Nonostante un quadro di geopolitica internazionale estremamente complicato, è importante continuare a parlare di sostenibilità, ovvero di come riuscire a soddisfare le esigenze del presente senza compromettere la capacità delle future generazioni.
Come sta andando il processo per il passaggio da un’economia lineare (basata sull’uso delle risorse per produrre beni che vanno a finire nelle discariche) all’economia circolare rispettosa della sostenibilità ambientale (e sociale)? Il rischio è che, in una fase di crisi dell’evoluzione dell’umanità, i percorsi verso una sostenibilità ambientale e sociale, inevitabilmente di lungo respiro, vengano trascurati se non, addirittura, abbandonati, sospinti dal canto delle sirene del sistema mass mediatico economico finanziario (il giornale unico) sensibile solo al frusciare dei bigliettoni verdi nelle tasche dei loro padroni.
La scusa potrebbe essere di far percepire la sostenibilità ecologica e sociale come tendenza di moda temporanea e non come processi indispensabili per il proseguimento dell’evoluzione dell’umanità. Ma se noi mettiamo ben a fuoco che la sostenibilità ambientale e sociale è necessaria per poter soddisfare le esigenze di benessere dei nostri giorni con il rispetto verso le generazioni future diventa facile capire perché è proprio in tempo di crisi che ci si deve impegnare maggiormente.
L’inaffidabilità dei padroni del petrolio
Prendiamo come punto di vista le intollerabili guerre che coinvolgono l’Ucraina e Israele. Oltre a migliaia di morti e a indicibili sofferenze per la popolazione civile (in evidenza nel genocidio dei palestinesi) queste crisi “regionali” hanno provocato la crescita dei prezzi dei combustibili fossili e, in generale, dei prezzi dell’energia. Se avessimo saputo affrontare con maggiore determinazione il tema della sostenibilità e fossimo passati prima e più rapidamente a un sistema di energie rinnovabili non saremmo stati così dipendenti dalle fonti fossili e da chi le controlla. Il conflitto in Ucraina ci avrebbe dovuto rendere chiaro che le autocrazie e le plutocrazie sono assolutamente inaffidabili e le grandi riserve di energie fossili, vale sia per il petrolio che per il gas, sono controllate da Stati governati da autocrazie, dittature e plutocrazie e che le riserve concentrate in Medio Oriente sono in contesti politici instabili e variabili (anche per l’esplicito intervento dell’impero americano). Se ci fossimo mossi più velocemente sulle rinnovabili non solo avremmo un contesto più sostenibile ma anche più stabile ed affidabile. Probabilmente si sarebbero anche stemperate diverse tensioni geopolitiche internazionali che, casualmente, spesso coinvolgono territori con ricchi giacimenti di petrolio e gas.
La sostenibilità nel mondo produttivo
La questione della sostenibilità oltre agli equilibri planetari coinvolge anche la piccola dimensione del mondo produttivo. La domanda è: come si passa da una sostenibilità di facciata e di compliance, cioè di “conformità”, ad una volontà di sostenibilità reale, radicale, guidata dalla necessaria intenzione di lungo periodo? Ma oltre i limiti dell’applicazione di modelli basati sulla compliance non possiamo nasconderci il tema del “green washing” cioè di quei comportamenti che riguardano aziende che, in concreto, fanno solo finta di essere molto impegnate sul fronte della sostenibilità.
Joseph Stieglitz, premio Nobel per l’economia 2001, vincitore della medaglia John Bates Clark, professore alla Columbia University ricorda un episodio che ha vissuto in occasione di un incontro di Davos:
«C’erano i vertici di un grande istituto di credito che mi spiegarono come fossero intervenuti in maniera radicale per sostituire le lampadine ad incandescenza con quelle a basso consumo in tutti i loro uffici. Ma nello stesso tempo gli ho fatto notare che avevano prestato enormi somme di denaro al settore del carbone e a quello della produzione energetica basata sui combustibili fossili. Insomma gli ho detto: avete ridotto da una parte il vostro impatto sostituendo le lampadine, cosa importante, sia ben chiaro e dunque positiva. Ma dall’altra parte avete finanziato dei grandi impianti di produzione elettrica che saranno con noi per almeno trent’anni. State commettendo un peccato ben più grave».
E’ evidente che quella banca non ha incorporato il concetto di sostenibilità nel suo Dna. Ha fatto solo del green washing, qualcosa di ecologico che è facile da mostrare e raccontare, senza però pensare a come le loro scelte imprenditoriali impattassero veramente (e duramente) sul pianeta. Ma, trattandosi di una banca, mi sento affermare che anche la decisione di cambiare le lampadine ad incandescenza non fosse il risultato di una sensibilità per la sostenibilità ambientale, bensì l’esito di un banale calcolo di investimento per la riduzione dei costi del consumo energetico (quando si parla delle banche, citando il divino Giulio, a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si azzecca).
