Dalla parte del Vesuvio da dove viene il tempo.
(pensieri volatili come animali da cortile)
“Chiusi il libro e provai uno strano miscuglio di malinconia e speranza e mi chiesi se un ricordo è qualcosa che hai o qualcosa che hai perduto.
Per la prima volta, da tanto tempo, mi sentii pacificata”
(Un’altra donna-Woody Allen)
1989
Morire. Morire senza ascoltare più Malher. Senza più leggere James. Senza più muovere le mani. Senza più credere. Gli amici che ti parlano di loro. Le persone che avresti voluto amare e che lo hanno impedito. La voglia di vomitare.
Il gusto di guardare. Piangere avendo dimenticato perché. E le note dell’Adagietto nell’aria fresca di un mattino di giugno. Il sonno che ti raggiunge tardi nella notte, quando già disperavi. Un risveglio improvviso. Un gallo dalla voce sbilenca. Il ricordo di un uomo.
Morire. Morire senza più dire Domani andiamo al mare. Senza più misurare gli attimi. Senza più mettersi gli occhiali da sole per difendersi dalla luce. Senza più aspettare. La polvere sulle cose.
Le donne che ti salutano dalla finestra. Lo squillo inquietante del telefono. Il desiderio di ascoltare una voce. La coscienza di un’assenza. La nera lucidità del piumaggio di un merlo maschio.
Marzo 1990
Quei pomeriggi d’estate. Silenziosi ! Bui perché il sole restava chiuso dietro i potenti scuri delle finestre. Eppure bianchi. Caldi e morbidi di suoni. Quei pomeriggi in cui, improvviso, scoppiava il ticchettio di zoccoli sull’asfalto. Lontanissimo rumore. Unico sulla terra. E spirava un alito di mare.
Maggio 1990
Luciano Cilio, si è ucciso ingerendo del veleno per topi.
Sì proprio come Emma Bovary.
Ne ha comprato un bel po’ il giorno precedente. Ha parlato col venditore. Ha spiegato l’acquisto con la presenza di alcuni topi sul suo terrazzo. Ha riso con l’altro che gli raccomandava di stare attento a maneggiarlo. Era tranquillo e gentile come sempre. Bello, lo ricordo. Lo rivedo tornare a casa. Aspettare con ansia, o senza ansia alcuna, che giungesse la sera. Preparare attentamente la pozione o il pasto. Evitare di toccare con le dita il veleno proprio come si è raccomandato il venditore. Infine bere o mangiare. Stendersi sul letto e attendere la fine della notte.
Febbraio 1990
Matilde sta morendo. Piano, dolorosamente sta morendo. Io non voglio guardare la sua morte. E già comincio a ricordarla.
2 Marzo 1990
Aspettando Alfredo a pranzo.
La mattina è colma di sole e di segni della primavera incipiente. Ciascuno di noi esprime il proprio dolore come può. Il prematuro arrivo della stagione primaverile rende ancor più orribile ciò che sta accadendo. Penso alle rose del suo giardino. Penso al profumo dei fiori di lillà che le abbiamo regalato. Penso alla sua carne, alla bellezza del suo volto, alla sua maternità. Ripetuta per sei volte. Penso al suo dormire al sole. Agli abiti di cui va fiera, come di un tesoro. Penso alla casa solitaria come la vidi l’ultima volta senza di lei. Penso alle processionarie che si arrampicano in una fila ininterrotta sul lauro. Penso a quella casa senza di lei. E ricordo. Ricordo giorni e ore e attimi. Ricordo sorrisi e sguardi e parole.
Marzo 1990
Il male avanza. Ieri le dolevano le gambe. Per due notti ha vegliato. Ha avuto paura.
Ora si è fermato. Pare abbia avuto una stasi. Le si sono gonfiati i lineamenti per il cortisone. Lei si guarda e lo vede.
Sta rannicchiandosi in un suo mondo. E’ il mondo della malattia. E’ un mondo lontano dal nostro. Estraneo. In cui si ripara.
Sabato 28 Aprile 1990 Matilde muore.
