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Povera Italia

Ore 15,00 del 13 giugno 2005; si chiudono le urne per il referendum abrogativo di alcuni articoli della legge n. 40/04. Votanti: 25,9%.
"Ha vinto il buon senso degli italiani, la loro saggezza", queste sono le parole che emergono in tutta la loro drammatica inconsistenza in questi giorni o, come dice un amico, "ha vinto la fecondazione esterologa".
In realtà, sono convinta che non abbia vinto nessuno, per vari motivi, il primo dei quali è da ricercare nel significato stesso di questa tornata referendaria.

Infatti, l'importanza di questo voto andava molto al di la dei contenuti espressi dai quesiti referendari; poteva essere considerato una sorta di prova del nove per gli Italiani, un'opportunità per dimostrare di voler far sentire la propria voce, indipendentemente dall'esito dello scrutinio e dalle opinioni personali; un'opportunità per dare evidenza di un senso del dovere che molti detrattori non ci ritengono capaci di manifestare o peggio di possedere. Non è stato così.

I referendum del 12 e 13 giugno hanno visto il trionfo della solita Italietta, segno emblematico della crisi profonda che contraddistingue le nostre coscienze. Hanno visto, ancora una volta, la recessione di uno stato nei confronti della scienza, il trionfare delle contraddizioni di un Paese stanco, assonnato, lento, attento solo alle beghe di condominio, agli inciuci di palazzo, al Dio pallone.

È per questo che il 12 e 13 giugno non hanno vinto i fautori del no; l'astensione non può essere considerata una vittoria, a vincere è stata solo l'indifferenza cronica di un Paese che (soprav)vive, arrancando, al proprio decadimento economico e culturale.

Ha vinto l'Italia il cui debito pubblico è stato declassato dall'agenzia di rating Standard & Poor's e per la quale l'Unione Europea avvierà la procedura per deficit eccessivo; l'Italia della crescente precarizzazione dei rapporti di lavoro; della profonda debolezza strutturale del comparto economico; l'Italia il cui modello produttivo si è incancrenito nelle aziende di piccole dimensioni, forti del loro orticello dove crescono prodotti ormai troppo maturi, debole per tecnologie, ricerca, innovazione del prodotto e/o dei servizi offerti, formazione: aziende confinate nel proprio "provincialismo senza ambizione".

Un Paese dove prevale "la rendita sul profitto" (L. Colaninno) e dove, negli ultimi venti anni, secondo una ricerca dell'Ufficio Studi di Confindustria, la parte del reddito nazionale destinata al lavoro è passata dal 50 al 40% e quella della rendita è aumentata dal 20 al 30%.; un'Italia che ha visto, negli ultimi anni, un vero e proprio crollo del proprio export, impotente di fronte all'emergere dirompente delle economie provenienti dai paesi dell'est e dalla Cina.
Ha vinto l'Italia del crollo della Fiat non più sorretta dalla beneficenza dello Stato; della disfatta della Parmalat, esempio emblematico del "successo" del capitalismo familiare; dell'Alitalia, vanto dello spreco italico.

Ha vinto l'Italia dei conflitti di interesse: tra banche e imprese, imprese e società di revisione, banche e piccoli risparmiatori e persino tra autorità di vigilanza, della commistione più deteriore tra affari e politica; della struttura collusiva e marcatamente domestica del nostro sistema economico e creditizio; del sistema di regole inadeguato, che non ha ancora fatto i conti con l'innovazione tecnologica e la globalizzazione dei mercati; dell'inefficienza di manager e azionisti che spesso hanno radicalmente sbagliato strategie di gestione e posizionamento (cfr. F. Merola).

Ha vinto l'Italia dei condoni e dell'evasione fiscale (che sfiora il 30%); l'Italia dove anche chi lavora, spesso, rasenta la povertà e dove le retribuzioni sono molto più basse della media degli altri paesi europei; dove le nuove generazioni difficilmente potranno usufruire, un domani, di prestazioni pensionistiche decenti.

Ha vinto l'Italia assuefatta all'instabilità del suo sistema politico, con una classe dirigente incapace di esprimere il senso della statualità richiamato tanto fortemente dalla nostra Costituzione, ma preoccupata esclusivamente della tutela del proprio particolare, accecata dal proprio individualismo qualunquistico.

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