D’altronde cosa attendersi da una classe dirigente formata e selezionata dai plutocrati, una élite neoliberale e cosmopolita di tecnocrati, manager e agenti della comunicazione che determinano le sorti delle società contemporanee: uomini che si sentono a casa propria soltanto quando si muovono, quando
«sono en route verso una conferenza ad alto livello, l’inaugurazione di una nuova attività esclusiva, un festival cinematografico internazionale».
Uomini che, in possesso di «una visione essenzialmente turistica del mondo», lasciano volentieri l’idea di una residenza stabile a una middle class ritenuta «tecnologicamente arretrata, politicamente reazionaria, repressiva nella morale sessuale, retriva nei gusti culturali». Uno smart people che, a Hong Kong come a Bruxelles o a New York, si sente «creativo», ma la cui creatività è rivolta soltanto a
«una serie di attività mentali astratte svolte in un ufficio, preferibilmente con l’aiuto di un computer, e non alla produzione di cibo, case o altri generi di prima necessità».
Il solo rapporto che, nel liberalismo moderno, l’élite ha con il lavoro produttivo è il consumo. Per il resto essa vive in una «iperrealtà», un mondo simulato di modelli computerizzati, dove non ne è più nulla del mondo comune e dove l’ossessione fondamentale è il controllo, la «costruzione della realtà» (diremmo, con il termine oggi in voga, la governance).
Pensando a noi
Ma la sfida per la sostenibilità ambientale (e sociale) oltre che per gli Stati, i governi e le aziende riguarda anche noi singoli. A volte ci trinceriamo dietro l’idea che le nostre piccole scelte quotidiane abbiano un effetto marginale sul quadro generale. Ma se tutti ragionassimo così saremmo davvero nei guai. Dobbiamo ribaltare i termini della questione. Dire che se io mi comporto in maniera sostenibile e anche gli altri si uniranno a me, allora sì che potremo fare la differenza in termini di emissioni e di impatto reale sulla transizione ecologica, consapevoli del fatto che non solo è necessario ma, purtroppo, anche urgente.
I Planetary boundaries
Dobbiamo affrontare quest’inerzia verso la transizione del mondo economico e politico e scardinarla. La chiave la possiamo cercare nell’innovazione anche se è impegnativa e costosa. L’innovazione come strumento radicale di cambiamento per spezzare il ciclo produttivo ed economico lineare basato sul principio di risorse infinite che ormai non fanno più parte del nostro presente. Dobbiamo ripartire dal concetto di quello che il mondo anglosassone chiama i Planetary boundaries, ovvero “i confini del Pianeta”.
Si tratta di una serie di nove confini planetari entro i quali l’umanità può continuare a svilupparsi e prosperare per le generazioni a venire. Questi nove confini planetari sono stati proposti per la prima volta dall’ex direttore dello Stockholm Resilience Centre, Johan Rockström e da un gruppo di 28 scienziati di fama internazionale nel 2009. I confini planetari sono i limiti di sicurezza per la pressione umana sui nove processi critici che insieme mantengono una Terra stabile e resiliente.
Nel settembre 2023, un team di scienziati ha quantificato, per la prima volta, tutti i nove processi che regolano la stabilità e la resilienza del sistema Terra. L’aggiornamento del 2023 non solo ha quantificato tutti i limiti, ma ha anche concluso che sei dei nove limiti sono stati superati. Oltrepassare i confini aumenta il rischio di generare cambiamenti ambientali improvvisi o irreversibili su larga scala. I cambiamenti drastici non avverranno necessariamente da un giorno all’altro, ma insieme i confini segnano una soglia critica per l’aumento dei rischi per le persone e gli ecosistemi di cui facciamo parte. I confini planetari sono interdipendenti, il che significa che se oltrepassiamo un confine, influenzeremo gli altri o addirittura li faremo uscire dallo spazio operativo sicuro.
Numeri spaventosi
La nostra relazione con questi limiti di sostenibilità è radicalmente cambiata nel corso degli ultimi decenni. Pensiamo agli ultimi sessanta, settanta anni un periodo che nella storia dell’Universo corrisponda a meno di un decimo di secondo. Settanta anni fa, sia il Pil globale sia la popolazione del Pianeta presentavano numeri ben diversi. Nel 1955 c’erano 2,8 miliardi di persone sulla Terra. Oggi, questa è solo la popolazione di India e Cina, i paesi più popolosi del mondo, entrambi con oltre un miliardo di persone, ciascuno dei quali rappresenta rispettivamente quasi il 18 per cento della popolazione mondiale. Nel 1960 il Pil globale era di 1,3 bilioni (1.364,50 miliardi di dollari americani). Nel 2023 è stato di 105,4 bilioni (il mondo finanziario a superato da tempo il trilione, a proposito delle forze in campo). Negli ultimi settanta anni la popolazione del Pianeta si è moltiplicata per tre, mentre il Pil globale lo ha fatto per 80 volte.
