Un bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto
Secondo l’Istat, a marzo di quest’anno, il numero di disoccupati in Italia, calcolato a quota 3.248.000 persone, è diminuito dello 0,2% rispetto al mese precedente (meno 5000 unità) ma risulta in aumento del 6,4% su base annua (più 194.000 unità).Particolarmente negativo il tasso della disoccupazione giovanile (15-24 anni) che a marzo ha raggiunto il 42,7%.
Secondo l’Eurostat, l’Istat europeo, il tasso di occupazione italiano nel 2013 è sceso al 59,8%, ben lontano dalla media dell’Unione europea che si è attestato al 68,3%. Il calo del tasso di occupazione è stato il più consistente dopo quello della Grecia che si è ridotto al 53,2%. Ai primi posti si sono collocati la Svezia con il 79,8%, la Germania con il 77,1% e la Danimarca con il 75,6%. Con un tasso inferiore al 60% si allontana nel tempo l’obiettivo dell’occupazione al 67% che l’Italia dovrebbe raggiungere entro il 2020, a fronte di un target europeo del 75%.
A giudizio di giuslavoristi, economisti e imprenditori il provvedimento di legge del governo Renzi (cosiddetto “Decreto Poletti”) che mira a liberalizzare i contratti a termine ed a incentivare l’apprendistato, non sembra avere la forza necessaria a invertire la tendenza negativa del tasso di occupazione e rischia anzi di accrescere la precarizzazione del mondo del lavoro, a parte gli errori tecnici e i difetti di forma del testo legislativo. In effetti, essi avvertono, il decreto governativo manca di forza cogente nei confronti dei datori di lavoro, avendo perso l’obbligo, previsto in un primo tempo, di stabilizzare i lavoratori oltre il tetto del 20% dei contratti a tempo indeterminato e introdotto in sua vece una semplice sanzione pecuniaria amministrativa e reso alquanto effimero l’0bbligo di stabilizzare i lavoratori al termine delle proroghe del contratto precario nell’arco dei 36 mesi e introdotto in sua vece, in via sperimentale, l’ipotesi alquanto nebulosa di “contratto a tempo indeterminato a tutele progressive”. Lo stesso può dirsi sul fronte dell’apprendistato, laddove il limite di stabilizzazione dei lavoratori apprendisti, qualora le imprese intendano assumerne di nuovi, è ridotto al 20% degli apprendisti in forza, rispetto al 50% previsto in precedenza, e vale solo nei confronti delle aziende con più di 50 dipendenti.
Secondo gli esperti del settore, il problema dell’occupazione in Italia è caratterizzato dall’enorme divario esistente tra le risorse destinate alle politiche passive di tutela dei redditi (ogni anno, dei 29 miliardi di euro spesi per il lavoro ben 23 miliardi servono a finanziare gli ammortizzatori sociali) e le briciole destinate alle politiche attive che dovrebbero promuovere l’impiego. A ridurre in parte questo divario sono rivolte le misure annunciate per la seconda fase della riforma generale del mercato del lavoro, il “Jobs Act” del governo Renzi: le politiche attive per l’occupazione appunto, a tutela delle opportunità, attraverso il potenziamento dei centri di impiego e la creazione della Agenzia nazionale per il lavoro, l’utilizzo dei fondi messi a disposizione dall’Unione Europea (come gli 1,5 miliardi di euro per il biennio 2014-15 del programma “Garanzia Giovani” ), la riforma degli ammortizzatori, l’introduzione del contratto a tutele crescenti e la più ampia riduzione dei contratti di ingresso. Tuttavia, anche queste misure, movendosi prevalentemente nell’ottica della salvaguardia della occupazione esistente, non sembrano forza propulsiva sufficiente per creare nuova occupazione e riavvicinare il tasso di crescita all’obiettivo del 67% prefissato in ambito europeo.
La via più efficace per contemperare le due esigenze della stabilizzazione dei rapporti di lavoro, da un lato, e del contrasto alla disoccupazione, dall’altro, resta sempre, a parere degli esperti, quella della riduzione del costo del lavoro attraverso la defiscalizzazione degli oneri sociali a carico di imprese e lavoratori e la riforma in senso dinamico degli ammortizzatori sociali. In questo senso andrebbero riconsiderati alcuni propositi ancora abbozzati nel “Jobs Act”, come la riduzione del costo del contratto a tempo indeterminato in alternativa alla sterile “prorogatio” dei contratti a termine e nuove agevolazioni fiscali per interventi di formazione. E se il problema del lavoro è un’emergenza assoluta per i giovani, sarebbe stato forse più utile destinare i 10 miliardi di euro affluenti a tempo indeterminato
alle fasce di reddito più basse proprio alle politiche attive per l’occupazione giovanile: certamente darebbero una spinta più decisa alla soluzione del problema, più di quanto non farebbero gli 80 euro di bonus per risollevare la domanda interna e stimolare i consumi.