Mediterraneo e Futuro
Con stupore il grande pubblico e i vari scienziati competenti si stanno accorgendo che mondializzazione significa in gran parte riattribuire a ciascuno il suo. Infatti, la Repubblica Popolare Cinese con la consorella Taiwanese stanno solamente ripercorrendo con una certa fatica la strada che li aveva portati ad avere il 20 e poi il 15% del PIL del mondo fra il XVII e XVIII secolo, mentre l’India e l’intero Sud America riassumono il ruolo che fuori dal circuito euroasiatico possedevano prima della conquista ispanica.
Le Nazioni Unite consapevoli del fatto che la mondializzazione sta cambiando il nord centrismo che fin qui ha attraversato il mondo, volendo far si che la componente bianca e occidentale dell’umanità conservi un ruolo comunque importante al servizio del sistema scaturente dalla mondializzazione propongono all’Europa e agli Stati Uniti un modo per competere nella determinazione dei ruoli futuri con i BRIC, senza violenza.
La proposta delle Nazioni Unite passa attraverso il consiglio di sviluppare in maniera originale e positiva le tecnologie dell’informazione e quindi della conoscenza, senza per questo trascurare gli antichi e tradizionali settori primario, terziario e quaternario, sapendo o confermando che il settore secondario o industriale non è più praticabile nel condominio nord atlantico, vuoi per motivi ecologici, vuoi per motivi organizzativi e di costi.
La visione delle Nazioni Unite dice all’Europa composta ormai da ben 54 Stati che il suo futuro abbisogna di autonomia a livello di risorse naturali, umane e finanziarie. Per raggiungere tale livello di autonomia è necessario realizzare un effettivo spazio economico e sociale nell’area del Mediterraneo (compreso ovviamente il Mar Nero) e dell’Asia Centrale, al fine di conseguire l’autonomia delle risorse di cui si parla. Tale concetto, di Pan Economic European Space, contraddistingue e rende significativo quello di Wider European Integration.
Genericamente l’intera area può essere considerata Mediterraneo Economico e segue storicamente il percorso dei tre grandi imperi dell’area, quello persiano, quello greco-alessandrino e quello romano travolti per ben due volte dalle invasioni volute dall’impero cinese nel IV – V secolo d.C. a nord e poi dall’impero mongolo-cinese nel basso medio evo, da nord e da sud.
In questo senso è da recepire il concetto di “mediterraneo” quale area di confluenza delle grandi vie di comunicazione che hanno messo in relazione le terre della Lega Anseatica con Roma, e Costantinopoli (via dell’Ambra); il Corno d’Africa e le Arabie e la Somalia (via dell’Incenso), e, le più lontane vie delle Spezie e della Seta, con il bacino.
La proposta non violenta diviene l’essenza di una chiave di lettura che rifiutando la globalizzazione della povertà avvia la cultura del costruire insieme, miscelando le esperienze diverse portatrici di cultura e tecnologia, onde consentire una comune competitività, non necessariamente conflittuale con il resto del mondo, ma atta ad identificare nuove ragioni di scambio non opprimenti sulla base di nuove regole comuni.
Il Presidente Sarkozy crea l’ “Unione per il Mediterraneo”, con sede a Barcellona, come ponte di federiciana memoria tra l’Europa Centrale e la sponda meridionale del Mediterraneo, su indicazione delle Nazioni Unite e dell’Unione Europea, nonché per francese spontanea vocazione, prendendo atto della necessità di creare un partenariato fra uguali nell’area, fondato sulla pari dignità culturale e sociale pur nel diverso concetto di democrazia partecipativa e giuridica che i due mondi mostrano, rimanendo facce diverse della stessa medaglia, cioè di sette secoli di latinità.
Il progetto francese, ovviamente, sta nella creazione di un sistema giuridico articolato nelle diversità che trovi a suo fondamento quel complesso di prescrizioni scaturito dalla conferenza di Marrakech che hanno dato vita, fra l’altro, all’Organizzazione Mondiale del Commercio.
