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Innanzitutto in Paesi
come l'Italia, dove la domanda di manodopera poco
qualificata sembra essere più bassa che
altrove, flessibilità equivale a precarizzazione.
I lunghi tempi di disoccupazione tra un impiego
e l'altro rendono impossibile la pianificazione
di una famiglia, dell'acquisto di una casa o di
un qualsiasi investimento di una certa portata.
Rendono dunque difficile il normale svolgimento
della vita.
L'approvazione della legge n.30 del 14 febbraio
2003, meglio conosciuta come legge Biagi, oltre
ad introdurre percorsi formativi più funzionali
al lavoro e a riorganizzare le agenzie di lavoro,
regola le forme di lavoro che tipicamente sono
causa della precarizzazione.
In particolare modo i contratti a tempo determinato
(ovvero, il lavoro interinale) e i contratti di
part-time e simili pongono il lavoratore in una
posizione di forte insicurezza e debolezza: da
una parte i contratti a tempo determinato, come
per altro i contratti di formazione, forzano psicologicamente
il lavoratore a compiacere in ogni modo il datore
di lavoro nella speranza che il contratto venga
rinnovato, dall'altra i lavoratori part-time non
si sentono parte integrante dell'impresa e raramente
dimostrano alcun interesse per le attività
sindacali, anche se queste riguardano loro direttamente.
Inoltre, con la diffusione dei contratti a scadenza
fissa, l'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori
è da anni privato del suo significato dalla
realtà dei fatti.
L'insicurezza è aggravata in Italia dalla
presenza di una popolazione straniera residente
di 1.270.553 6
. Sebbene la presenza straniera nel nostro Paese
sia decisamente inferiore rispetto ad altri Paesi
europei7 , e
sebbene essa rappresenti una risorsa inestimabile
per un paese sempre più vecchio8
, essa costituisce un "rischio sociale"
che le amministrazioni locali e governative devono
impegnarsi a trasformare in arricchimento. Infatti,
il pericolo che può derivare da una popolazione
straniera spesso povera e sotto istruita, al di
là degli allarmismi legati alla criminalità
internazionale (che notoriamente esiste e si diffonde
attraverso una parte minoritaria di stranieri
che comunque si appoggiano a reti europee), o
peggio ancora alla purezza dei costumi e della
cultura, è quello che i lavoratori immigrati
entrino in competizione con quelli italiani: essi
sono infatti disposti solitamente a sottostare
a turni di lavoro più lunghi e talvolta
sotto pagati. Per la legge degli standard esposta
al paragrafo 1.3, se alcuni cittadini accettano
di limitare i propri diritti è probabile
che lo standard che riguarda tali diritti si abbassi
anch'esso, ovvero se alcuni cittadini sono disposti
a lavorare di più senza farsi pagare lo
straordinario come tale è probabile che
l'impresa assuma solo coloro che sono disposti
a fare altrettanto. E ciò è maggiormente
vero in un sistema di lavoro precario dove una
volta assunti a tempo determinato non si ha la
certezza di venire assunti nuovamente allo scadere
del contratto, per cui si è disposti a
sottostare maggiormente a soprusi.
A questo tipo di competizione tra cittadini italiani,
e lo stesso discorso vale per il resto d'Europa,
si va ad aggiungere quella tra lavoratori di paesi
industrializzati ad economia di mercato e lavoratori
residenti in PVS, e in particolare modo nei Paesi
di nuova industrializzazione come l'India o il
Brasile. Competizione creata dalla globalizzazione
produttiva delle multinazionali, che attraverso
la minaccia implicita della delocalizzazione produttiva
godono di un potere contrattuale decisamente superiore
a quello dei sindacati e delle associazioni dei
lavoratori9
. Marshall10
riporta come le imprese americane abbiano cercato
di competere con i PVS principalmente riducendo
i propri stipendi e trasferendo parte della produzione
in Paesi dove gli stipendi sono più bassi,
contribuendo così al generale abbassamento
degli stipendi negli USA registrato negli anni
'90 rispetto agli anni '70. Inoltre Cohen11
nota come nello stesso periodo negli Stati Uniti
si sia registrato un fortissimo calo nel livello
di sindacalizzazione dei lavoratori del settore
privato (dal 35 al 10%).
