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LELLO ESPOSITO
La sindrome di Partenope

Ha scritto Stendhal:" In Europa ci sono due capitali: Parigi e Napoli".
Lello Esposito risponde a modo suo alla provocazione del "milanese" Beyle mettendo in scena quella che prima d'essere una metropoli - come New York o Il Cairo o Bombay - è diventata nell'immaginario di ognuno una categoria dello spirito. O almeno fa di tutto per convincerci a pensarla così.
Procedendo per ipotesi, l'artista napoletano avrebbe finito per lavorare su un'astrazione, che poi è un'idea nata da un eccesso di mito, quando cioè la realtà si arrende all'abuso semantico di cui è stata fatta oggetto nel tempo e diventa "altro": qualcosa che appartiene ai nostri sensi e alla nostra memoria, che siamo in grado di riconoscere anche senza cognizione diretta ma in fondo non potremo mai possedere.

Di qui il paradosso. A Esposito non resta che cominciare da una perdita. Non ha altra scelta. Napoli, la sua città, il ventre da cui proviene, gli si nega nel momento stesso in cui è parte sostanziale del suo codice genetico. La capitale battezzata da Stendhal gli è insomma troppo complice perché possa trasformarsi in racconto decifrabile, in aneddoto, in celebrazione, magari in retorica: quello che appunto ci si potrebbe aspettare dall'esuberanza immaginifica di questo artista così naturalmente versato, secondo il capriccio del momento, per il graffito wild metropolitano o la figurina da presepe che "lievita" e cresce fino a diventare scultura monumentale.
Un fatto comunque è certo: Napoli si ritorce contro Esposito quasi per una iattura toccatagli in sorte. E questo, ripeto, per esagerazione sentimentale. Come scrive l'Anonimo dell'Antologia Palatina: "Non dire mai l'amore, lo perderesti con le parole".

I paradossi non finiscono però qui. Il genius loci che prepotentemente esige soddisfazione e spinge l'artista a quell'impossibile identikit, si fa messaggero d'inquietudine e di malinconia mortale. La festa promessa, quella della ricognizione delle radici fatta di colori, suoni, grida e afrori mediterranei, si ribalta allora in sceneggiata dolente, a volte tragica.
E' su questa sintonia psichica ed emotiva che l'artista porta avanti la sua ricerca. Fallito l'obiettivo, deve ripiegare sul percorso che comunque è tenuto a svolgere, su un "viaggio" diventato indispensabile verso una meta diventata inesistente.
Così l'irraggiunto oggetto d'amore - il "continente" Napoli - emerge quasi per polluzione spontanea attraverso una segnaletica di feticci scaramantici e apotropaici, memorabilia poveri, reliquie, bric-à-brac, immagini devozionali, ex-voto. Un inventario caotico e kitsch che all'artista serve per celebrare un rito propiziatorio: quello che gli permetterà di recuperare tutto il paganesimo contenuto nella sua religiosità. La via verso la conoscenza, per Esposito, ha questo senso obbligato

Figura centrale e demiurgica, "presente" anche quando non è rappresentata, Pulcinella sorge a questo punto a indicare l'archetipo ancestrale. Protògonos della coscienza partenopea, simbolo che più di ogni altro ha risentito dell'eversione sui significati esercitata dalla tradizione e dal folklore, Pulcinella viene privato dei suoi attributi canonici e oleografici. "Ho spogliato la maschera mille volte", ammette l'artista, "ho messo a nudo l'uomo che sta dietro questa maschera". Che vuol dire averla profanata nella sua intoccabile sacralità e infine "usata" come pretesto espressivo, in funzione di puro segno, fino a farla diventare cifra di una scrittura in perenne evoluzione, clamorosamente metamorfica, che sa essere barbarica e barocca ad un tempo, popolare nel senso più arrischiato del termine.

"La sfida è stata quella di utilizzare una maschera di cui si era detto e fatto tutto", è ancora una dichiarazione autografa dell'artista, "ma di utilizzarla in modo sempre diverso". L'analogia con le modalità verbali e alfabetiche costitutive di ogni linguaggio trasmissibile viene dunque annunciata e garantita dallo stesso Esposito. Lui è uno che parla "pulcinellese", uno che d'istinto sa che fare arte è soprattutto impulso a comunicare, è offerta dal mio al tuo, magari fino all'abnegazione: Nient'altro. Per dirla con Barthes, arte è langue e parole al contempo, è condivisione di quanto ci appartiene nel bene e nel male, incantamento e repulsione messi in conto.
Artisti della razza di Esposito non sono tenuti a prevedere la reazione del pubblico, né dovranno preoccuparsi di intrattenerlo, deliziarlo, rassicurarlo. L'importante è tirare fuori - come nel drammatico Moto rigenerativo dove un Pulcinella oscenamente stravaccato su una sedia vomita se stesso - gli umori che ci infestano, la popolazione di piccoli dèmoni che ci possiedono e decidono il nostro destino. Ossessioni, deliri, sprofondamenti nella psiche - forse un involontario recupero del Goya dei Caprichos - comunque quanto basta per convincersi che c'è chi si occupa di noi anche contro la nostra volontà; che insomma nessuno potrà chiederci ragione delle nostre colpe.

 

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