Un mestiere molto bello
Pubblicato on line su Parole in Corsa VI Edizione Atac – Metro – Trambus
di Laura Del Vecchio
Due lauree, Giurisprudenza con tesi in Economia a Roma e Commercio Internazionale a Le Havre; due specializzazioni, in Economia dei mercati asiatici e in Comunicazione; due esperienze “in azienda” come export manager per Fiat Auto Japan e per Danone; due esperienze “di penna” al quotidiano economico “Nikkei” e all’ISESAO della Bocconi: un “saper scrivere e far di conto” che ha finito per trovare buon uso all’Istituto nazionale per il Commercio Estero: attuale “ghost writer” del Presidente dell’ICE. Nata il 13 settembre del 1968: da poco compiuti…. due volte vent’anni
Sonnecchiosa sonnolenza che si insinua nel silenzio sordo di un pomeriggio afoso. Fuori l’estate. Dentro il sibilo stanco del condizionatore. Anche il computer arranca. Ogni gesto uno sforzo. Mando giù un caffè troppo forte. Il cuore sussulta, ma la testa ciondola. Terzo giorno di cielo terso e sole arso. Intorno la città si muove lenta. Guardo assorta attraverso la finestra chiusa. Ripenso a stamattina: dormivo così bene quando ha suonato la sveglia. La notte era stata calda e la frescura dell’alba una vera manna. Avrei voluto fermare il tempo e sperare che il mondo si dimenticasse di me. Ma forse è già così: poco importa chi lo faccia purché si faccia.
“La produttività più bassa d’Europa”, dicono, ma c’è qualcosa che non mi convince. Se lavorare fosse gratificante come ascoltare musica o vedersi un film, il 1 Maggio si resterebbe tutti a fare straordinari fino a notte fonda. Una bella scorpacciata. Funziona così per la Festa del Cinema o per quella della Musica. E invece no: quel giorno si sta a casa. Mi viene il sospetto che il lavoro, così come è inteso, sia una servitù mascherata da bella cosa. Mai visto, nella storia, uno schiavo entusiasta. Al più, sotto la minaccia del bastone, si trascina e si piega, ma appena può respira e si stira la schiena. La carriera, invece, è la carota. Se poi manca pure quella, ogni giornata segue l’altra, identica nel rimpianto di una vita mancata. Altro che “fannulloni e sfaccendati”. Guardali nel fine settimana quegli impiegati: sveglia alle 5 per un’uscita in montagna o a letto alle 4 per una non stop di salsa. Veri stacanovisti. E allora la soluzione è evidente: cambiare sistema. Finalmente tutti a fare quello che non si potrebbe fare. Non intendo mangiare fuori pausa, scappare dall’ufficio per fare la spesa o dare un pugno in faccia a un collega. Intendo che ognuno faccia quello che sa fare e che gli viene bene. Una vera deregulation spirituale. Altro che produttività bassa. Ognuno lavorerebbe senza che gli si dicesse di lavorare. La si smetterebbe di racimolare a destra e a sinistra scampoli di tempo. D’incanto sparirebbero fannulloni, pigri, svogliati, depressi e sfigati. Gli espedienti quotidiani resterebbero solo un ricordo: mai più biglietti dell’autobus non vidimati, tenuti in tasca a mo’ di rimedio anti-multa o meloni “francesini” pesati con il numero dei più abordabili “retati”. Liberati dal bisogno di rivalsa, saremmo tutti più onesti con gli altri e con noi stessi. Non più scuse o pretesti. Le prigioni svuotate, dentro solo veri talenti perseguiti da poliziotti convinti. Negli uffici metà della gente, a fare per tre, in un quarto del tempo. Gli altri a fare altro.
Come baciata da questi pensieri, mi risveglio. Mi sento meglio come il malato a cui sia stato spiegato il suo malanno. Emerge dall’oscurità anche lo schermo. Mi rimetto al lavoro. Vivere potrebbe essere un mestiere molto bello, a volerlo.