Per rispondere all'asimmetria di potere tra i
dirigenti delle multinazionali e i lavoratori
delle stesse, sono stati istituiti i Comitati
Aziendali Europei (CAE), a cui le aziende hanno
l'obbligo di comunicare tutte le decisioni relative
a eventuali trasferimenti della produzione.
I CAE, sono Comitati che, composti da rappresentanti
dei lavoratori e della Direzione aziendale, si
possono costituire in aziende multinazionali con
sede in Paesi dell'Unione europea. Essi rappresentano
un elemento centrale per l'allargamento delle
relazioni industriali in Europa. Attraverso i
CAE è infatti possibile stipulare accordi
innovativi, a livello d'impresa, in aree di particolare
interesse, come la sicurezza sul lavoro, salute,
parità di trattamento, formazione continua.
Qualsiasi accordo tra CAE e imprese deve rispettare
la legislazione e i contratti collettivi in vigore.
Sono degli anni '70 le prime proposte di coinvolgimento
dei lavoratori e delle organizzazioni nei processi
decisionali delle grandi imprese a statuto europeo
(''informare e consultare i lavoratori e i loro
rappresentanti in tema di innovazioni tecnologiche
conformemente alla legislazione, agli accordi
e alla pratica vigenti negli Stati membri'') ma
le proposte vanno avanti per tutti gli anni '70
e '80 senza ottenere il consenso, che allora doveva
essere unanime, degli Stati membri.
Intanto i processi di ristrutturazione industriale,
di concentrazione e fusione a livello transnazionale,
di chiusura e ridimensionamento degli impianti
diventano sempre più incisivi, rilanciando
il dibattito sulla costituzione dei Comitati d'impresa
di livello europeo. In questo contesto, la Commissione
presenta nel dicembre del '90 una nuova proposta,
ma è solo dopo l'entrata in vigore dell'Accordo
sociale allegato al Trattato di Maastricht (1°
novembre 1993), che si apre la strada alla sua
approvazione.
Dopo il Vertice di Corfù (giugno '94) viene
infatti approvata dal Consiglio dei Ministri del
lavoro e degli Affari sociali (22/9/94) la Direttiva
concernente "la costituzione di un comitato
aziendale europeo o di una procedura per l'informazione
e la consultazione dei lavoratori nelle imprese
e gruppi di imprese di dimensione comunitaria".
6
www.istat.it
7 Gli stranieri
rappresentano nel nostro Paese solamente il
2,2% della popolazione, contro il 9,0% della
Germania, il 5,6% della Francia o il 3,8% del
Regno Unito, www.istat.it.
8"[…]le
previsioni demografiche per quest'area hanno
messo in luce come nel prossimo futuro la combinazione
tra le dinamiche di (scarsa) crescita della
popolazione e le caratteristiche strutturali
del sistema economico renderanno necessario
l'ingresso di consistenti flussi di immigrati"
. Dati ISTAT, Bilancio demografico anno 2000,
p.2
9"Grazie
alla maggiore libertà negli scambi e
nei flussi di capitale, le imprese nel mondo
industrializzato affrontano una forte competizione
da parte dei PVS, dove i salari e altre condizioni
di lavoro sono più vantaggiose per gli
imprenditori. I sindacati hanno la tendenza
a percepire ed analizzare la nuova situazione
in modo disastroso perché permette alle
compagnie straniere di aumentare le loro quote
di mercato nei PVS. Per loro questo si tradurrà
in perdita di posti lavoro e in un rallentamento
nella creazione di nuovi impieghi nei Paesi
industrializzati perché ora le imprese
possono spostarsi e investire all'estero".
Raynauld A., Vidal J.P., "Labour Standards
and International Competitiveness", Edward
Elgar Publisher, Glos (R.U.) 1998 , p. 6
10 Citato
in Raynauld A., Vidal J.P., "Labour Standards
and International Competitiveness", Edward
Elgar Publisher, Glos (R.U.) 1998 , p. 7
11 Ibidem,
p.7
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