Una sintesi personale quale contributo di pensiero per la Scienza dell’Organizzazione

 

 

La complessità attiene ai sistemi collettivi aperti e l’ingrediente fondamentale è costituito dalle non linearità delle connessioni tra gli elementi. Le non linearità già nei sistemi minimali sono responsabili di una variegata tipologia di comportamenti che, per l’osservatore, si concretizzano in evoluzioni irregolari. Per questo, i modelli matematici di tali sistemi, pur cogliendo gli aspetti salienti e “universali” della fenomenologia, hanno una limitata prevedibilità (o “caos”) dovuta, principalmente, ad instabilità orbitali (o “effetto farfalla”), dinamiche (per sequenze critiche di fluttuazioni dei forcing esterni) e strutturali (o “biforcazioni” o, in alcuni casi, “catastrofi”).

L’analisi dei sistemi collettivi richiede, per varie ragioni, un approccio sistemico. Esso, con riferimento alla percezione umana, ne evidenzia due aspetti nuovi ma che costituiscono due facce della stessa medaglia costituita dai princìpi statistici. Il primo aspetto, è la presenza di processi “coerenti” e “cooperativi” che indicano un certo grado di organizzazione del sistema. Il secondo aspetto è la naturale tendenza a dissipare tali processi di insieme in processi casuali (stato “omologato”) quando un tale sistema venga isolato.

Esistono varie tipologie di sistemi collettivi ma solo alcune specifiche classi sono legate alla complessità. Partiamo dall’analisi delle strutture ovvero i regimi dinamicamente stabili dei suddetti sistemi. Se una struttura viene isolata, la tempistica di diffusione verso lo stato omologato (la capacità dissipativa) dipende dalle caratteristiche intrinseche del sistema ovvero dalle interconnessioni tra gli elementi. Allora, relativamente ai tempi della quotidianità umana, tempi lunghi indicano una organizzazione sostenuta dalle connessioni interne (strutture statiche, come i cristalli), tempi brevi indicano una organizzazione, anche funzionale, frutto della cooperazione tra le parti del sistema, a tutte le scale spazio-temporali (strutture dinamiche). Per questo motivo, il funzionamento e lo SCHEMA organizzativo delle strutture dinamiche necessitano di un continuo apporto esterno di risorse. Possiamo denominare “poiesi” tale attività di supporto, mutuando il termine dalla Biologia. In tale classe di strutture, distinguiamo le strutture dinamiche complicate (come, ad esempio, le macchine) alle quali, se vengono isolate, l’azione dissipativa ne smorza la dinamica (la macchina non “finalizza” più), pur rimanendo invariato lo SCHEMA organizzativo essendo questi sostenuto dai vincoli interni. Più importanti sono le strutture dinamiche complesse (SDC); esse, una volta isolate, perdono rapidamente ogni forma di organizzazione. Per le SDC, le interconnessioni tra gli elementi hanno un ruolo secondario e la poiesi è spesso autonoma (autopoiesi). Per completezza, fra le strutture possiamo inserire le strutture omologate (i macrostati terminali dei sistemi isolati) e le strutture statistiche (insieme di elementi indipendenti ma che rispondono omogeneamente ad una comune sollecitazione ambientale che agisce da “fattore correlante”).

Le canoniche manifestazioni della complessità, nel senso di “proprietà emergenti” nelle descrizioni sistemiche, sono esibite dalle SDC. Esse, in base alla possibilità o meno di reagire alle variazioni ambientali con instabilità strutturali (riorganizzazioni), possono essere suddivise in due categorie. La prima, SDC “organizzativamente aperte”, comprende la maggior parte dei sistemi collettivi inerti (tra i più famosi troviamo le celle di Rayleigh-Bènard, il laser, gli orologi chimici) i quali possono esibire sorprendenti autorganizzazioni. In questa classe possiamo senz’altro inserire anche il sistema di cellule neurali (il cervello), essendo esso soggetto a continue ma contenute instabilità strutturali, conservando l’identità nel divenire (resilienza); ciò in considerazione del fatto che i parametri di controllo ne mantengono lo stato al bordo del caos stocastico. La seconda categoria, le SDC “organizzativamente chiuse”, comprende gli organismi biologici, “omeostaticamente” stabili nella loro interezza, pur contenendo, dalle meduse in su, il sistema cerebrale che, come abbiamo visto, è organizzativamente aperto.