Il perno della trasformazione sta nella nuova composizione del commercio mondiale, nel quale gli scambi quotidiani, economici o giuridici, richiedono l’armonizzazione dei diritti dei singoli Stati.
La regola è divenuta la ricerca della percezione che l’imprenditore e il consumatore hanno della propria soddisfazione in funzione del proprio reddito e, in dipendenza di ciò, il loro grado di accettazione e di identificazione del sistema fondato su una pari dignità nella competizione e un pari diritto di accesso, senza che sia più ammissibile il predominio dell’attività finanziaria su quella reale.
In un tale maturo disegno economico e giuridico che comprende al suo interno il processo di globalizzazione inteso nel senso Kissingeriano di baricentramento delle attività produttive sempre più in aree subcontinentali capaci di contenere il costo di beni e servizi, si colloca la consapevolezza dell’interazione che ormai sussiste fra i singoli e le aziende di paesi lontani, non solo geograficamente, ma anche per livello di sviluppo; vuoi nell’ambito della politica industriale della competizione fra grandi imprese che fondano la loro attività sul successo della subfornitura; vuoi nella competizione fra piccole imprese autonome ma fra loro complementari, sino a divenire filiera e quindi sistemico distretto produttivo, superando l’endemica ristrettezza di risorsa capitalistica e di addetti, nonostante l’alta intensità di lavoro che ancora le caratterizza.
Una tale presa di coscienza ha fatto comprendere come non sia più possibile guardare alle sponde meridionali del mediterraneo e a quelle dipendenti del Mar Nero come a qualcosa di estraneo alla capacità europea di essere competitivi in termini globali verso la grande Asia e gli altri mercati del Pacifico e dell’Oceano Indiano.
Da qui l’individuata necessità dell’area di libero scambio con un’Unione Europea allargata ad altri cento milioni di abitanti che si dovrebbe concretizzare entro il 2010. Tuttavia, un’area di tal fatta richiede la pari dignità capace di rendere irredimibile il processo. E’ perciò necessario che i paesi della sponda meridionale mediterranea e del Mar Nero, e dell’Asia Centrale, siano posti nella condizione di partecipare al progetto in maniera equa e solidale per una comune prosperità.
L’obiettivo, quindi è quello di compiere un primo passo per dare risposte alle imprese che se da un lato trovano nell’Europa Centro Orientale e nel Mediterraneo buone occasioni di delocalizzazione , dall’altro vengono scoraggiate dai sistemi paese ancora legati a sistemi normativi affatto diversi, fondati su un diritto civile e processuale ancora non coordinato a livello pluriregionale, con la conseguenza dell’assenza di strumenti utili di mediazione e conciliazione e con la mancanza di un comune ceto professionale capace di interagire con le domande di assistenza provenienti dalle varie regioni dell’area.
La sfida che i paesi in transizione e quelli della sponda sud del mediterraneo conducono è quella di passare dalla teleologia preesistente all’ordinamento giuridico alla teleonomia delle relazioni, evolvendosi così dal noumeno al fenomeno in una chiave di riconoscimento dei diritti dell’altro da se espressi negli strumenti pattizi esistenti o in corso di elaborazione (pensiamo alla continua produzione di novelle da parte della Commissione dell’Unione Europea che contiene al momento più di 100mila capitoli che devono essere recepite nei vari paesi dell’area di vicinato per realizzare l’assunto di una competitività di confronto con il resto del mondo, fondata sul produrre insieme e vendere insieme).
La mondializzazione si è ormai costituita in termini di coesistenza a diversi livelli di partecipazione, attraverso la creazione di un arsenale giuridico e politico in continua evoluzione, divenendo un fatto di cronaca anche contestabile, col quale dobbiamo fare i conti considerato fra l’altro l’accesso a vele spiegate della Cina e quanto emerso dalla Conferenza di DOHA che ha segnato l’apertura dei confini come misura irreversibile, nonostante la mancata rivalutazione del Rembimbi/Yan.
Non essere sorpassati dagli eventi vuol significare adeguarsi agli stessi.
