Sugar su Apple Tv+ tende un’affettuosa mano ai fan di James Ellory, Raymond Chandler, Dashiel Hammett, Wade Miller, John D. MacDonald, insomma a chi ama l’hardboiled, quella variazione del poliziesco e del giallo, che ha saputo regalare sulle pagine stampate, così come sul piccolo e grande schermo, personaggi incredibili, storie fatte di crimine, profondità psicologica e deduzione. Colin Farrell, qui in vesti anche di produttore, è il mattatore assoluto di una serie che oltre che essere appassionante, perfettamente scritta e diretta, è anche audace fino all’inverosimile e che vi lascerà letteralmente a bocca aperta più e più volte.

John Sugar (Colin Farrell) è un detective privato di altissimo livello. Nella realtà, è qualcosa di più di uno dei tanti emuli di Sam Spade, fa parte di un gruppo di ex spie internazionali che hanno deciso alla fine di mettere da parte divergenze e ostilità, di diventare parte di un’organizzazione professionale connessa a precise regole, rituali e periodici controlli sull’equilibrio dei suoi membri. Sugar ha come referente Ruby (Kirby Howell-Baptiste) che è perfettamente al corrente di alcuni suoi ricorrenti problemi di salute, che però per il momento Sugar tiene sotto controllo. Dopo aver risolto un caso in Giappone per conto della Yakuza, John viene contattato dal magnate cinematografico Jonathan Siegel (James Cromwell).

Questi gli chiede di ritrovare sua nipote, Olivia (Sydney Chandler), attivista ed artista scomparsa improvvisamente. Sugar in breve tempo entra in contatto con Bernie (Dennis Boutsikaris) il padre di Olivia, individuo a dir poco controverso, l’ancor più torbido figlio di questi David (Nate Corddry) e l’ex moglie di Bernie, Melanie Macke (Amy Ryan). Quella famiglia potente, oscura e piena di problematiche irrisolte, nasconde segreti terribili e sanguinosi, è connessa a sangue e violenza, su cui Sugar sarà chiamato a fare luce. Per lui però il pericolo di rimanere eccessivamente coinvolto diventerà sempre più probabile.

Sugar porta la firma di Mark Protosevich ed è diretta nientemeno che da Fernando Meirelles, cineasta a cui dobbiamo perle come City of God e The Constant Gardner.

Il risultato finale è di altissimo livello, una serie che apre una porta verso la Golden Age del genere, quella che dalla fine degli anni ’30 fino agli anni ’50 ha saputo rendere l’hardboiled un mondo a parte, ridisegnando i confini della narrazione urban e del personaggio del detective. La serie si prende la libertà di citare non solo le pellicole immortali del grande Humprey Bogart (a cui Farrell si connette ma non troppo) ma anche capolavori di Billy Wilder, Nomura, Welles, Kurosawa ed altri registi di culto, con cui creare quasi una sorta di metanarrazione, una guida al concetto di recupero e assieme di parallelismo tra realtà e narrazione pura molto intrigante.

Sugar si nutre di una mancanza di verità e sincerità che è il grande tema del racconto, portato sulle spalle da un Colin Farrell che si muove con passo felpato, costruendo un personaggio che è ad un tempo seducente ed assieme di difficile interpretazione. Il suo John è un maniaco del controllo, misantropo che dissimula tale elemento con una ricerca di un senso più alto con cui redimersi di un passato che ci viene svelato a poco a poco. Di base è una sorta di variabile impazzita rifiutata da due mondi: il suo, pieno di ipocrisia e di false amicizie, e quello dei suoi clienti, che lo usano e a cui servono i suoi servigi ma che lo temono per ciò che potrebbe riportare alla luce. Ed è su tale doppia lettura che la serie riesce a connettersi ad Ellroy, Chandler, Miller che hanno sempre voluto parlarci del volto oscuro e vizioso della società, dei ricchi, del potere in un mondo del cinema che qui viene decostruito e demitizzato.

Sugar è un detective raffinato, uomo d’azione solo per necessità, è un segugio che ricompone puzzle pezzo dopo pezzo ma soprattutto un fine conoscitore della natura umana e delle sue contraddizioni. Si muove dentro ad una Los Angeles di cui frequenta gli opposti, abitata da vecchi bianchi viziosi, famiglie piene di tumori morali, criminali sadici e il mito del cinema a fare da collante. Ecco però spuntare ad impreziosire il tutto un gusto retrò, l’eleganza di una putredine che egli rappresenta e combatte, che amplifica le nostre sensazioni facendoci muovere tra l’alto e il basso, barboni e killer, star di Hollywood e donne assediate da una sessualità che qui puzza sempre di violenza, ricatto, colpa e meccanica. Farrell è charmante, anche nel suo odio dichiarato per la violenza fisica e non espressiva, ma non eccessivamente, al suo fianco una Amy Ryan che come lui ha la giovinezza alle spalle ma una voglia di vivere immensa, e forma una coppia per nulla banale.

Forse è una seria per pochi?

Difficile dirlo, perché porta dalla sua una scorrevolezza, una fluidità di narrazione, dentro cui è facilissimo perdersi. Sugar però sul finale fa un’inversione, una U turn per citare il titolo di un film, intercettando un genere completamente diverso, un passaggio tanto folle quanto interessante, curato al millesimo per tempistiche e coerenza. Questo si aggiunge alla perfezione della regia, con la volontà di dare verosimiglianza e naturalezza ad ogni dialogo, ogni svolta, ogni momento pur quando il tutto va verso la fantasia più totale. Si rifuggono i facili effetti e le eccessive complicazioni, perché non conta cosa si dice ma il come. Ed il come di Sugar è un come di quelli che speriamo di avere in futuro ancora e ancora, perché di qualità sul piccolo e grande schermo, più che di quantità, c’è veramente un gran bisogno.