“Dove scorre il sebeto”
NOTE DI REGIA
Dove scorre il Sebeto. Non è noto (almeno a me) se esso stesso si sia scavato il suo nuovo letto o se, più probabilmente, la mano dell’uomo, col suo cemento, l’abbia deviato in un diverso, carsico, corso. Ed è anche in ragione della sua misteriosa scomparsa che il fiume è assurto a metafora della città e, per molti aspetti, dell’uomo napolitano. Un dato culturale dunque, più che un’ipotesi idrogeologica. E nel dato culturale sono presenti anche sofferenze e colpe di un popolo che, con il suo ricco idioma, compie un lungo viaggio alla ricerca del fiume perduto. E ora attraversa i suoi valori linguistici nella trasposizione dal poema alla piéce teatrale. È qui il senso del poema di Mimmo Grasso, e qui il punto di partenza della messa in scena.
Teatro-poesia, teatro di visività.
La sequenza di spunti gestuali vuole mescolare emozioni inesplicate, nell’universo interiore dello spettatore. In quel profondo dove le immagini si compongono e si sovrappongono surrealisticamente. Lì dove abita il campo sensibile delle suggestioni poetiche che ne derivano. Il luogo della poesia, riproposto come luogo del teatro-poesia. Il gesto mimico inatteso e la visività scenica, che appaghi o inquieti, non ha le motivazioni ovvie della naturalità. Il verso, in un dialetto ricco di suggestioni, ha un ritmo poetico quasi visivo, anch’esso. È l’immagine del fiume: “impassibile, coi flutti come attori di drammi molto antichi” (A. Rimbaud - Il battello ebbro).
In scena gli attori propongono una serie di gesti coerenti col proprio sentire, quale contributo personale ad una creatività collegiale, che, impostati e diretti dalla grafia gestuale, la regia ha raccordati. I toni e gli accenti recitativi si sottraggono alla ovvietà del ritmo consueto, sia proprio della poesia, sia proprio del teatro, per proporsi in un modulo orientato a un intellettuale coinvolgimento dello spettatore. Ma ad esso è dato di esprimere la propria valutazione della pièce, oltre il tempo reale, registrando parole, suoni, gesti e visività, da ricompattare finalmente attraverso propri percorsi di memoria. E perciò lo stesso ritmo temporale della piéce è indagatore e lento.
Si è voluta anche evitare ogni connotazione troppo facile di napoletanità, dalla tammorra alla cantata. Lo stesso Grasso ha isolato, in punto di ironia, la reiterazione fastidiosa del topos: Quando sponta la luna a Marechiaro.
La struttura scenica si offre allo sguardo come installazione unica e complessiva. Le immagini poetiche, i materiali musicali e sonori, le luci e la grafia gestuale (gestualità e movimenti scenici degli attori), come la suggestione continua dell’acqua, lambiscono significati celati e, sul punto di svelamento, lasciano lo spettatore/lettore di fronte alle sue personali responsabilità.
In “dove scorre il Sebeto”, Napoli è presente nella sua complessità. I segni sono tutti, naturalmente, figli di Partenope e dei suoi radicamenti culturali: la sua grecità, le sue lacerazioni storiche, i suoi spunti religiosopopolari, ma anche una moderna, sofferta consapevolezza. Anche il verso è sorretto da un ritmo verità quando, abbandonato il fluente endecasillabo, espone più ruvide frammentazioni metriche e il settenario, dal passo incalzane sia antico, sia moderno. L’idioma, ricco e articolato, ci conduce nel viaggio, alla ricerca di nuovi valori linguistici: dal poema al fatto teatrale.