Questi sono numeri che fanno la differenza. Settanta anni fa eravamo ancora nettamente all’interno dei “confini del Pianeta”. Certo: stavamo distruggendo una parte del Pianeta, danneggiavamo l’ambiente e di certo non ci comportavamo in maniera sostenibile, ma il nostro impatto era diverso. Ora abbiamo compiuto un balzo epocale. Abbiamo triplicato la popolazione, abbiamo moltiplicato per ottanta i beni prodotti. Abbiamo dunque spinto all’estremo i confini sul fronte delle risorse e, quindi, della sostenibilità.
“Less is more”
L’espressione “less is more” (meno è meglio) può essere fatta risalire alla poesia “Andrea del Santo” di R. Browning, scritta nel 1855; successivamente ha trovato espressione concreta in architettura da Ludwig Mies van der Rohe. Da una ventina di anni è il manifesto di una corrente di pensiero che ritiene che per vivere meglio bisogna distaccarsi dall’ossessione degli acquisti continui, motore della società dei consumi e dell’economia capitalistica. Personalmente sono passato da una abitazione di 600 metri quadrati ad una di una quarantina e questo ha comportato massicci “less” e, contro le mie convinzione di oltre quarant’anni, quelli dell’accumulo, devo confermare la validità dell’espressione.
Aumentare la consapevolezza, non le “cose”
Ma non credo che possa essere considerata una formula valida a scala planetaria. Non lo credo perché se mi guardo intorno vedo che il nostro Pianeta è abitato da tanti, da miliardi di persone che vivono ancora nella povertà, che non hanno accesso alla salute e all’educazione. Per questo mi è chiaro che per chi come noi in Europa, negli Stati Uniti, nel mondo Occidentale, ha accesso a un livello soddisfacente di benessere, non è davvero necessario spingerlo ancora oltre, di alzarlo ulteriormente, ancor più se c’è il pericolo paventato da tanti scienziati di mettere a rischio la prosecuzione dell’umanità. Noi non abbiamo bisogno di aumentare il nostro benessere delle cose, semmai dobbiamo ampliare la nostra conoscenza, la nostra consapevolezza.
Modelli di redistribuzione
Sul fronte delle “cose” noi siamo a posto. Ma possiamo affermare che questo sia altrettanto vero per la maggior parte di questo Pianeta? Non credo. Dobbiamo porci il problema delle diseguaglianze e porvi rimedio. La sostenibilità non deve essere solo ambientale ma anche sociale. Dovremo affrontare il drammatico problema dell’accumulazione della ricchezza in poche mani e trovare modelli di redistribuzione.
Secondo la Federal Reserve alla borsa americana (Wall Street) l’1 per cento di superpaperoni hanno in azioni quanto il 99 per cento. Dati comunicati dalla Banca centrale statunitense che ha pubblicato un rapporto (settembre 2024) riguardante la distribuzione dei “corporate equities” e “mutual funds” in mano ai cittadini statunitensi. Allora? Allora la risposta è nell’innovazione. Dobbiamo riconoscere a miliardi di persone la qualità della nostra vita. Riconoscergli il diritto ai nostri stessi beni, al nostro benessere, alla nostra tutela della salute, alle stesse opportunità educative. Ma dovremo farlo riuscendo a ridurre l’impatto della loro crescita sul nostro Pianeta. Quindi sostenibilità e redistribuzione
Innovazioni “parsimoniose”
Dobbiamo crescere ancora, ma rientrare all’interno dei nostri Planetarys bounderies e sì, dobbiamo essere consapevoli del fatto che per farlo passa dobbiamo affiancare alla transizione ecologica e alla redistribuzione, l’innovazione. La dobbiamo portare avanti in modo globale e sistemico e lo dobbiamo fare tutti, ciascuno di noi nell’ambito in cui opera perché se è vero che ci saranno i grandi salti tecnologici, come l’abbattimento dei costi dell’energia rinnovabile (si parla del 75 per cento o più, grazie alle prossime tecnologie) è anche vero che avremo bisogno di tante piccole innovazioni, minori, ma comunque necessarie. Innovazioni “parsimoniose”, che ci permetteranno di consumare di meno e produrre di più. Anche il modo in cui consumeremo (oltre che produrremo) è una forma di innovazione. Dobbiamo concepire l’innovazione con una mentalità ampia, aperta, inclusiva. Qual è, dunque, lo scopo dell’economia. Una cosa è chiara: l’economia deve tornare ad essere una scienza sociale. Non sono le persone a doversi mettere al servizio dell’economia, ma è proprio l’economia che deve farlo, che deve servire le persone nel senso più ampio. Deve contribuire ad alzare gli standard, la qualità della vita.
Sostenibilità e salute
Non possiamo avere un’economia sostenibile se non in un ambiente sano. Non possiamo pensare di essere sostenibili in termini sociali, politici ed economici se la popolazione globale non è complessivamente sana. Desta, dunque, preoccupazione che l’aspettativa di vita negli Stati Uniti è scesa a quota 76 anni, nientemeno che ai livelli del 1996. La pandemia ha avuto certamente un’influenza sui dati più recenti, ma il processo era già in corso da tempo e per diversi motivi. Nel nord est dell’Ohio, per esempio, il numero di morti violente, incidenti od overdose, o di decessi per malattie croniche è di gran lunga superiore alle medie nazionali.
«La prima cronicità è l’obesità, la seconda è il tabagismo e al terzo posto vi è l’epidemia di oppioidi»,
spiega Brad Schneider, medico di base di Ashtabula. Una figura di cui c’è carenza: la media in Ohio è meno della metà di quella nazionale: una ogni 3.800 abitanti (in Italia un medico di famiglia non può avere più di 1.500 assistiti).
Il disvalore dei valori neoliberisti
Il declino delle aspettative di vita (negli Stati Uniti) e, o, la crescita della diseguaglianza sociale sono sintomi del declino sociale. Se fossimo economisti con uno sguardo ristretto, potremmo dire che una forza lavoro che subisce il declino è di fatto improduttiva. Ma dobbiamo andare ben oltre, ci dobbiamo chiedere se questa non un’ulteriore prova che il sistema capitalistico a trazione neoliberista ha finito il suo ciclo, non funziona. Il declino delle aspettativa di vita è un sintomo chiaro del fatto che il nostro sistema economico non sta operando come invece dovrebbe e questa è una delle ragioni per intervenire e riformare in maniera significativa il sistema economico, politico e sociale imposto dal neoliberismo e governato dalle plutocrazie finanziarie.
La meritocrazia: l’idolatria dell’Io sul Noi.
E’ il modello culturale e valoriale che deve essere riformato radicalmente. La diseguaglianza viene giustificata dai giullari del modello neoliberista come “normale”, “naturale” e “giusto” effetto delle maggiori o minori capacità del singolo. La meritocrazia è oggi la legittimazione etica della diseguaglianza. Nel XX secolo, in Europa, abbiamo combattuto la diseguaglianza come un male; nel XXI secolo, è bastato cambiarle nome (meritocrazia) per trasformare la diseguaglianza da vizio a virtù pubblica. Destino bizzarro, spiega Luigino Bruni, economista cattolico vicino a papa Francesco, se si pensa che la meritocrazia è stata ed è presentata come una lotta alla diseguaglianza; per questo la bizzarria che i fanatici della meritocrazia siano persone che in buona fede vorrebbero una società migliore e più giusta. La meritocrazia prima di diventare dogma economico, e promessa tradita da Giorgia Meloni, era una categoria religiosa e teologica. «Lucrare meriti», «guadagnarsi il paradiso» e altre sono espressioni e temi che per secoli sono stati al centro della pietà cristiana. Le radici vengono da lontano.
Preservare un ambiente sano, una forza lavoro sana, un’umanità sana è essenziale per poter contare su un’economia e una società sana e sostenibile nel presente e nel futuro dei nostri figli.
Fonti
Richardson, K., Steffen, W., Lucht, W., Bendtsen, J., Cornell, SE, Donges, JF, Drüke, M., Fetzer, I., Bala, G., von Bloh, W., Feulner , G., Fiedler, S., Gerten, D., Gleeson, T., Hofmann, M., Huiskamp, W., Kummu, M., Mohan, C., Nogués-Bravo, D., Petri, S., Porkka, M., Rahmstorf, S., Schaphoff, S., Thonicke, K., Tobian, A., Virkki, V., Weber, L. & Rockström, J. 2023. La Terra oltre sei dei nove confini planetari. In Progressi scientifici9, 37. DOI: 10.1126/sciadv.adh2458
“Per la prima volta sono stati mappati tutti i confini planetari, sei su nove sono stati superati” in Stockholm Resilience Centre, 13 settembre 2023.
“USA, calo drastico della speranza di vita”, RSI, radio svizzera italiana, Telegiornale 5 novembre 2023.
Stiglitz J. (2023) “Sostenibilità è crescere, conservare (l’ambiente) e condividere il benessere” intervista di Gigi Donelli su Radio24, 09 novembre 2023.
Vittorio Carlini (2025), “Wall Street, l’1% di americani ha in azioni quanto il 99%”, Il Sole 24 Ore, 05 gennaio 2025.
“Mondo Pil 1960-2023 Dati”, dal sito Trading economics