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C'ERA UNA VOLTA IL MAESTRO
Coscienza pedagogica

Tradizione viene da "trans + dare": dare, consegnare al di là, oltre. Indica una trasmissione nel tempo, una consegna, il passaggio di qualcosa alle generazioni successive.

Patrimonio viene da "pater": è l'insieme dei beni che qualcuno prima di te ti lascia. Qualcosa che diventa tuo e che tu a tua volta lascerai in trasmissione (o tradizione) ad altri.

Il maestro, l'educatore, il formatore, il manager, il capo è colui che lega il suo mestiere a due parole, un verbo e un sostantivo: trasmettere e patrimonio. Pertanto il maestro, …, sono i depositari di un patrimonio culturale che deve essere da loro trasmesso.

La parola depositario viene dal verbo "deporre", che vuol dire passare giù, in fondo. Il depositario è colui nel quale viene deposta una certa cosa, cioè viene messa giù, nel profondo. Il depositario è dunque una persona che si fa luogo per contenere una certa cosa, non è pertanto un deposito di scatoloni, che li conterrà fino a che dovrà contenerli. Anche in eterno, se questo è l'uso previsto.
Ma un depositario? Può passare la vita a fare semplicemente il luogo dove sono state depositate delle cose?

Natura vuole che ad un certo punto il soggetto senta il bisogno di farlo uscire e distribuirlo un po' in giro. Che si stufi di tenere quelle cose dentro di sé per tutto il tempo. Ad un certo punto vuole passarle ad un altro; vede uno che passa di lì, lo chiama e gli viene da dire: "Senti un po' tu, io sono il depositario, ma mi sono stufato di tenere tutte questa roba depositata qui dentro, che ne dici se te la passo così te la tieni un po' tu?"

È questo il nocciolo del problema che influisce ad esempio sulla realtà imprenditoriale italiana, caratterizzata da un controllo strettamente familiare o da coalizioni di soggetti uniti da patti di sindacato. Il passaggio generazionale è un problema poiché l'impresa è vista dall'imprenditore e dai suoi familiari come una "cosa propria". Quando invece, probabilisticamente, non sempre l'erede-manager ha le capacità per poter continuare a valorizzare l'impresa. Vittorio Merloni: "Un manager esterno lo si può selezionare fra tanti e , se non va bene, rompi il contratto. Un figlio: cosa fai se gestisce male?" ("Corriere Economia", 02 Giugno 2003).

Crescere si può. Si dice "passare il mestolo" per dire che ad un certo punto della vita la vecchia madre, che ha sempre guidato la casa, cede il posto. Passa la mano, si fa da parte insegnando ai più giovani tutto quello che sa. Passare le nostre conoscenze ad un altro vuol dire riconoscere che non siamo eterni e che qualcuno prenderà il nostro posto. Vuol dire anche riconoscere alle cose un tempo più lungo del nostro.
Attenzione però: insegnare un mestiere, nel senso che, lo si può "passare" attraverso la pratica e l'esempio, non certo attraverso uno studio esclusivamente tecnico-teorico, il quale può anche essere controproducente.
Tolstoj, nei suoi Saggi sull'arte, diceva che le scuole di pittura arrivavano ad essere molto dannose perché, insistendo sulle regole tecniche e metodiche, spengono la felice spontaneità e inconsapevolezza dell'arte e condannano l'allievo a una noiosa routine.

"Il metodo è strumento, la verità è esperienza". Il metodo è fiction perché non è la vita. È l'esperienza che insegna, perché è il luogo nel quale le cose si formano e si rilevano. Il maestro è quindi colui che riesce a proporre come metodo la sua esperienza. L'esperienza come verità diventa parola. Noi dobbiamo assumere la consapevolezza di essere parola, spronando l'altro a diventare anch'egli "essere parlante". Al contrario, noi tutti abbiamo inconscia la pretesa di "essere verità", ovvero di venire percepiti e riconosciuti per il fatto di esserci. Noi non abbiamo innata la consapevolezza di doverci esprimere tramite e nella parola.
"Pretendersi verità vuol dire imporsi, sentirsi parola vuol dire presentarsi".

Se ci soffermassimo solo sull'attività passiva del ripetere cose dette e fatte da altri, emergerebbe il problema della "rigidità cognitiva", ovvero la rinuncia a priori di vedere possibilità felici, poiché per tendere ad esse occorre il coraggio di rischiare e di aprirsi alla dimensione del futuro senza pretendere di "addomesticarla" e di renderla coincidente con ciò che già è stato.

In tale contesto entra in gioco l'educatore, il maestro, il formatore, il manager, il capo, poiché questi non si limita a diagnosticare, non si compiace di richiamare al dover essere, ma strategicamente si adopera per rendere possibile e agevolare la disponibilità al cambiamento. L'educatore interviene quindi non solo sul soggetto, ma a suo vantaggio rimuovendo gli ostacoli che vede nell'ambiente. Il fine dell'educatore è in definitiva, far diventare l'uomo l'artista della propria vita per esprimere la vita. Per cui la sua funzione è responsabilizzante, ovvero preventiva.
Non si è tuttavia educatore in un contesto teorico, ma in una dimensione relazionale, capendo il momento giusto.

Si dovrebbe essere in grado di operare una sorta di "traduzione simultanea" dalla logica delle parole alla logica delle emozioni, non fermarci alla prima, non arretrare di fronte alla seconda: ma per farlo occorrono strumenti, conoscenza, capacità di orientarsi domandando - ascoltando - interpretando. Il saper dialogare, e cioè il sapersi ascoltare a vicenda, costituisce un punto di arrivo che implica un percorso difficile e a lungo termine, in quanto esige il superamento del proprio egocentrismo cognitivo/emotivo, sempre in agguato a selezionare e a privilegiare ciò che risulta congruo e in linea con i nostri parametri di riferimento e di valutazione e che corrispondono alla tonalità emotiva per noi dominante in quella particolare situazione. L'interpretazione è invece un processo costante ed è tale la complessità di ciò che si tenta di interpretare, che bisogna accettare di procedere con molta lentezza e di lasciarsi "stupire": da una connessione nuova che ci obbliga a rivedere le nostre interpretazioni, perché lo stupore è anche illuminazione.
"Situazioni sempre nuove impongono la ricerca di sempre nuove soluzioni".

Bisognerebbe riprendere il concetto marxista di cultura: non una cultura dogmatica, estranea ai processi evolutivi della società, ma una cultura storicizzata, una dialettica e una verifica di contenuto e metodo.

Per Ada Marchesini Gobetti educare significa "preparare, aiutare a vivere. E vivere non è semplicemente esistere, ma è lavoro, lotta, rinnovamento, progresso continuo".

Il fine, pertanto, del maestro, …, è di creare una coscienza formata per analisi obiettive e competenti per sviluppare punti di vista nuovi e globali; per orientare una scelta di vita non solo materiale, ma soprattutto morale atta a liberare l'uomo dalle insidie interiori, fonte di infelicità.

In questo scenario si apre la strada all'educazione come fonte di valori della cultura per aiutare l'uomo ad organizzare la vita. Oggi invece la cultura è considerata un bene di consumo, un prodotto del mercato che viene offerta come una formula per preparare al lavoro e al perfezionamento professionale.

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