I prodotti tradizionali del bacino mediterraneo, che rimangono pur sempre la forza dell’Unione per il Mediterraneo, offerti individualmente sul mercato, pur rimanendo di qualità, non risultano negoziabili. Occorre creare strumenti giuridici atti a consentire la nascita di un mercato di nicchia capace di soddisfare i bisogni essenziali anche in termini di qualità della vita (misura alternativa a PIL in termini di felicità e non di economicità) nel rispetto della capacità di reddito di ciascun paese.
Naturalmente una tale innovazione si deve manifestare in chiave di una svolta economico liberale, fondata sulla trasparenza finanziaria, su un puntuale adempimento fiscale adeguato, inquadrata in un certo numero di regole da applicare particolarmente nel campo dell’International Business Law.
Ovviamente il problema è particolarmente presente nei paesi candidati all’allargamento verso est e verso sud, in quanto devono in fretta, ma senza subire sconvolgimenti sociali, provvedere a dare adeguata certezza esterna alle loro procedure e ai loro ordinamenti.
Aldilà di questa emergenza, l’UPM (Unione del Mediterraneo) in forza dell’art. XXIV dello OMC può riconoscere ed incoraggiare la regionalizzazione prima dell’integrazione cioè la realizzazione di un tavolo di lavoro che programmi diritti ed economie comuni, fra aree complementari ed in questo senso tendenti ad una pregnante omogeneità, vuoi nella piena condivisione delle regole dell’O.M.C. che nella piena adesione agli strumenti di varia natura giuridica dell’Unione Europea.
Il fenomeno di cui parliamo ha fin qui preso varie forme: unioni doganali, zone di libero scambio, zone franche associate, zone di unioni economiche e monetarie (ad es. Comesa, Uoma, Nama, Mercosur, Aladi). Occorre a questo punto che nascano strumenti di collaborazione professionale al servizio degli operatori economici e di quelli politici nonché delle famiglie che nei loro territori desiderano poter disporre di una possibilità di successo personale uguale a quella offerta nella sponda nord del Mediterraneo. La collaborazione fra professionisti consentirebbe di creare le stesse strutture, condivise e fondate su un approccio professionale diretto, derivanti dalla concreta manifestazione delle esigenze economico giuridiche esistenti.
La nascita di tali preliminari forme di consultazione e di raggruppamento di professionalità consente ai membri di affrontare meglio la concorrenza internazionale, di rafforzare i propri valori di riferimento e i risultati economici attesi che troverebbero origine dalla collaborazione fra Europa e Mediterraneo.
Il risultato che si otterrebbe comunque attraverso l’Unione per il Mediterraneo è quello di un ruolo politicamente più pesante nelle negoziazioni economiche multilaterali e soprattutto una chiave per preparare in concreto l’integrazione dei vari paesi.
In tale quadro l’iniziativa del Presidente Sarkozy consentirebbe di affrontare organicamente i problemi connessi all’armonizzazione delle istituzioni normative subcontinentali con quelle di rango nazionale nel rispetto dei vincoli nascenti dal contesto istituzionale politico, culturale, religioso da cui le legislazioni promanano.
Nella società dell’informazione e della conoscenza la politica culturale può avere una posizione strategica nel guidare il cambiamento, ma anche nell’aprire nuove opportunità economiche ed occupazionali. Si va sempre più comprendendo che uno sviluppo che tenga conto dei bisogni dei popoli e delle culture rappresenta un necessario contrapposto ad un modello di crescita dalle valenze esclusivamente economico-finanziarie.
Governare i processi di mutamento culturale che derivano dall’intensificarsi dei contatti tra individui e gruppi con differenti culture, proponendo dei modelli di interazione basati sul rispetto della diversità e sull’accettazione delle differenze, è l’unica strada per evitare nazionalismi e fondamentalismi, ed instaurare un regime pacifico di cooperazione internazionale.
