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IL LAVORATORE EUROPEO E LA RESPONSABILITA' SOCIALE D'IMPRESA: QUALI DIRITTI, QUALI DOVERI TRA FLESSIBILITA', IMMIGRAZIONE E INCERTEZZA


Il valore e lo scopo della responsabilità sociale d'impresa assumono diversi connotati a seconda del tipo di mercato del lavoro in cui questa si inserisce, a seconda della stratificazione della società con cui interagisce, e soprattutto a seconda delle aspettative di chi la pratica e di coloro a cui dovrebbero essere indirizzati i benefici. Esistono certamente delle differenze sostanziali tra lavoratori che lottano affinché determinati diritti vengano riconosciuti e lavoratori che negoziano al fine di non perdere diritti già acquisiti, tra contadini costretti a migrare in città poiché l'inquinamento industriale o estrattivo ha distrutto il potenziale produttivo della propria terra e cittadini afflitti dalla vista di costruzioni esteticamente non classificabili. Quello che il lavoratore sfruttato dall'industria dell'abbigliamento europea si aspetta dalla RSI può spaziare da un salario che gli permetta non solo la sopravvivenza, il diritto ad andare in bagno durante il turno di lavoro, una paga eguale per uomini e donne, il diritto di associazione, il riconoscimento dei danni causati da determinati tipi di produzione alla propria salute. Sebbene il mercato del lavoro, la stratificazione sociale e le aspettative dei destinatari della RSI siano in Europa molto diverse rispetto al resto del mondo, anche rispetto agli Stati Uniti dove comunque all'impresa viene riconosciuto un ruolo sociale tale da schiacciare la posizione dei sindacati, anche nel vecchio continente si riscontrano con allarmante frequenza casi in cui la responsabilità sociale d'impresa diventa una necessità per la conduzione di una vita normale dei lavoratori, dei consumatori e della società nel suo insieme. Può essere il caso degli operai del Regno Unito che per questioni di bilancio famigliare hanno un'alimentazione particolarmente scorretta, o quello delle cassiere delle grandi catene dei supermercati che possono accedere al bagno solo quando concesso loro dal capo reparto1, o ancora quello delle impiegate che non hanno figli per paura (quasi sempre legittima) di essere licenziate, o il caso del crescente calo di sindacalizzazione dei dipendenti delle multinazionali, o quello delle vittime dell'Enichem di Marghera che hanno visto spegnersi con il recente processo ogni speranza di risarcimento monetario e morale. Questi e molti altri esempi sono il sintomo allarmante di una struttura sociale che si è ammalata poiché il potere di pochi è tornato (o, meglio, non ha mai smesso) di determinare l'esistenza dei più: oltre all'oligopolio delineatosi dall'entrata in gioco delle multinazionali che vizia pesantemente il mercato dei beni (a scapito dei consumatori) e del lavoro, limitandolo e governandolo a propria discrezione, nell'ultimo decennio si è intensificata la sovrapposizione di personaggi di rilievo dell'industria con i politici governanti2 creando di fatto una rinnovata oligarchia socio-economica che detta le leggi della nascente Europa. Da qui il ragionamento va da se: se le grandi imprese godono di un potere economico tale da interferire pesantemente con i lavoro dei rappresentanti dei cittadini, e se, a maggior ragione, i dirigenti di tali imprese e i dirigenti politici dei diversi Stati nazionali nonché dell'unione Europea sovente sono le stesse persone, quale garanzia hanno i cittadini europei che il soggiacente conflitto d'interessi non vada a minare il loro benessere? Semplificando: se la normativa in materia d'ambiente è ridotta al minimo poiché la difesa dell'ambiente si basa sull'azione volontaria dei principali inquinatori, le imprese, e le persone che dovrebbero vigilare sull'efficacia di questo sistema sono le stesse che lo implementano, il rischio reale è che queste persone non siano validi garanti dei diritti dei cittadini in quanto già impegnati ad essere garanti dell'impresa che, o per legami diretti o per legami polico-economici, li appoggia. Sorge quindi, anche in Europa, il dubbio che le imprese abbiano comunque una o diverse responsabilità nei confronti della società circostante, e che non si possa lasciare alle imprese la libertà di scegliere quali siano le responsabilità di cui farsi carico, poiché queste saranno sempre inferiori alle responsabilità reali.

Per questo motivo è utile analizzare, senza la pretesa di essere omnicomprensivi, il mercato del lavoro e la società che ruota attorno ad esso sia in Italia che in Europa, nella speranza di comprendere quali siano le responsabilità reali delle grandi imprese europee nei confronti dei cittadini, e quali tra queste siano state riconosciute come tali, quali siano state lasciate al giudizio delle imprese, e quali dovrebbero essere inserite all'interno di un quadro normativo specifico penale.

L'Italia voluta dai costituenti era una Repubblica democratica fondata sul lavoro3 : lavoro inteso come strumento di democrazia, garante della realizzazione personale. Lavoro come strumento di partecipazione alla creazione di ricchezza e progresso per la nazione intera, lavoro come garanzia di distribuzione della ricchezza e del benessere del Paese tra tutti i suoi cittadini. Il lavoro, la pietra angolare della società nuova che nasceva allora.

L'Italia di oggi sembra essere un'altra cosa. Con un tasso di disoccupazione pari al'8,3%4 il lavoro sembra più che altro un privilegio. Nel marasma della precarizzazione, della delocalizzazione produttiva e della competitività aziendale, ottenere un lavoro sembra, trascurando l'isola felice del Nord-Est, una corsa ad ostacoli5 .
In quest'Italia contemporanea che si vuole globale prima ancora che europea l'unica cosa che sembra essere diventata davvero flessibile sono i diritti dei lavoratori dipendenti. I costi sociali della flessibilità possono essere molto alti.
Ma l'Italia, seppure con le sue peculiarità, non è certo un caso isolato in Europa né tantomeno nel resto del mondo.

1 Curcio R. (a cura di),"L'azienda totale", ed. Sensibili alle foglie, Cuneo 2002
2 E' sufficiente pensare all'attuale Governo italiano o alla Commissione europea…
3 L'Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro."aricoilo1, comma1 della Costituzione italiana
4 Dati Istat, rilevazione del luglio 2003
5 In Italia lavora regolarmente solo un cittadino su due tra 15 e 65 anni e solo il 42 per cento delle donne: le percentuali più basse d'Europa · solo un cittadino su due paga il sistema previdenziale, mentre nei Paesi più evoluti si raggiungono livelli superiori al 70 per cento · in Italia, sono disoccupate 9 persone su 100 (18 in alcune aree del Mezzogiorno); in particolare, molto debole è nel mercato del lavoro la condizione delle donne, degli adulti over 45 e dei giovani · i giovani italiani abbandonano precocemente i percorsi scolastici e partecipano ad attività formative meno dei coetanei europei, ma in Italia la disoccupazione giovanile e la disoccupazione di lungo periodo (più di dodici mesi senza lavoro o formazione) è a livelli tra i più alti d'Europa · l'Italia senza lavoratori del Nord-Est si contrappone all'Italia senza lavoro del Mezzogiorno; l'assenza di adeguati servizi all'impiego aggrava le caratteristiche strutturali e permanenti nel tempo della disoccupazione meridionale · il lavoro nero e irregolare assume in Italia dimensioni molto superiori rispetto alla media degli altri Paesi europei superando - secondo stime recenti - i cinque milioni di posizioni lavorative", www.welfare.gov.it, presentazione della Legge Biagi sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali.