Durante le 80 mila interviste fatte ai manager dalla Gallup è stata posta questa domanda:
«Avete un dipendente di talento, che però arriva sempre tardi al lavoro: che cosa gli direste?».
Le risposte spaziavano tra l’autoritarismo e il laissez-faire: «Io lo licenzierei; qui non tolleriamo ritardi». «Io prima lo rimprovererei a voce, poi gli farei un rimprovero scritto e alla fine lo licenzierei». «Io chiuderei la porta dell’ufficio e gli direi che, d’ora in avanti, se mi fa due secondi di ritardo non entra più». «Per me va bene così. Non mi interessa a che ora arrivano, a patto che rimangano fino a tardi e finiscano il lavoro».
Ciascuna di queste risposte è plausibile. E ciascuna ha i propri meriti. Ma non erano queste le risposte dei grandi manager.
Quando è stato chiesto loro cosa farebbero con un dipendente che arriva sempre in ritardo in ufficio, i grandi manager hanno dato sempre la stessa risposta, che sintetizza il loro atteggiamento nei confronti del rapporto tra manager e dipendente: «Io gli domanderei perché».
MARCUS BUCKINGHAM e CURT COFFMAN, saggisti e consulenti statunitensi di management, Primo: rompere le regole. Come i manager possono mettere a frutto il talento dei loro dipendenti, 1999, Baldini & Castoldi, 2001, traduzione di Carla Maria Xella e Andrea Filippo Barabino, estratto, p. 259-260
MANAGER ‘GRANDI’? (commento a margine di Massimo Ferrario)
Pensiamoci un secondo: i ‘manager grandi’, secondo questo sondaggio Gallup di qualche anno fa, sono quelli che, prima di mettere in atto qualunque altra azione, ‘chiedono perché’ ai collaboratori che hanno un comportamento anomalo. C’è da augurarsi che lo stesso sondaggio, ripetuto, oggi dia lo stesso risultato, magari pure con incremento di percentuale (quella di allora non ci viene detta) tale da arrivare a sfiorare il 100%. E i manager ‘a favore del perché’ oggi rispondenti ci sarebbe da augurarsi non vengano più chiamati ‘grandi’. Ma semplicemente e solo ‘manager’.
Perché agli altri, titolari di ogni altra risposta, non dovrebbe spettare la qualifica di manager. Ho tuttavia dei dubbi che ambedue i progressi si possano realizzare. Credo anzi che sarebbe da registrare un progresso anche solo il fatto che una percentuale non trascurabile, benché magari più bassa rispetto a ieri, di manager sottoposti alla stessa indagine opti caparbiamente per il chiedere ‘perché’ ai collaboratori. Se questo avvenisse sarei disposto anche a celebrarli con una ‘standing ovation’.
Non so se, come spesso capita, sono classificabile tra i ‘pessimisti’ (come molti mi dicono) riguardo alla cultura manageriale aziendale oggi prevalente, o tra i ‘realisti’. E’ vero che non ho fatto ricerche ad hoc, ma ho la sensazione che stiamo registrando una regressione vistosa. Del resto, se così fosse, sarebbe tutto perfettamente congruente con il clima socio-politico in cui, non solo in Italia, siamo da anni.
Temo che chiedere perché a molti apparirebbe una perdita di tempo, quando non un cedere alla… ‘filosofia’. Arrivano in ritardo, che c’è da capire? Agire, bisogna: subito. Poi, in Italia, certamente non mancherebbe chi farebbe finta di nulla: in fondo il lasciar fare è una scelta che mantiene sempre un suo fascino: quello del non assumersi responsabilità. Della serie non-so-non-ho-visto-se-c’ero-dormivo: tanto si è sempre in tempo, quando proprio si è costretti a intervenire perché ci viene chiesto dov’eravamo noi, a puntare il dito scaricando sugli altri.
———————————————————————–******————————————————————————
Marcus Buckingham, 1966, è consulente aziendale e speakar motivazionale;
Curt Coffman, 1950, consulente aziendale, è stato Global Practice Leader per il coinvolgimento dei dipendenti e dei clienti presso la Gallup Organization per 22 anni.
(NB: titolo non scelto dagli Autori e formattazione in più paragrafi rispetto all’originale)