“A quest’ora, da Moccia, solo le vecchie golose che scelgono con cura le paste. Le chiamano coi dolci nomi affettuosi : scazzetta di cardinale, cassatina, sciù, preziosa, dora, cannolo e sfogliatella.
E ne mangiano in piedi, compunte, almeno tre.“
( Raffaele La Capria – Ferito a morte.)
E’ una ben strana storia quella dei ricordi…o meglio delle ricorrenze.
Per anni una dimenticanza dai toni oscuri ricopre il nome, il corpo, l’idea di una persona.
Anche se l’hai pianta, se hai quel nome e quel viso stampati a fuoco sul cuore, anche se ne senti la mancanza in modo dolorosamente tangibile, ti accorgi che intorno a te il silenzio, anche consolatorio, copre tutta la sua vita e le sue cose.
E così avviene la dolce e necessaria eleborazione della morte.
Una data, in giugno, in novembre, in marzo e tutti all’improvviso rimembrano tutto.
In una gara di memoria che permetta di accedere ai più minuti accadimenti, agli episodi più dolci e gustosi di tutta una vita. Una sorta di tardo pettegolezzo senza che l’interessato possa controbattere, negare, sorridere.
E’ il rito un po’ pagano, un po’ bestiale della Ricorrenza.
Vent’anni dalla morte di Massimo Troisi.
Tutti ricordano l’attimo esatto in cui hanno appreso la notizia.
Io non ricordo dov’ero quando ho saputo della sua morte, ma so bene cosa accadde alla fine della visione del suo film più bello, del suo ultimo film.
Così mi metto in coda per raccontare la mia storia.
Inizia allorquando alla Rinascente di Via Roma mia sorella maggiore aderisce alla richiesta di una colletta organizzata dal Mattino di Napoli affinchè un ferroviere di S.Giorgio a Cremano possa mandare suo figlio ventitreenne a Houston per un’operazione al cuore.
Sono gli anni ’70.
C’è stato il referendum sul divorzio. I No sono esplosi come un’atomica, hanno inondato il paese con un diluvio purificatore. Inizia lentamente l’ascesa del Partito Comunista di Enrico Berlinguer. Un comunista, Maurizio Valenzi, amministra la città di Napoli.
La voce di Pasolini si spegne tra il fragore eversivo delle Brigate Rosse.
I Saraceni invadono scantinati e cantine.
Nascono le prime Tv locali: Televomero, Telecapri, Canali 21, Napolitivù e i tre Saraceni Troisi-Arena-De Caro vi appaiono nella nuova dizione che rimanda a sogni, numeri e vincite al lotto: La Smorfia.
La Smorfia è un simbole tenace della napoletanità : è necessaria una definizione che chiarisca bene l’intenzione trasgressiva del gruppo, un nome simbolico che nei fatti neghi il folklore, la visione oleografica di questa città.
Il tono irriverente del gruppo è evidente, riesce a colpire e distruggere in poche battute con un gioco di ruoli ben definito tutti i luoghi comuni, non solo su Napoli, ma sulla creazione stessa.
Dio, la Madonna e i Santi sono oggetto di tenere disquisizioni.
La raffinatezza della comunicazione, sempre serena, senza volgarità o eccessi verbali.
L’uso di neologismi e motti surreali, lo scherno nei confronti della lingua e di molti termini desueti fanno della loro comicità un luogo di cultura e genialità.
Quando Massimo deve descrivere fisicamente con gesti ed espressioni facciali la Subornazione non sa cosa fare “Ma cherè sta subornazione, io non l’aggi mai vista”.
Recitano al centro della città, al San Carluccio in Via Chiaja.
Con loro torna la dissacrazione anche verbale iniziata da Totò e la critica sociale messa in scena meravigliosamente da Eduardo. Loro tre rappresentano gli eredi della cultura più alta di questa città, capaci di segnalare, enumerandoli, i vizi di una Napoli banale e pittoresca, merce avariata venduta all’ingrosso.
Fin dalla prima volta segnano il confine tra arte, genio e mediocrità. Loro sono oltre, molto oltre il confine, nel regno luminoso della satira pura.
E come è avvenuto per le frasi surreali di Totò, le trovate geniali di Eduardo, le loro storie divengono lessico familiare. Il “minollo”, animale con orecchie di carta di giornale invocato da Massimo per poter far parte degli animali salvati da Noè.
