E’ la domanda che mi pongo, e credo di non essere il solo, ogni qualvolta chi governa questo mare e le sue coste si mette in testa di succhiarne ulteriormente le risorse a prescindere dai danni che vi si possono arrecare.
Sappiamo essere, l’Adriatico, un mare pressoché chiuso, cui il Canale d’Otranto, appena quarantacinque miglia di larghezza, consente un certo ricambio d’acqua col resto del Mediterraneo. Gioco forza quindi un bacino ambientalmente fragile che una Exxon Valdez, e mi riferisco all’incagliamento dell’ 89 e alla fuoriuscita degli oltre 40 milioni di litri di petrolio che deturparono per anni le coste di buona parte del Golfo dell’Alaska, condannerebbe a morte quasi certa. Basti pensare alla differenza di dimensioni del nostro mare col menzionato golfo. E la Exxon Valdez, ribatezzata dopo il disastro in Sea River Mediterranean, – attenti! – gira ancora. E non è sola. Di eguali e ancor più grandi ne troviamo pure sulle rotte adriatiche.
Seppure a doppio scafo, come impongono oggi le norme internazionali, e quindi più sicure rispetto alle petroliere di fine secolo, anche le navi cisterna dell’ultima generazione possono incorrere in avarie e incidenti, per ragioni tecniche, meteorologiche o umane. Nulla c’e’ di sicuro al 100%, soprattutto in tempi di terrorismo onnipresente e quasi onnipotente.
Ma la presenza di petroliere nell’Adriatico oramai l’abbiamo metabolizzata, convinti o per lo meno speranzosi che chi gestisce questo traffico sappia il fatto suo. Quanto invece non va giù a tanti che la pensano come me, è che a questo rischio e all’impatto – non dimentichiamolo – che hanno sul bacino gli scarichi urbani e industriali di circa 25 milioni di residenti, se ne vogliano aggiungere di nuovi… vedi i rigassificatori di GNL in comprensori densamente popolati e in acque a basso fondale, come quelli che la spagnola Gas Natural e l’italiana Smart Gas vogliono impiantare a Trieste e Monfalcone, e la tedesca TGE a Capodistria, nonche’ la proroga sine die delle trivellazioni che diverse aziende stanno operando nelle acque territoriali italiane per estrarne dal fondo petrolio e metano.
Voleva farlo lo scorso anno anche la Croazia, concedere concessioni per una ventina di trivelle, ma i potenziali investitori, austriaci, italiani e americani, hanno fatto per il momento marcia indietro, per non trovarsi coinvolti in una delle dispute frontaliere che la Croazia ha con i propri vicini, nel caso specifico con il Montenegro. E poi era questa l’intenzione del precedente governo, di centro sinistra. Il nuovo, questa volta di centro destra, non si e’ ancora pronunciato in merito.
Comunque, nel mirino degli ambientalisti e, se mi e’ concesso, di ogni cittadino con un minimo di buon senso, e’ questa volta la Legge di stabilità approvata dalla maggioranza Renzi, per una norma che toglie ogni scadenza alle attuali concessioni di estrazione di petrolio e gas. Autorizzazioni nuove non ve ne saranno ma chi trivella oggi potrà farlo senza limiti di tempo.
Chi ha capito la gravità della situazione, di quando deciso e votato dalla maggioranza che governa l’Italia, si è messo in moto con l’unico strumento ancora in grado di fermare questa follia: col referendum abrogativo. Si farà fra poco più di due settimane, precisamente il 17 di aprile, all’insegna dello slogan: “Vota SI per fermare le trivelle!”. Il Comitato promotore è costituito in sede nazionale da inizio marzo, ora è in fase di rapida ramificazione nei comprensori regionali e comunali.
A Trieste molte le adesioni di associazioni e singoli anche di Slovenia e Croazia.
Più o meno gli stessi attivisti che si erano mobilitati l’anno scorso contro le intenzioni di Zagabria di aprire al capitale petrolifero anche l’Adriatico di propria competenza.
Che la consultazione sia del tutto e solo italiana poco importa. Sì, a votare ci andranno solo gli aventi diritto al voto, ovvero i cittadini italiani, ma la campagna referendaria non potrà fermarsi al confine nazionale. Così come i rigassificatori di gas naturale liquido nel Golfo di Trieste, anche le trivelle sparpagliate lungo la costa italiana ed eventualmente quelle sul versante croato, potranno creare impatti sull’ambiente di non poco conto e in fette di mare e di costa non solo nelle sedi di impianto, ma in zone anche più vaste, nel territorio del vicino o addirittura nel bacino intero. Per quanto consumata, ripetiamola, ‘sta frase: l’inquinamento non conosce confini!
Ma non solo di rischio disastri si tratta nel caso delle trivellazioni. Il petrolio è l’idrocarburo da abbandonare quanto prima e da sostituire, così come il carbone, con le energie rinnovabili. L’unico combustibile fossile cui si può concedere qualche decennio di utilizzo in più è il GNL in quanto largamente meno inquinante e impattante sul clima. Investire sul petrolio, dargli spazio e credito, se proprio non rasenta il crimine, è comunque irresponsabile. E il referendum del 17 aprile è l’occasione per dirlo e costringere il potere a rivedere le proprie posizioni.
Forse forse anche uno stimolo in più a ragionare sul governo comune dell’Adriatico, a intavolare con la dirimpettaia Croazia, entrambi con le coste adriatiche più lunghe, ma anche con i rivieraschi più corti, l’ipotesi di una gestione colleggiale di questo mare in tutti quei settori che non si possono imbrigliare in ottiche squisitamente nazionali: politiche portuali, corridoi di navigazione, scarichi urbani e industriali, interventi di soccorso ambientale e di sicurezza in mare, pesca, ricerche oceanografiche, conservazione e valorizzazione del patrimonio naturale e culturale, non ultima, una concertata offerta turistica.
Insomma, con un minimo di buona volontà e lungimiranza, governare insieme l’Adriatico si può. Anzi, stando le cose così come stanno, lo si deve fare.
E’ l’appello che rinnovo da anni, che ha trovato eco anche negli inviti dell’ex commissario europeo all’ambiente Janez Potočnik, che però nessuno dei destinatari vuole sentire ne accettare.
Sia allora il referendum del 17 aprile, l’occasione buona per accendere per lo meno un barlume di speranza.
Aurelio Juri
Capodistria, 29.3.2016