Giugno 1990
Dalla porta aperta si può vedere la collina di faccia. Verde di tutte le sfumature di questo colore. Dal profondo bottiglia di alberi bruni al verde pastello di gemme in sboccio. Un prato di papaveri irrompe col suo rosso persistente. Tutto è lieve, appena un po’ ventoso, solo un po’ silenzioso. Gli uccelli si scambiano pareri. Trillandosi versi di delizie. Voci di rondini bianche e nere dal volo stizzoso. Voci di merli che imbastiscono conversazioni. Barocchi e ripetitivi racconti di fiabe sempre uguali. Trilli, gorgheggi: vociare lontano e leggero. Una gallina misura a passi di marcia la lunghezza dell’aia. Avanti e indietro come se stesse pensando, nervosa, o dettando una lettera. Le ali all’indietro e il collo proteso in avanti
24 Ottobre 1990
La pioggia è finita. Dalle tende nel giardino si alza un fumo leggero poi più fitto, a sprazzi. Una lieve nebbia nasce in punti diversi come se la stoffa fosse in fiamme. Si ferma per ricominciare subito dopo. Sbuffi che si allargano, presi dal vento, e si sollevano. L’acqua è riscaldata da un sole flebile, autunnale. Ed è l’azione di questo sole ad incendiare le tende.
14 Gennaio 1991
Domani scoppierà la guerra! E’ assurdo che si possa ancora dire: domani scoppierà la guerra. E’ inconcepibile che la stupidità dell’uomo si estrinsechi ancora e ancora. Non basta mai dunque? Le donne si buttano sulla farina, sul pane, sulla pasta terrorizzate dallo spettro della fame. La guerra per loro vuol dire solamente :fame. Non morte, non perdita della propria dignità, non caduta del progresso, non scacco per la Civiltà, bensì solo e sempre fame.
E’ possibile che l’uomo moderno, che sa di tutto e di tutto si occupa, il democratico per eccellenza, l’uomo liberato, l’uomo pago, l’uomo felice nell’opulenza, di fronte ad una catastrofe quale sarebbe la Terza Guerra Mondiale sa solo fare incetta, accaparrare, divorare, rubare, strappare, mendicare cibo?
17 gennaio1991
Hanno trascinato vecchi alberi di Natale rinsecchiti, tronchi, cassette di frutta frantumati e tutto quello che può dar fuoco. Ne hanno fatto una catasta. Invocato l’arrivo della primavera, fatto un falò che ha lambito le mura della città.
17 gennaio1991
Oggi è scoppiata la guerra. All’una circa del mattino. Oggi la follia ha svelato il suo volto. Oggi la civiltà ha perso.
Ciò che provo è una sorta di disteso disprezzo. Disprezzo per tutti i regnanti del mondo, per chi comanda, per chi crede di non ubbidire. Per chi crede di contare, di farcela, di volerlo. Disprezzo per tutti i servi che sono sicuri di non esserlo. Disprezzo per gli stupidi, i cinici, gli assassini che dicono di stare nel giusto. Per chi ci offende con la sua volgarità, per chi ci disgusta con la sua ambiguità, per chi ci infanga con la sua idiozia. Disprezzo per la donna che fa incetta, per quella che ha i figli già grandi, per quella che vede solo le sue piccole necessità.
7 Febbraio 1991
Domenica 3 Febbraio alle ore 7 di sera il PCI è morto. Al suo posto è nato PDS: il partito nuovo. Tutti erano contenti. Molte fate presenziarono con i loro doni. Ma quando scoprirono il lenzuolo di seta che lo avvolgeva, si resero conto che il neonato era un mostro. Le fate più accanite e potenti sembrarono offese ma in cuor loro furono felici che rassomigliasse tanto poco ai suoi avi da essere irriconoscibile. Presentava capacità d’inganno, di ambiguità, di cinismo che ricordavano le migliori virtù del Potere. Ne furono scandalizzate apparentemente, ma lo amarono e lo riconobbero subito.
Oggi 28 Febbraio La Guerra è finita.
1 Marzo 1991
Gli Iracheni dell’esercito in rotta sono bellissimi.
Si avvicinano con la bandiera bianca issata e un sorriso timido sul volto. I loro volti ! Antichi, gentili, solenni. Virili, nel senso assoluto del coraggio, della capacità di accettare tutto in nome della vita. I loro occhi nerissimi, le labbra scure, i visi affilati per la fatica e la fame. Con un’espressione incredula, estranea a tutto ciò che è avvenuto prima e dopo intorno a loro. Avvezzi ad altri mestieri che non quello di soldati, meravigliati di dover accettare un dono così grande, quello di essere vivi, si avvicinano al mondo della “civiltà”, della guerra con sguardo pudico. Ecco! Il loro è un atto di pudore, quel sorridere e quell’avvicinarsi, come animali sperduti, intimoriti, intimiditi. E i loro gesti nel prendere il pane, staccarne pezzi piccoli con le mani e metterli in bocca.
Gestualità antica, così nobile ed estinta, così soave e semplice.
E’ Pasqua, è Pasqua, è tempo di Pasqua.
Calvi 24 Maggio
Impressioni di viaggio.
Il cielo di faccia, improvvisamente diventa scuro. E’ cupo come notte. Vi è all’orizzonte un chiarore di luce color perla. Accanto nuvole grigio topo, più vicine lunghe ombre quasi nere. Tutta la gamma del grigio. Al centro, aspettando la pioggia che verrà, ci siamo noi. E la bellezza del dipinto è tale da fermare il battito del tempo.
Su un’altura una casa rossa. Alcune abitazioni e nulla dietro. Solo l’altura verde e le case. Il buio del cielo, divenuto profondo, ha estraniato quelle case e quel colle dal resto del mondo. Galleggiano, ora, su di un mare nero, invisibile e perduto. Sembrerebbe che ascendano al cielo o finiscano nell’oblio.
Un castello medioevale di pietre di tufo giallo. Solo resti pizzuti. Un castello come pochi. Il verde cresce nelle ampie crepe. Sono alberi antichi. E tutto il passato su quelle mura ha segnato i giorni avvenire.
Dicembre 1992
Alfredo si alza dal suo panchetto dinanzi all’enorme specchio. Poggia una mano, quella ancora abile, a pugno sulla superficie di legno dello sgabello, curva il corpo, lo proietta in avanti e si solleva con sforzo, con dolore, con determinazione. Inizia a muovere i suoi primi passi sbilenchi, instabili, incoerenti, come appena venuto fuori dal ventre materno.
Giugno 1993
Mi manca il volto giovane e bello di mia madre. Mi manca la giovinezza di mia madre. Sorride con i suoi occhi color visone chiaro, con spruzzi di polvere d’oro e la profondità del mare.
Estate1993
La felicità di un pomeriggio di sole. Ragazzi che giocano a pallone. Un ricordo che s’insinua. Nel volto la convinzione di essere bravo. Di essere il migliore. Le braccia penzoloni lungo il corpo. L’odore acre del corpo di un cane. Il sole che penetra lo sguardo. La vecchiaia cessa di essere. C’è solo il gioco. Il corpo esile di un calciatore più anziano. La giocosità degli altri. Una maglia di cotone verde marcio con bordure scure al giro delle maniche. E’ dolce, tutto è così lontano e casuale. Anche se dovesse finire, e finirà, saprò sempre dove e quando è stato. Fu quando il tempo della vecchiaia per un attimo si è fermato. Poi in un istante tutti se ne vanno per la loro strada. Il gioco è finito.
Negli ultimi giorni ho avuto spesso la voglia di scrivere. Erano pensieri sparsi. Voglia di ricordare. Ma poi sono tutti volati via. Meglio così. Forse ce n’era qualcuno così bello da meritare il silenzio.
Osare.
Avere il coraggio di andare contro corrente, di andare oltre, di valicare confini, di non fermarsi alla superficie. Non esiste una cultura alta ed una meno alta esiste solo la noia. Un gesto creativo senza vita, asfittico, pavido, furbo, conveniente è merda.
Laura Lambiase Profeta ha scritto di musica per “Laboratorio Musica” e “l’Unità”; ha descritto Napoli sul “Mattino” e sulla guida “dell’Espresso”; si è divertita su “Cosmopolitan”.
E nata a Pontecagnano molti, molti anni or sono e vive a Napoli tra Paradiso e Provvidenza.