La vicenda dei marò in India: “nata male e proseguita peggio” nelle parole di Renzi.

 

Come spesso avviene nelle vicende italiane, un evento imprevisto produce una rianimazione improvvisa di questioni sopite da tempo per ricondurle poi, il più delle volte, nel consueto letargo. Così è avvenuto dopo l’ischemia che ha colpito il fuciliere di Marina Massimiliano Latorre, da oltre due anni trattenuto in India e in attesa di processo insieme al commilitone Salvatore Girone con l’accusa di avere ucciso due pescatori mentre erano in missione di scorta armata su un mercantile italiano in acque internazionali, al largo delle coste del Kerala. Le pressioni del Governo italiano sui giudici e sul Governo indiano hanno ottenuto che venisse concessa a Latorre un permesso di quattro mesi per curarsi in Italia, mentre l’altro marò resta consegnato presso l’Ambasciata italiana in New Delhi.

 

Il presidente del Consiglio Matteo Renzi ha espresso “stima per il premier Modi e il suo governo” e fiducia nella futura collaborazione con l’esecutivo e la giustizia indiana per giungere ad una soluzione della ormai annosa vicenda, nelle parole dello stesso Renzi, “nata male e proseguita peggio”. Nata male, sembra intendersi, perché iniziata nel febbraio del 2012 con la consegna del mercantile e dei due militari alle autorità dello stato del Kerala, non si sa bene ancora se avvenuta per autonoma decisione del comandante della imbarcazione o, molto più probabilmente, su indicazione delle autorità italiane. Proseguita peggio, con il ritorno in India dei due marò dalla licenza natalizia concessa dai giudici indiani, la messa in stato di arresto domiciliare presso l’ambasciata italiana a New Delhi, i rinvii innumerevoli e gli sbandamenti del processo intentato nei loro confronti dal tribunale speciale costituito il 18 gennaio 2013 con ordine della Corte suprema per decidere il caso in base alla legislazione indiana.

 

Dopo oltre due anni e mezzo dalla costituzione del tribunale speciale non si profila ancora una soluzione della vicenda sul piano procedurale, dato che davanti alla giustizia indiana restano aperti ben quattro procedimenti. Il processo iniziale, avviato nel novembre 2013, è stato sospeso dal ricorso presentato il 13 gennaio 2014 dallo Stato italiano alla Corte Suprema sui ritardi nelle indagini condotte dalla polizia indiana e sulla applicazione ai due marò della legislazione nazionale in materia di anti-terrorismo. E’ seguito un nuovo ricorso presentato soltanto a nome di Latorre e Girone e ammesso dalla Corte Suprema il 28 marzo 2014, in cui si contestavano la legalità e la validità dell’inchiesta condotta dall’agenzia anti-terrorismo e si chiedeva che, in attesa delle controdeduzioni del governo indiano, i due fucilieri potessero tornare in Italia. Infine, il 26 aprile 2014, il legale del proprietario del peschereccio coinvolto nell’incidente ha presentato ricorso alla Corte Suprema per richiedere il trasferimento del processo nel Kerala.

 

Con l’improvvida consegna dei militari italiani alle autorità del Kerala, dopo il trasferimento del mercantile italiano sul quale essi erano imbarcati nel porto di Kochi e, poi, con la decisione di farli rientrare in India dopo la licenza natalizia, lo Stato italiano ha ammesso implicitamente ammesso la capacità della giustizia indiana a pronunciarsi sul caso, con la speranza che avesse in seguito a dichiarare la sua incompetenza, riconoscendo la loro immunità funzionale al servizio di uno Stato estero e il fatto che la disgraziata uccisione dei pescatori indiani era avvenuta in acque internazionali, e restituisse di conseguenza gli ostaggi alla giustizia del paese di appartenenza o eventualmente devolvesse il caso ad un organismo internazionale di arbitrato. Per motivare giuridicamente il processo penale avverso i due marò per fatti accaduti fuori dalle acque territoriali (fino a 21 miglia dalla costa) la giustizia indiana si è richiamata alla legge di repressione di attività terroristiche che consente di perseguire atti compiuti nella zona marittima esclusiva fino a 200 miglia dalla costa, assimilando i militari a terroristi e disconoscendo l’immunità funzionale. Contro questo atteggiamento il ministro degli Esteri Bonino (nel Governo Letta) ha protestato ufficialmente chiedendo l’intervento delle Nazioni Unite, dopo che l’Alto Rappresentante dell’Unione Europea, Catherine Ashton, e il Segretario Generale della Nato, Fogh Rasmussen, si erano schierati a favore dell’Italia , sottolineando le conseguenze negative che le accuse mosse ai marò potevano avere sulla lotta al terrorismo a livello globale. La risposta del Segretario delle Nazioni Unite, Ban Ki-Moon, è stata finora evasiva.

 

A distanza di due anni dal malaugurato incidente e di fronte alla dimostrata incapacità della giustizia indiana di avviare in questo tempo un processo equo, il punto centrale della vicenda resta quello da sempre evidenziato dagli esperti di diritto internazionale: i due marò sono organi dello Stato e, come tali, godono della immunità dalla giurisdizione indiana per gli atti compiuti nell’esercizio delle funzioni, tanto più che il fatto è avvenuto in acque internazionali. Il Governo Renzi sembra intenzionato a muoversi in una duplice direzione per una sollecita soluzione del caso: sul piano bilaterale, indurre il Governo indiano a riconosce il suddetto principio e quindi a concludere il processo, dichiarando la propria incompetenza a giudicare dei due marò in base allo stesso principio e, se questo non si verificasse in tempi brevi, adire le giurisdizioni internazionali, quali il Tribunale internazionale di diritto del mare, ciò che, secondo gli esperti, l’Italia avrebbe dovuto fare sin dall’inizio. In particolare, secondo la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare, l’Italia potrebbe ricorrere a un arbitrato ex allegato VII per decidere sulla giurisdizione. La possibilità di evitare la più complicata via internazionale si è fatta più favorevole con la vittoria alle recenti elezioni politiche del partito di Narendra Modi, ora primo ministro, che, a differenza del partito del Congresso di Sonia Gandhi, non è più vincolato dal fattore dell’ “italianità” (della Gandhi) che in passato aveva impedito la trattativa extra-giudiziale condotta dal sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura. Sia sul piano diplomatico bilaterale che sul piano giuridico internazionale si richiede ora da parte italiana una più decisa e competente capacità di intervento, per evitare che la questione torni a precipitare nel tormento delle reciproche recriminazioni e nelle discussioni dottrinali. Intanto, si dovrebbe profittare della presidenza semestrale italiana dell’Unione Europea e della prossima assunzione del ministro degli Esteri Mogherini all’incarico di Alto Rappresentante della politica estera europea per inserire la vicenda dei marò nei profili operativi del piano di azione della nuova strategia europea per la sicurezza dei mari, attualmente in fase di definizione a Bruxelles, e ottenere un maggiore e concreto impegno da parte dell’Unione, ove dovessero verificarsi in futuro casi del genere.