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L'umanità rappresentata da Scheggi trascorre nell'estrema pienezza degli elementi, indugiando sulle pennellate, sbizzarrendosi in particolari imprevisti, ammorbidendosi nelle gradazioni cromatiche con una corposità tattile e fluida, che non crea subordinazione di piani ma un'estrema correlazione tra protagonisti e sfondo. Le figure, scolpite quasi sulla pietra, o modellate con la cera, si lasciano ora coinvolgere dagli eventi, per riportarci all'icona del maialino abbandonato in un eden bizzarro o ai quattro titani che, nelle loro magliette sgargianti, emergono dal mare per prender contatto con quelle montagne-onde aguzze e fascinosamente lisce. Non si può prescindere dalla legge spietata del ricordo, che lascia rose in fiore sulla via, e rimanda allo sguardo caro, alla sagoma conosciuta dietro una finestra, alle ombre lunghissime di un tramonto azzurro; persino si potesse costruire una poesia, con quelle rose, si dovrebbe immaginare la prospettiva delle case in mezzo a un prato coperto di nuvole ovattate, o ci si troverebbe di fronte alla tenerezza di una notte stellata nella quale si possono persino sussurrare confidenze a un girasole. La condizione dell'artista risulta ormai quella di un romantico illuso, perseguitato dalle sue tele, scheletro di se stesso impazzito sulle rive di un fiume in un deserto di sassi di marzapane. E proprio nelle acque increspate del diluvio torrenziale un uomo dalle fattezze quanto mai realistiche, fin nella banalità distratta dell'abbigliamento, prega in ginocchio, lasciandosi alle spalle le solite rose, e un cipresso piegato dal vento: dopo potrà tornare a sperare nell'eterno e a risvegliarsi, con l'erba primaverile, nella dolcezza del sonno sospirato, dell'affetto altrui, di una carezza ritrovata.

Da queste due visioni parallele scaturisce dunque un senso di fiducia che resta come sospeso, immobile, velato di un'acuta incertezza, in attesa di una conferma, o di un nuovo cambiamento. Ad unirle resta un motivo stilistico fondamentale, quell'impostazione definita e quella purezza disegnativa che ci rimanda all'antica pittura toscana, effettiva forma mentis di un passato ancora avvertito come vicino in una continuità ideale. Ecco le colline arrotondate di Giovanni di Paolo, le pose vivide di Sassetta, l'evidenza umana di Duccio, i colori accesi di Beato Angelico, la forza sintetica di Giotto per arrivare alla scultorea presenza di Masaccio e alla precisione geometrica di Piero. Tutta la memoria dei fondi oro senesi e degli esperimenti rinascimentali attraversa queste opere, con quel filtro imprescindibile delle esperienze dell'arte contemporanea che passa dall'intuizione metafisica di un De Chirico o di un Carrà e sembra ricercare una coerenza naturale attraverso quell'elemento di raccordo che è la luce diffusa, chiara, immanente. Un'eredità che mai si impoverisce in questa sorta di rivisitazione spontanea, e che piuttosto ci spinge a confrontarci con la tradizione in modo inedito ed efficace, mai per citazioni spoglie, semmai con la maggiore coscienza della propria cultura, e con uno sguardo che è insieme ironico e rassegnato, malinconico e ottimista. Finché l'opera che finalmente intreccia le due esperienze diventa un dittico, una pala d'altare che insiste sull'inevitabile destino dell'uomo, a metà tra la ricerca inquieta della divinità e il bisogno urgente di un'autentica dimensione terrena, e che forse proprio in quel diluvio può recuperare l'armonia perduta, o per lo meno, sognarla.

ELISA BRUTTINI

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