Opportunità non condonistica per i capitali detenuti all’estero.
L’opinione pubblica sta sempre più spingendo i Governi centrali dei Paesi a porre maggiore attenzione a temi di interesse della collettività dei cittadini quali l’ambiente, la corruzione e l’evasione fiscale.
L’evasione fiscale si interfaccia anche con le esigenze di gettito dei bilanci pubblici, specialmente negli ultimi anni dopo la crisi globale del 2007-2009, e si è quindi assistito ad una azione sempre più concertata tra i paesi OCSE, in primo luogo gli Stati Uniti, per il contrasto dell’evasione e per comprimere le possibilità di utilizzare i c.d. paradisi fiscali. Nel 2010 il Congresso degli Stati Uniti valutò in 100 miliardi di dollari il danno causato dall’evasione fiscale di contribuenti statunitense in paradisi fiscali.
Il punto di partenza per le politiche di contrasto ai paradisi fiscali e all’evasione rinvia alle Raccomandazioni del G20 di Londra del 2009, cui è seguita la Direttiva 2011/16/UE, per indirizzare gli Stati membri a favorire procedimenti di volontaria collaborazione dei contribuenti con le Amministrazioni nazionali in funzione della regolarizzazione della loro posizione fiscale.
Il Governo italiano, dopo le critiche che negli anni passati hanno accompagnato i c.d. Scudi fiscali, ha emanato, con un lungo e travagliato iter, un provvedimento che consente l’emersione dei capitali all’estero giovandosi di benefici sul piano sanzionatorio e penale.
Si tratta della legge 15 dicembre 2014 n. 186, la quale prevede una collaborazione volontaria (Voluntary Disclosure) finalizzata alla regolarizzazione fiscale dei patrimoni illecitamente detenuti all’estero.
I contribuenti che in passato abbiano omesso di denunciare al Fisco beni e attività detenute all’estero (o anche in Italia) possono, entro il 30 settembre 2015, regolarizzare la propria posizione pagando le imposte su tali redditi e in misura ridotta le relative sanzioni tributarie previste. Per coloro che aderiscono alla procedura viene anche meno la punibilità per i delitti di infedele dichiarazione, omessa dichiarazione, omesso versamento di ritenute, omesso versamento dell’IVA, dichiarazione fraudolenta mediante fatture o altri documenti per operazioni inesistenti, dichiarazione fraudolenta mediante artifici o raggiri (art. 5-quinquies della legge).
A differenza degli scudi fiscali la Voluntary Disclosure (VD) non prevede il regime di anonimato, ma richiede invece una autodenuncia spontanea, completa e veritiera e questa “confessione” fornisce la giustificazione per le riduzioni delle sanzioni e la non punibilità di determinati illeciti.
Pur allineandosi agli impegni internazionali dell’Italia, la VD mira anche al recupero di gettito fiscale, analogamente a quanto avvenuto in passato per gli scudi fiscali, che sotto questo profilo sembrano aver dato soddisfacenti risultati. Resta da vedere se la VD avrà o meno il successo sperato.
Erano state effettuate stime di gettito (fino a 8 miliardi) provenienti dalla VD, che attualmente non sembrano però realistiche ed in effetti anche a livello governativo si usa al riguardo molta prudenza. Ne è prova la dichiarazione del Sottosegretario delle Finanze Zanetti, il quale ha precisato che solo alla scadenza del termine per la presentazione delle istanze di VD, cioè al 30 settembre 2015, sarà possibile quantificare l’imponibile.
In effetti la complessità della procedura e le incertezze che finora hanno caratterizzato la stessa, hanno fatto si che fino agli inizi di giugno solamente n. 1836 istanze di VD risultavano pervenute all’Agenzia delle Entrate, ma da varie fonti sembra emergere che la presentazione di qualche migliaio di domande attende solo che vengano eliminate le principali incertezze applicative, in primo luogo quella sul raddoppio dei termini di accertamento.
D’altronde determinare l’imponibile ed effettuare una valutazione dei costi (gli scudi consentivano una pronta quantificazione della tassazione) si presenta per il contribuente come operazione lunga e complessa, tale da suggerire nei casi più complicati il concorso del tributarista, del commercialista e dell’avvocato penalista e civilista.