In questa prospettiva si muove da tempo l’analisi delle grandi organizzazioni culturali internazionali come il Consiglio d’Europa e l’UNESCO, i quali sottolineano la necessità che le politiche culturali e la quantificazione delle risorse umane assumono un ruolo determinante nell’orientamento generale delle politiche per lo sviluppo. Questo è tanto più vero se si riflette sul ruolo centrale che nei processi di integrazione europea rivestono le politiche culturali, tendenti ad evitare tanto il fenomeno dell’omologazione, quanto quello del fondamentalismo, specie nei rapporti con i Paesi terzi del Mediterraneo e con quelli dell’est europeo.
Certo le modalità con cui le due dimensioni – cultura e sviluppo – interagiscono vanno sempre più approfondite attraverso la chiarificazione degli obiettivi, l’analisi delle politiche e la dotazione di strumenti di intervento adeguati.
Questo permetterà di aumentare le possibilità d’integrazione regionale e di sensibilizzazione gli operatori dei Paesi dell’area Balcanico-danubiana e mediterranea verso l’esigenza di una cultura giuridica armonizzata sul piano dei diritti umani e civili, come pure sul piano del diritto commerciale, ambientale e di tutela dei consumatori e della piena applicazione dei principi contabili internazionali e di quelli sulla concorrenza.
Tutto ciò premesso, occorre rinunciare all'oligopolio che stati e sistema imprenditoriale quotato hanno dato di sé, al momento anche attraverso la manipolazione delle certificazioni effettuate in più paesi, attraverso la quale hanno realizzato il più perfetto saccheggio di risparmio dal tempo del banchiere Law, le prove meno edificanti del neocolonialismo da qualsiasi parte esso si sia originato nonché guerre combattute ma mai dichiarate al puro servizio dello sfruttamento di risorse naturali o primarie utili al comparto trasporti o farmaceutico.
La spartizione della preda in termini neocoloniali ha avuto diversi nomi, oggi concentrabili nell'unico: neoliberismo. Il risultato è in una serie di illusioni:
a) che il passaggio dall'economia collettiva a quella di mercato rendesse tutti gli esseri umani più ricchi, gli effetti concreti sono stati il frazionamento della proprietà contadina, in dimensioni tali da non consentire un qualche progetto produttivo e distributivo, quindi con la conseguente impossibilità per gli stessi di passare dal servaggio collettivo, ad un reddito autonomo sufficiente al mantenimento proprio e della propria famiglia, così in Polonia, come in Romania o in Russia o negli altri PVS/LDC.
In conseguenza di ciò la grande distribuzione, certamente portatrice di un ottimo rapporto qualità/ prezzo ha trovato modo di soppiantare l'antico mercato delle erbe con il proprio, spingendo un disperato consumatore a rinunciare a un anonimo acquisto su quel mercato locale, divenuto troppo caro e portatore di un'immagine tradizionale da sostituire con una tecnologicamente più avanzata ed igienica, meno costosa, standardizzata e avvertita come funzionale al bisogno da soddisfare.
b) la privatizzazione con la generalizzata chiusura dei kombinat, ha comportato la dispersione di capacità e competenze, anche notevoli, fra operai, quadri e dirigenti, il deprezzamento della dignità, l'alterazione della capacità produttiva, l'accaparramento da parte di soggetti locali o di enti internazionali delle strutture e delle aziende. I nuovi investitori si sono ben guardati poi dal tener fede agli impegni assunti in termini di mantenimento dell’occupazione e di prestazione dei servizi minimi prima garantiti.
A questo punto occorre provvedere ad effettuare un cambiamento di rotta di 180° attraverso quello che gli studiosi di organizzazione aziendale, di origine americana, più avvertiti hanno chiarito essere la nuova responsabilità sociale delle imprese; sulla scia del concetto di responsabilità sociale si riapre il dibattito sulla proprietà e sulla gestione dei mezzi di produzione, ripartendo così da quelle esperienze di segno opposto che comunque avevano segnato il secolo passato, la cogestione della Lega dei socialisti jugoslava e la mittbestimmung in Germania.
