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Egregio Ingegner Monti,

apprezzo sempre i Suoi articoli su “Cvos Management”. Mi permetta di scrivere questo articolo in forma di lettera al direttore piuttosto che in forma di articolo, assumendo più i panni del lettore che dell'occasionale redattore della Sua rivista.

Queste mie brevi riflessioni sono anche il frutto di chi è inserito in una azienda europea leader di prodotto (software per studi professionali) e servizi (servizi di consulenza per l'applicazione e lo start up del "prodotto" software per studi professionali).

Sebbene sia relativamente giovane, sono trentanni che sento parlare (e scrivere) di lacci e laccioli di ogni tipo che vengono imposte alle imprese per limitarne la loro concorrenzialità sui mercati esteri. I discorsi che i vari presidenti di Confindustria, Confesercenti, Confcommercio (le prime che mi vengono in mente) e altre associazioni di categoria tengono annualmente davanti a qualificatissimi auditori snocciolando come una litania dei santi tutto ciò che non va nel cosiddetto sistema Italia, attribuiscono sempre le responsabilità di “quel che non va” come recessioni, mancati aumenti di fatturato, crisi strutturali al sistema piuttosto che a se stessi imprese o categorie.

Sarebbe divertente, avendone il tempo di verificarlo, vedere quanti copia e incolla sono stati fatti in tutti questi anni.

Non che abbiano totalmente torto, avremmo davvero bisogno di più liberalizzazioni (non intese come pseudoliberalizzazioni di public company), mercato (più offerta), di difesa dei lavoratori (e non di difesa del posto di lavoro) e infrastrutture (porti, interporti, treni merci piuttosto di ponti sullo stretto) e di un costo del lavoro più basso piuttosto che di protezionismi e corporativismi medioevali.

Ma nel momento in cui il potere legislativo perchè pungolato dalla legislazione europea introduce o propone di liberalizzare alcuni mercati per togliere i famosi lacci e laccioli ecco le levate dello scudi che ipotizzano scenari apocalittici per il settore.

Per la mia esperienza consulenziale di direzione, la prima considerazione che mi viene da fare, ed è banale, è che ogni azienda è la fotografia del proprio management. Semplifico, sperando che con poco, gli intelligenti capiscano.

A prescindere dagli eventuali errori strategici, tattici, finanziari, la Fiat, finché sono stati vivi i due fratelli Agnelli è stata la fotocopia di quello che l’Avvocato e il Dottore volessero che fosse. Un pachiderma di scarsa qualità che viveva di rendita di immagine, il ricordo del bel tempo antico dei nostri genitori e delle passeggiate fuori porta da bambini, e di protezionismo. Il nuovo management, arrivato e avvicendatosi ai vertici in situazioni quasi drammatiche è più dinamico, più attento al mercato, l’immagine è stata svecchiata senza rinunciare, anzi esaltando (come immagine, per esempio la felpa “FIAT” di Lapo) la tradizione automobilistica dell’azienda torinese. Il lancio della (grande) Punto è stato un capolavoro di marketing, immagine, entusiasmo e anche di marchette televisive che meriterebbe studi più approfonditi che certamente sono stati già fatti dalle case automobilistiche concorrenti. Il mercato automobilistico italiano ha poi fatto il resto, rispondendo con interesse e domanda verso la (grande) Punto, segno gli italiani sono sempre ben disposti verso la FIAT purché il prodotto sia concorrenziale.

Questa breve digressione mi serve come appoggio per rubare ancora un attimo del Suo tempo, egregio Ingegnere. Ho utilizzato un esempio davanti agli occhi di tutti, ma fatte le debite proporzioni è un esempio applicabile in tutte le realtà aziendali. E’ inutile attribuire tutte le difficoltà esclusivamente al “sistema”. Credo che bisognerebbe prima fare un esame olistico e successivamente analizzare il sistema.

La dimensione aziendale in cui ho prestato la mia consulenza è stata quella medio-piccola. Ho visto dei gioiellini, ma molto più spesso mi sono trovato ad operare in aziende il cui problema principale non era il “mercato” o “i lacci e laccioli” ma la ... direzione aziendale.

Una direzione aziendale che acuisce i problemi di clima aziendale, che non sa ascoltare, che non sa motivare, che non sa comunicare, che non vuole delegare anche per mancanza di fiducia, in cui le risorse umane non sono valorizzate, che non si aggiorna, che non investe in nuovi processi o tecnologie, che non razionalizza le risorse, che decide di non decidere sperando che il tempo aggiusti le problematiche che invece si incancreniscono, non può sperare in grandi risultati aziendali.

In questi casi sarebbe interessante creare una spirale del... peggioramento continuo.

Poi mi sono trovato in aziende che io definisco a “trazione anteriore”, ovvero dove il management e/o la direzione aziendale tirano affannosamente la carretta e sono sempre una spanna sopra i propri collaboratori che non ce la fanno o non vogliono tenere il passo e dove la direzione fatica a introdurre innovazioni di qualsiasi tipo perchè la (cattiva) abitudine o interessi consolidati dei collaboratori non accettano le innovazioni.

Al contrario delle aziende a “motore posteriore”, dove invece i collaboratori danno un valore aggiunto al proprio lavoro, ma che poi per mancanza di programmazione, leadership, comunicazione, si traduce in lavoro (e risorse) da buttare, duplicato, con risorse umane demotivate che non vedono letteralmente l’ora di terminare le canoniche otto ore lavorative.

E’ sempre un problema di management piuttosto che di sistema Italia. Non mi fraintenda, gentile Ingegnere, non voglio dare tutta la croce addosso a quella classe imprenditoriale che ogni giorno si smazza con fantasia, dedizione, gusto della sfida etc, ma mi chiedo: è la nostra classe imprenditoriale in grado di raccogliere le sfide che il mercato pone loro?

E’ in grado la nostra classe imprenditoriale di cercare e creare qualità ed eccellenza?. E’ possibile andare oltre il concetto del vorrei ma non posso per ragioni di tempo, di cattiva consulenza, a volte anche per meschini calcoli di interesse personale che non guardano oltre i confini della propria scrivania?

E quando si invoca la mai tanto definita formazione (e comunicazione), è possibile che questa riguardi sempre (se va bene) gli altri e mai se stessi?.

Il presidente della Confindustria, Montezemolo, recentemente, ha sfiorato (forse anche egli se ne rende conto, e per il momento non vuole essere più esplicito) queste problematiche proponendo ai propri associati di studiare i casi di eccellenza imprenditoriale nel mondo, facendo un esempio: la Nokia, la Nike e la Sony. Forse anche in Confindustria ci si rende conto che “qualcosa” non va.

E’ sempre colpa del sistema Italia, egregio Ingegnere?

Luciano de Belvis, Trento