L’entrata triofale al grido “ Annunciazione! Annunciazione!” di Lello Arena rivolto ad una Maria ignara e piuttosto “scucciata”.
La critica appassionata a Dio per aver concepito animali mal riusciti e sfortunati:
“L’elefante, l’elefante te pare bello? C’hai miso chella proboscide!”.
Infine il dito puntato di Pertini e la frase “Chi ha preso i soldi del Belice? ”.
I tre fanno parte della nostra vita fin da principio, compagni di chiacchiere leggere, di pensieri trasgressivi, di risate intelligenti.
Il loro linguaggio, forse arduo per i non napoletani, è per noi familiare: confortevole, ammiccante, confidenziale, mai aggressivo ma caustico più di un acido corrosivo, che lo colloca in un mondo iconoclasta volutamente rivoluzionario.
Poi Massimo dirige il suo primo film…il secondo…fino a Il Postino, la sua ossessione.
Il Postino è il “suo” film, non solo perché è il suo testamento, passatemi la banalità, ma perché c’è il suo viso, la sua “persona”, la sua straziante bellezza, il resoconto della sua vita.
Il film si muove su due diverse dimensioni: quella degli attori che recitano una parte e quella di Massimo che vive la sua vita, che agisce i suoi ultimi giorni, che visita le sue ultime ore. Commovente nel suo viso scavato e attonito, commovente nella magica acqusizione della Metafora.
Con occhi enormi del neonato che vuol afferrare il mondo in uno sguardo, impossessarsene per ricordarlo.
Occhi grandi per assaporare il visibile, per raccontare le sue Metafore… che diventano ragione di vita, esistenza oltre la propria casa e la propria terra.
Per raccontare l’amore, ma anche per capire l’universo coscientemente. Consapevole di farne parte. “Metafore e metonimie non sono figure retoriche, cioè ornamento, ma schemi di pensiero fondamentale per l’essere umano, noi pensiamo, ragioniamo e addirittura percepiamo solo grazie ad esse”.
Diventa una barca sballottata dai flutti nel mare di parole di una poesia di Neruda.
Si domanda se la Terra, il cielo, il mare, la pioggia, le nuvole non siano altro che la Metafora di qualcos’altro.
La poesia diviene un paradigma dell’esistenza di un uomo che vuol vivere tutta l’essenza umana nella sua interezza. Far parlare il suo corpo stanco, il suo volto incredulo e le sue mani, le sue bellissime mani, simili a quelle di mio padre, anch’egli uomo gentile.
Nella mia vita di giornalista non sono mai riuscita ad incontrarlo.
Al Festival Nazionale dell’Unità del 1976 ero nella squadra di Giulio Baffi, oggi presidente dei critici teatrali, che si occupava degli spettacoli.
Suggerii quindi di scritturare il trio per una serata, mi sarebbe piaciuto incontrarli. Giulio non prese neanche in considerazione l’ipotesi e molto irritato spiegò che quei tre ormai avevano perso la testa da quando apparivano in Tv, chiedevano 300 mila lira a spettacolo : la loro comicità era senza dubbio provinciale, rozza e di infimo livello. Li trovava insopportabili. Pochi anni e sarebbero scomparsi per sempre.
Furono scritturati I Giancattivi che, affermò “il capo”, facevano una satira più divertente e molto più colta.
Non so se in seguito si sia sinceramente ricreduto e poco importa.
Certamente in varie ricorrenze si è espresso diversamente da quel lontano 76, quando Massimo era ancora in vita.
“Oggi ricordiamo le sue frasi geniali che fissarono le ansie, i sogni, le illusioni, i sentimenti di una generazione” E anche “Meglio ricordare Troisi vedendo i suoi film, le sue geniali apparizioni televisive, le sue interviste, per capire come un giovane timido e schivo seppe essere un grande artista”.
La “Ricorrenza” è come l’aspidistra: cela la verità come la pianta i suoi fiori.
Raffaele La Capria scrive in Ferito a morte:
“Mancano di complicità i miei articoli, eccola la ragione. Mancano di quella complicità che pretendono si stabilisca tra ognuno e la città. Rompono la paternalistica unità psicologica che incanaglisce e amalgama le classi in una fluida massa. La strizzatina d’occhio equivoca, quella manca.”