Ovviamente a cavallo dei due secoli molte cose sono cambiate, dal protezionismo nazionale siamo passati al protezionismo continentale, dai diritti nazionali siamo trascorsi a quelli multilaterali, dai tribunali ordinari siamo passati a quelli arbitrali, dalle borse territoriali siamo passati a quelle universali, dal mercato interno siamo passati a quello globale, accanto e sopra le potenze tradizionali sono emerse le nuove realtà, peraltro, in due casi di antichissima civiltà: Cina e India, e nell'altro caso si parla dell'unico paese al mondo che non conosce conflitti etnici o pregiudizi razziali: il Brasile, mentre subisce ancora la diversa velocità di crescita fra campagna e città.
Dall'indifferenza e dall'ateismo siamo caduti nell'integralismo trionfalistico, sia teista che non. In tutto però è venuta meno la coesione sociale, il linguaggio comune, specie nel momento in cui è nata la società della conoscenza per definizione discriminata per la mancanza di strumenti di accesso (elettricità e ordinatori, etc.) e mentre nel nome di ogni possibile settarismo capitalistico i poveri del mondo divengono sempre più poveri e i ricchi sempre più ricchi, e mentre crescono le solitudini urbane nasce la solitudine delle “comunità virtuali”.
Occorre iniziare quella grande marcia che ha consentito a suo tempo al futuro Presidente Mao Tze Tung di portare la Cina al di là del bisogno primario. La grande marcia che riporta al centro la persona umana è la riscoperta del settore primario, orientato finalmente a sollevare il produttore dal vincolo del distributore e creando una autonoma catena del valore, capace di portare finalmente ad un rapporto congruo, il rapporto costo/beneficio per il consumatore/elettore e per il produttore/elettore.
Il capitalismo puro successivo alla caduta del muro di Berlino è stato utilizzato per de localizzare sfruttando il differenziale materie prime-lavoro umano a tutto vantaggio di un recupero di competitività non fondata sull'innovazione tecnologia ma solo su una obsolescenza non più controllabile e deprecata perché costosa e non utile nel sistema occidentale.
Il mondo dopo la crisi finanziaria ha percepito il fenomeno e se da una parte ha posto in atto gli scudi fiscali utili alla rilegittimazione dei capitali riciclati o quantomeno sottratti al fisco, dall’altra ha creato un complesso di norme finanziarie atte a consentire l’internazionalizzazione dell’impresa nel senso di creazioni di sedi secondarie o di sussidiarie produttive ma serventi solo i mercati di nuovi insediamento o quelli regionali relativi, salvo ripresa a tassazione delle maggiori plusvalenze realizzate con la mera delocalizzazione.
Non tutto quanto è stato realizzato dal socialismo reale era da buttare: libertà di imparare, di amare, di essere rispettati nella salute, nella cura dei bambini, degli anziani, dell'ambiente, delle madri. E' stato un fatto forte che può essere posto a base di un nuovo fondante umanesimo diffuso e non più arcadico, cioè un umanesimo della responsabilità sociale delle imprese ma anche del settore pubblico allargato.
Allo stesso modo le imprese e la P.A. devono attendere alla compilazione del bilancio etico, certamente figlio di quello contabile ma innovativo, in quanto esprime la capacità di remunerare non solo i quattro fattori classici della produzione: terra, capitale, lavoro, organizzazione ma anche il quinto: il consumatore-azionista-elettore.
LETTERATURA CONSULTATA
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Vincenzo Porcasi: commercialista, anni 65. Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, specializzato in questioni di internazionalizzazione di impresa, organizzazione aziendale, Marketing globale e territoriale. Autore di numerosi saggi monografici e articoli, commissionati, fra l’altro dal C.N.R.-Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Ministero del Lavoro. Incarichi di docenza con l’Università “LUISS”, con l’Università di Cassino, con l’Università di Urbino, con l’Università di Bologna, con la Sapienza di Roma, con l’Università di Trieste, e con quella di Palermo nonché dell’UNISU di Roma. E’ ispettore per il Ministero dello Sviluppo economico. Già GOA presso il Tribunale di Gorizia, nonché già Giudice Tributario presso la Commissione Regionale dell’Emilia Romagna.