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RICOMINCIARE DALL'ARTE CANDIDA

Che diluvio sia. Perché esiste eccome la possibilità di mettersi in discussione, di ricominciare daccapo. E questo può succedere grazie a quel semplice albero che, attraverso una linea d'oro, unisce una zattera, cui persino un povero maialino disperso nel peggior temporale può appigliarsi, e un corteo, ordinato sotto l'ombrello per portare in trofeo una colomba entro un cielo già pacificato. E poi, il dopo. Che è una rinascita lieta e insieme un ritorno all'origine, a quella semplicità invidiabile della tradizione, all'essenzialità delle forme e delle emozioni, al modo in cui i colori salgono alla nostra memoria con vigore stupito.

Paolo Scheggi e Gabriele Torricelli, formatisi come autodidatti l'uno sul versante senese, l'altro su quello fiorentino, inizialmente interessati allo studio del paesaggio, lavorano su temi e percorsi affini, e abitano nella stessa via in quel di Figline Valdarno. Parlano delle loro opere con premura, e leggerezza insieme, definendo - quasi in un manifesto ideale - questa loro "arte candida" che ci svela un universo di profili silenziosi, delicati e confortanti. Eppure, in quella sintesi ricercata e infine perseguita con serena energia, si intuisce l'intensità di un dramma ormai concluso, e la spiritualità più complessa che si sublima nelle cose infinitesime e quotidiane.

I personaggi che popolano questi mondi, a metà tra il rimpianto del vissuto e l'occasione di un rinnovamento, rappresentano un atteggiamento problematico nei confronti del presente utopico ed estremamente concreto: da una parte, le silhouettes ripetute di Torricelli, vestite di costumi aderenti al corpo esile di pose sofisticate, e quasi senza volto e senza tempo; dall'altra gli attori di Scheggi, che indossano la maschera di un arlecchino alle prese con l'effimero entro paesaggi tutti interiori. Sempre si tratta di figure fragili e sognanti che assumono sul dipinto una monumentalità virtuosa, e che però reagiscono in modi diversi alla realtà, rimanendone come estraniati, a sforzarsi in un ordine irrisolto, o a lasciarsi commuovere inclinando la testa.

L'individualità dei due artisti emerge non tanto nella tecnica, una bella pittura dalle tinte vistose e sature, dai contorni decisi, stesa su supporti diversi, bensì nell'interpretazione sincera di questo candore.

L'iconografia di Torricelli rivisita alcuni temi biblici e mitologici per inquadrarli in una composizione studiata, simmetrica, fantastica, quasi ritagliando queste creature in uno sfondo fatto di orizzonti susseguenti e di cieli completamente piatti: un nitore quasi naïf che gioca con le varianti della luce, la quale si dipana nel chiaroscuro sfumatissimo delle vesti e invece aleggia senza ombre tutt'intorno, rendendo un'apparenza fredda, lontana di questa pantomima rigorosa. Ecco quindi un fantomatico minotauro dotato della sua brava aureola-hulahop mentre si lascia coinvolgere, e con distacco, in una ricreazione di bambini cresciuti in piazza; e poi una donna appoggiata, quasi, in mezzo a un cortile di architetture improbabili in bilico su un pilastro, forse aspettando un appuntamento, lì, concentrata sulle lancette lente di un piccolo orologio. La serie dei cortei nuziali ripropone i musici con uguali strumenti, e sempre quell'insegna con la colomba, in una disposizione sfalsata di gesti e di toni, e ridotta al minimo, al significativo; quasi immutabili, gli stessi personaggi partecipano a una curiosa visita guidata, in cui lo steccato assurge a simbolo dell'incomunicabilità, e ancora si ritrovano nell'esaltazione pacata di una futuristica torre di Babele o nel momento difficile del giudizio di un Paride che quasi ha fattezze più femminee delle donne che è chiamato a valutare. Infine, questa società colta negli exempla del dubbio rivive l'opportunità di un diluvio come il bagliore abbacinante che si posa sulle persone, sulle cose - prima fra tutte quella barchina di carta impigliata su un ramo - e sugli animali, complici dell'impresa, che a volte, come quel gatto seduto, sembrano non poter fare a meno di guardarsi indietro.

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