Per le strutture dinamiche complesse l’approccio sistemico diventa olistico (“da un insieme di elementi emerge qualcosa che è più della somma delle parti”). Il principio olistico vale anche per una qualunque macchina assemblata dai suoi singoli pezzi e vale per le proprietà macroscopiche di una qualsiasi struttura dinamica. Però, un primo messaggio che sottende il principio, altrimenti banale, è che se, ad esempio, montiamo una bicicletta con elementi che costituiscono il meglio della tecnologia sul mercato non è detto che il tutto funzioni meglio di una bici composta con elementi meno all’avanguardia ma che si interfacciano in modo ottimale. È l’esperienza comune che si fa anche con l’assemblaggio dei computer. Ma il vero contenuto del principio olistico riguarda le strutture dinamiche complesse per le quali ciò che “emerge” non è in relazione causale sono le connessioni interne ma nasce dalla “cooperazione” tra gli elementi.

Allora, definita una seppur minimale classificazione delle strutture, è interessante osservare come abbia risposto la “vita” (nel senso di “successo evolutivo”) alla mutevolezza ambientale. La deriva darwiniana ha prodotto uno sviluppo orizzontale, nel senso del numero di specie, ed uno verticale, nel senso della loro complessità. Si può pensare che il motore della complessificazione sia stato l’efficientamento della capacità di acquisire informazioni ciò, concretizzandosi, nel tempo, attraverso l’articolarsi e affinarsi dei processi autopoietici, a bilanciamento dell’ineluttabile azione dissipativa, e di autoregolazione omeostatica (“stabilità nel divenire”) che prende il posto della capacità degli organismi inferiori di riprodursi (anche con qualche errore) più velocemente dei mutamenti critici.
Quindi, con la comparsa dei primi organismi pluricellulari, si è innescato il circolo virtuoso del progressivo perfezionamento sia della capacità di esplorare e manipolare l’habitat che della capacità di percezione sensoriale e razionale, implementando uno SCHEMA organizzativo duale cervello-macchina. E ciò, con il risultato di selezionare esseri capaci di “leggere” la realtà sempre più correttamente e di utilizzare la “creatività” come nuovo efficace meccanismo di adattamento. L’attività cerebrale è un processo continuo che inizia al concepimento dell’individuo e termina con la sua morte. I processi cerebrali intenzionali e, per gli umani, anche consapevoli sono quelli che danno “essenza” alla MENTE. Essa è soventemente distinta dai processi materiali cerebrali nella convinzione mitica della separazione tra carne e spirito, convinzione rafforzata dalla comprensibile difficoltà di concepire qualcosa di apparentemente immateriale che emerge da un groviglio di cellule interconnesse.

Per quanto detto, “vita” è sinonimo di “conoscenza”. In particolare, l’Uomo, attraverso il Metodo galileiano, ha imparato nel tempo a rendere “collettivo” ovvero oggettivo il processo conoscitivo, per meglio “prevedere” e “decidere” e, da qualche tempo, è maturata la consapevolezza che anche le attività del prevedere e del decidere offrono maggiori garanzie di affidabilità e di successo quando è una MENTE collettiva che le compie.

In conclusione, l’excursus ha mostrato la continuità e contiguità tra strutture dinamiche complesse inerti e viventi che ha come pietra angolare l’emergenza spontanea delle retroazioni tese a mantenere la stabilità omeostatica e la continua attività autopoietica mirata a controllare l’ineluttabile azione della dissipazione. L’articolazione e la complessificazione di tali due proprietà ha condotto sino ai viventi evoluti. Le Organizzazioni sono strutture artificiali: quali sono gli ingredienti affinché possano operare in modo efficace ed efficiente alla stregua di strutture dinamiche complesse resilienti?