risorse perché rappresenta una degli aspetti più critici. È decisamente importante impostare e sviluppare questa valutazione della maturità digitale col supporto di esperti esterni, ma occorre evitare una regia eterodiretta. L’imprenditore deve rimanere il vero promotore del programma, capace, attraverso l’impegno diretto, di coinvolgere le proprie risorse, di assicurarsi che tutti i livelli dell’organizzazione comprendano e condividano gli obiettivi, partecipino raccogliendo i dati qualitativi e quantitativi su ciascuna dimensione del framework, identificando i punti di forza e di debolezza.

Questo coinvolgimento è necessario non solo per costruire una road map digitale condivisa, ma per creare le condizioni per gestire il cambiamento delle attitudini, requisito indispensabile per sviluppare nuove skills, per acquisire una digital agility.

Per attitudine aziendale si intende fare riferimento all’insieme di valori, comportamenti e atteggiamenti condivisi all’interno di un’organizzazione. È il modo in cui i collaboratori percepiscono il proprio lavoro, l’azienda e il proprio ruolo all’interno dell’organizzazione.

Una cultura aziendale positiva e orientata al cambiamento è fondamentale per facilitare l’adozione di nuove tecnologie e processi digitali. La digitalizzazione implica l’adozione di soluzioni che possono modificare significativamente i processi aziendali, le modalità di interazione con i clienti e la gestione delle informazioni.

Per sfruttare appieno le potenzialità della digitalizzazione, è essenziale che i collaboratori sviluppino un atteggiamento proattivo verso l’innovazione, la flessibilità e l’apprendimento continuo. Resistere al cambiamento o mantenere attitudini tradizionali può ostacolare l’implementazione efficace delle nuove tecnologie e compromettere la competitività dell’azienda. Si tratta di operare per creare un mindset digitaleun orientamento positivo verso la tecnologia. Ma a questo proposito una precisazione è d’obbligo: il mindset non è un tratto della personalità o una competenza ma è una forma mentis (una way of thinking). Per sviluppare questa forma mentis non ci si può limitare ad intervenire sulle competenze digitali di base (alfabetizzazione informatica, conoscenza dei social media, Intelligenza artificiale, blockchain, Internet delle Cose (IoT), comprensione delle basi della programmazione e dello sviluppo di software), ma è necessario investire sulla capacità di analisi dei dati e sul pensiero critico.

Più precisamente per quel che concerne la capacità di analisi dei dati si fa riferimento sia alla capacità di interpretare e analizzare i dati per prendere poi decisioni adeguate, sia all’utilizzo degli strumenti di business intelligence (Excel, Tableau, Google analytics).

Per quel che riguarda invece il pensiero critico si fa riferimento alla capacità di valutare le informazioni e le soluzioni sotto diversi profili e alla capacità di affrontare e risolvere i problemi complessi. Nel pianificare questi interventi occorre non perdere di vista la composizione della popolazione aziendale, caratterizzata dalla compresenza di quattro, se non in alcuni casi di cinque gruppi generazionali.

Considerando nel breve termine il mismatch di competenze e la difficoltà, ormai diventata cronica, di reperire sul mercato risorse adeguate, nonché, nel lungo termine, gli effetti della glaciazione demografica, sarebbe un errore pensare di concentrare questi investimenti sulle risorse più giovani nella convinzione che siano meno resistenti al cambiamento. A parte il fatto che questa ultima considerazione è tutta da dimostrare visto che spesso ci imbattiamo nella “sfc syndrome” (si è sempre fatto così) anche da parte di persone relativamente giovani, è importante invece riuscire a coinvolgere tutte le risorse disponibili favorendo una gestione delle diverse generazioni in azienda proprio attraverso la leva digitale (digital age management) con la creazione di un ambiente inclusivo, incoraggiando il mentoring reciproco fra le generazioni per favorire lo scambio di conoscenze e di competenze.

Non solo ma seguendo questa impostazione si finisce per sviluppare la consapevolezza continua e l’adattamento alle tecnologie digitali e alle loro implicazioni nel quotidiano e nel lavoro (life long digital awareness) realizzando quella formazione continua, sinora invocata e usata solo per facili slogan.

Un’ultima considerazione, ma non per questo meno rilevante, occorre fare per i manager che affiancano l’imprenditore. Saranno infatti chiamati a sviluppare, per effetto del crescente uso delle nuove tecnologie, nuovi stili di gestione delle risorse loro affidate, valorizzando l’incremento della qualità del lavoro (quality augmentation) con un ruolo più strategico per cui dovranno essere aiutati a formarsi per questa evoluzione nel ruolo.

Nonostante la complessità e l’incertezza creata da questa business disruption, di dimensioni inusitate, noi ci annoveriamo fra gli ottimisti e a chi teme di perdere il lavoro per l’IA noi siamo soliti replicare che il vero pericolo sarà quello di vedersi sfilare il lavoro da chi invece sa utilizzare l’IA.