Il mio bene comune
di Laura del Vecchio
Settembre, si riprende. La scuola, le diete e i buoni propositi. A ben vedere non è ancora detto però che la scuola riapra puntuale: motivi di salute pubblica. Ragioni di pubblica sicurezza sono invece invocate per giustificare i respingimenti al largo delle coste italiane. Di pubblico dominio sono diventate le vicende di privati cittadini mentre riservatezza è richiesta per la vita privata dei personaggi pubblici. In dubbio viene messo il diritto del singolo di disporre della propria vita e dello Stato della propria unità.
Non credo si sia mai prodotta maggiore confusione tra bene comune e interesse privato come di questi giorni. Di certo la questione dipende molto dall’ottica in cui ci si pone. Non credo però si sia molto lontani dai tempi in cui il bene comune era l’interesse del re. C’è voluta una rivoluzione – quella francese - per fare un po’ di ordine ma non sembra che il concetto sia poi così radicato nelle nostre società. A dubitare che il bene comune esista sono spesso quegli stessi che invocano a gran voce l’intervento dello Stato a sostegno dell’economia. Fortuna che alcuni ancora si indignano se soldi pubblici – destinati per definizione al benessere di tutti – finiscono con il servire a pagare grossi premi a manager senza tanti scrupoli. Io che nel pubblico lavoro e dunque grazie a denaro pubblico mi sfamo, ho sempre creduto che l’azione dell’amministrazione dovesse essere imparziale. Ma ho di recente capito che una cosa è essere super partes e ben altro è agire nel favore di tutti.
In epoca romana si faceva distinzione fra res nullius e res communis. La res nullius non apparterrebbe a nessuno mentre res communis sarebbe qualcosa di più: di tutti, appunto. L’aria, per esempio, è un bene comune che non può essere fatto proprio da nessuno ma di cui nessuno può fare a meno. In questo senso lo è l’acqua o la conoscenza e in generale la Terra stessa. Non è un caso che sia proprio nella battaglia nella difesa del pianeta che stia finalmente prendendo forma un concetto più definito di “bene comune”. Finalmente si emerge la necessità di un’amministrazione lungimirante che abbia come criterio guida un agire che superi i confini nazionali e sia consapevole delle ricadute sulle generazioni future.
Tradizionalmente il fine di un’azienda è il profitto. Con l’evoluzione verso una società di servizi si è passati a parlare di soddisfazione del cliente. Concetto trasferitosi di recente all’utente della pubblica amministrazione. Da un decennio a questa parte hanno preso piede modelli di sviluppo alternativi in cui il fine dello Stato è il garantire ai propri cittadini un livello soddisfacente di felicità.
Visto in chiave mondiale, il bene comune può assumere significati molto diversi specie quando culture e aggregazioni sociali, politiche, economiche e religiose molto differenti si trovano a confronto. In Bhutan accanto al PIL si è affiancato un altro ordine di grandezze: il FIL indice di Felicità Interna Lorda. Il termine fu coniato nella metà degli anni '80 dal re Jigme Singye Wangchuck e ha trovato grande favore nel Dalai Lama secondo il quale il fine dello sviluppo economico dovrebbe essere quello di facilitare il raggiungimento della felicità, che è anche il fine della vita.
Nel mondo cattolico è bene comune “l’insieme di quelle condizioni della vita sociale che permettono, sia alle collettività sia ai singoli membri, di raggiungere la propria perfezione più pienamente e più celermente.” [Concilio Vaticano II]. “Questo significa che la costruzione di un giusto ordinamento sociale e statale, mediante il quale a ciascuno venga dato ciò che gli spetta, è un compito fondamentale che ogni generazione deve nuovamente affrontare.” [Benedetto XVI, Deus Caritas est, n. 28].
Dovrebbe confortare che sia stato insignito del premio Nobel per l’economia, un indiano, Amartya Sen, che ha sviluppato una teoria economica in cui il fine comune è il benessere condiviso.
Qualsiasi sia la prospettiva dalla quale si voglia vedere la cosa, è indubitato che avere funzioni pubbliche, lavorare al servizio dello Stato, comporta più che in ogni altro campo una responsabilità di ordine etico che va oltre le singole funzioni. Anche alle aziende però si chiede di comportasi in modo responsabile e rispettoso dell’interesse di tutti.
Forse è venuto il momento che si smetta di parlare di bene comune di ciascuno e che ciascuno incominci a ragionare in termini di Umanità.
Laura del Vecchio: Due lauree, Giurisprudenza con tesi in Economia a Roma e Commercio Internazionale a Le Havre; due specializzazioni, in Economia dei mercati asiatici e in Comunicazione; due esperienze “in azienda” come export manager per Fiat Auto Japan e per Danone; due esperienze “di penna” al quotidiano economico “Nikkei” e all’ISESAO della Bocconi: un “saper scrivere e far di conto” che ha finito per trovare buon uso all’Istituto nazionale per il Commercio Estero. Nata il 13 settembre del 1968: da poco compiuti…. due volte vent’anni