New York
New York, sono a New York e non ci credo. Eppure sono negli Stati Uniti da sei settimane ormai. Il trasloco è fatto. Resta solo l’ultimo passaggio, quello che sancirà l’ingresso a tutti gli effetti nella società americana: la televisione via cavo, il “cable”. Domani verranno i tecnici a casa e non avrò più scuse: seduta sul divano, sarò inequivocabilmente installata alla finestra di questo incredibile villaggio globale.
La norma qui è l’eccezione: non c’è newyorkese che non sia anche qualcos’altro -di origini italiane, irlandesi, cinesi, coreane, russe- ma guai a chiedere “da dove vieni”. L’unica risposta incredula e stizzita sarà “New York!”.
Io mi sento ancora in dovere di scusarmi del mio inglese da “Padrino”, dimenticando che avere un accento qui è un diritto. La Grande Mela è in fondo un’immensa Bolzano, bilingue e a statuto speciale. Lo sportello bancomat mi fa scegliere ogni volta la lingua della transazione: inglese o spagnolo. HBO, nota televisione a pagamento, ha anche una programmazione in spagnolo. Il cassiere del negozietto di frutta e verdura sulla Madison, dietro l’ufficio, risponde regolarmente in strascicato spagnolo alle mie elaboratissime frasi, incurante del mio sforzo sovraumano per parlare in un inglese passabile. Sono indignata. Ma non cedo: continuo a rivolgermi a lui in inglese sperando che prima o poi mi dimostri un briciolo di umana comprensione.
Qui l’inglese, o meglio l’americano, è una sorta di trama comune che tiene uniti tessuti di filati diversi. Una diversità che nella sua costanza diventa amalgama. Il crudele fruttivendolo capisce perfettamente il mio inglese e si aspetta perciò che io capisca il suo spagnolo: la cosa non è di poco conto in una delle maggiori democrazie al mondo.
Abituata alle dominazioni, da brava italiana fatico ad autodeterminarmi: di solito c’è sempre qualcuno che mi dice chi sono.
Dovrò imparare ma per il momento mi scuso. Di tutto, persino con l’addetto del call center –qui tutto si fa per telefono- sentendomi in colpa per il tempo che con le mie domande avevo rubato. Devo aver fatto tenerezza se si è sentito in dovere di rassicurarmi che se non fosse rimasto a lungo con me lo sarebbe stato con qualcun altro. Non è la prima volta che ricevo incoraggiamenti dal personale di servizio che non si capacita della mia docilità: qui il cliente ha veramente sempre ragione, anche quando non la chiede.
Mi sento in un altro mondo fuori dal mondo. Eppure il mondo è tutto qui: mi sono fermata all’angolo della Lexington e la 67esima, all’uscita della metro, all’ingresso dell’Hunter College: in meno di dieci minuti ho sentito parlare in sette lingue diverse e di queste sette due non le avevo nemmeno mai sentite.
Mi hanno presentato con il mio nome pronunciato al’italiana: mi sono sentita chiedere se ero armena.
Laura del Vecchio:Due lauree, Giurisprudenza con tesi in Economia a Roma e Commercio Internazionale a Le Havre; due specializzazioni, in Economia dei mercati asiatici e in Comunicazione; due esperienze “in azienda” come export manager per Fiat Auto Japan e per Danone; due esperienze “di penna” al quotidiano economico “Nikkei” e all’ISESAO della Bocconi: un “saper scrivere e far di conto” che ha finito per trovare buon uso all’Istituto nazionale per il Commercio Estero. Nata il 13 settembre del 1968: da poco compiuti…. due volte vent’anni