La legge (art. 1) richiede “l’indicazione spontanea di tutti gli investimenti e di tutte le attività di natura finanziaria costituiti o detenuti all’estero, anche indirettamente o per interposta persona, fornendo i relativi documenti e le informazioni… nonché dei redditi…” Proprio per la caratteristica di autodenuncia della VD il contribuente dovrà reperire e presentare una documentazione il più possibile analitica, per ottenere la quale dovrà ovviamente ricorrere alla collaborazione degli intermediari esteri. Ma, a prescindere dalla insita complessità della documentazione (es. estero vestizioni, interposizioni di società…), è fondato ritenere che possa mancare in qualche caso la necessaria tempestività dell’intermediario, dato che probabilmente in futuro vedrà sparire quel determinato cliente.
D’altronde per avere qualche chiarimento attraverso le circolari dell’Agenzia delle Entrate – pur se, come noto, i documenti di prassi non hanno valore normativo – si é dovuto attendere il mese di marzo 2015.
Concomitano quindi una serie di fattori che evidenziano la necessità di una proroga (almeno fino al 31 dicembre) della cenata scadenza del 30 settembre 2015, anche perché la proroga non sarebbe solo a vantaggio dei contribuenti e dei professionisti che li assistono, ma anche del Fisco in funzione degli introiti attesi, sui quali il Governo, malgrado le dichiarazioni prudenziali, non può non fare affidamento, soprattutto ove si pensi alle varie clausole di salvaguardia fiscale che ci attendono al varco nel triennio fino al 2018 e che valgono almeno 70 miliardi di carico fiscale.
La decisione di avvalersi della procedura di VD richiede ovviamente una valutazione del rapporto costi-benefici. Come già detto la legge appare farraginosa e con molteplici aree di criticità (es. scomputo delle imposte pagate all’estero, effetti collaterali su altri soggetti, cause ostative non conosciute, ecc.), molte delle quali potranno ancora per qualche tempo rimanere tali. Una delle più autorevoli voci italiane in materia fiscale, il Prof. Victor Uckmar, ritiene che il provvedimento non può qualificarsi nemmeno come “intricato cruciverba” perché questo, sia pure con difficoltà, si risolverebbe.
Particolare incertezza può tra l’altro nascere dal fatto che la legge obbliga l’Agenzia delle Entrate a comunicare l’esito positivo della VD all’Autorità Giudiziaria, la quale dovrà valutare la situazione e procedere ove ritenga che sussistano reati non coperti dalla VD. In pratica l’obbligo di comunicazione sta a significare che viene aperto un fascicolo in Procura a nome del contribuente che ha effettuato la VD. La Procura della Repubblica potrebbe disattendere la definizione raggiunta con l’Agenzia delle Entrate e il contribuente si troverebbe a subire le conseguenze di una confessione non voluta.
Tuttavia, ai fini della decisione di avvalersi o meno della procedura di VD quel che può maggiormente rilevare è la prospettiva dell’impossibilità di continuare ad utilizzare in futuro strumenti elusivi. I detentori di averi patrimoniali all’estero non dichiarati si trovano ora di fronte ad un mutato quadro internazionale di cooperazione e scambio di informazioni in materia fiscale, che rende per il futuro molto più rischiosa la posizione dell’evasore italiano, anche per effetto dell’introduzione nel nostro Codice Penale del reato di auto-riciclaggio.
Nell’ottobre 2014 tra 51 Paesi, tra cui l’Italia, è stata raggiunta un’intesa per superare il segreto bancario internazionale: si tratta dell’accordo multilaterale per lo scambio automatico di informazioni finanziarie contro l’evasione fiscale internazionale (Common Reporting Standard-CRS, elaborato dall’OCSE), con l’implementazione di un nuovo standard unico globale relativo allo scambio automatico di informazioni a partire dal 2017. L’accordo si estenderà a 92 paesi nel 2018.
Considerando in particolare la Svizzera, ove si presume che si trovino gli importi più rilevanti dei capitali italiani detenuti all’estero (forse 150 miliardi di euro?), si è passati dal tradizionale segreto bancario elvetico alla c.d. strategia del denaro pulito (Weissgeldstrategie).
Per le banche svizzere è divenuto essenziale evitare ogni rischio legale e reputazionale e l’evasore fiscale italiano sotto tale aspetto appare ormai più che altro un fattore di rischio, anche a seguito non solo delle norme penali italiane sul reato di autoriciclaggio ma anche in conseguenza del rafforzamento delle norme svizzere sull’antiriciclaggio.
Conseguentemente, avvalersi delle possibilità offerte dalla legge 186 per la regolarizzazione dei capitali detenuti all’estero si presenta oggi come l’ultima opportunità, sebbene non condonistica, di sanare legalmente tali posizioni.
15 giugno 2015