Infine la musica: anch’essa libera da ogni collocazione etnico/linguistica. Un percussionista in scena, crea, momento per momento, i suoi ritmi, lontani dal troppo ripetuto rito tammorraro. In altri punti la pagina musicale è registrata e propone radici diverse ma stilisticamente coerenti.
raffaele rizzo
NOTE DELL’AUTORE DEL TESTO POETICO
Le icone di Napoli sono acquigere: la statua del Nilo, detta dal popolo “Il corpo di Napoli”, rappresenta il fiume di tutti i fiumi. Sulla base della statua è possibile immaginare delfini scolpiti in rilievo mentre saltano in un campo di papaveri. Il fiume “Sebeto”, sotterraneo, rappresenta, come tutti i fiumi, la coscienza civile di “Napoli”. (Non sarà un caso che autore e regista siano membri dell’Istituto Patafisico Partenopeo e che lo stesso poema possa essere oggetto di un’operazione di scomposizione e rimodulazione alla Queneau oltre che, ovviamente, supporre una “soluzione immaginaria” per i problemi di Napoli, soluzione che va nella direzione di una riconquista dell’identità dei napoletani, nel rito di passaggio di una discesa agli inferi del corpo, della memoria corporale).
Tra i personaggi del testo a uno solo, Virgilio, viene attribuita una parola che,ricorda lo scorrere dell’acqua: “murmuréa”, il “fare mr-mr”. A Virgilio sono stati attribuiti dalla tradizione e dalla cultura popolare i segni distintivi di molte altre icone. Il testo nasce nel 2005 , dunque prima del realissimo pattume che ha invaso Napoli. La coincidenza è, come càpita per le opere in poesia, significativa.
Ai fini della rappresentazione teatrale elaborata da Raffaele Rizzo e considerando che “Napoli” è qualsiasi città o dimensione di confine e che il “Sebeto” vale lo Spoon River o l’Hudson o il Tamigi o il Danubio va annotato che passando, alla Ricoeur, dal testo all’azione il “fare” scenico del regista rispetta le “polarità” della scrittura e dunque del pensiero. Altresì, credo che il primo test di “teatro-poesia” Rizzo l’abbia fatto su sé stesso, nel senso che ha passato a setaccio i sedimenti del testo dalla sua “memoria del giorno dopo”. L’azione si sviluppa come osservando il fluire da una postazione logica (un cubo all’interno del quale “avviene” il linguaggio-azione, “quadri” polidimensionali che il regista ha ritratto dal libro).
Il “Sebeto” teatrale non ha un “dove”, la sua categoria temporale è la lentezza. Il titolo infatti reca come sottotitolo “lenta immersione nella città dolente” (non si specifica quale città; dunque, per antonomasia, la “città dolente” di Alighieri). “Sebeto” è il sangue di Napoli, il trucco che c’è ma non si vede, il flusso ora coagulato ora “versato” per mattanze ed ecatombi. E’ ciò che è capitato a Petru, opportunamente citato da Rizzo in “Sebeto”.
Gli attori entrano in una gabbia aperta di ferro, “prigione senza mura”. Prigionieri di una caverna di tubolari e sotto un cielo generato da un big-bang di plexiglas dal quale sono fuggite l’idealità, l’utopia e l’eresia: la coscienza, in Napoli, di “esserci”. Il “Sebeto” ora scorre sotto i piedi degli attori ora devia sotto quelli dello spettatore che, nella rappresentazione come nella lettura silenziosa, non è mai innocente.
La condizione esistenziale dei napoletani è la cecità: siano essi nati ciechi o ciechi che riacquistano la vista per l’ùzzolo di sinecure elargite dal potere istituzionale; è una condizione molto peggiore di quella dell’uomo incatenato di Platone: il popolo, che amo, di cui ascolto per strada il muggito del cuore, sulla scena mostra l’anima dell’animus e ora è il vitello di Lucrezio ora il “cardellino accecato nato muto”. In ogni caso può solo ascoltare ciò che gloglotta nella propria pancia, nel corpo del corpo, che puzza, che è “sivo”.
Gli attori sono 5, come un pentagramma, ma , in effetti, è sempre uno solo chi si parla e si ascolta. Ognuno propone la “propria” verità, è la Sibilla di sé stesso.
Commento al flusso dei quadri:
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1. Miasma. Del corpo della città e del proprio. Il corpo è tragico. Il repertorio in tal senso implica le occorrenze più “eclatanti” della corporeità tragica. Il corpo è la dimora anche dei versi.
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2. Il corpus sociale. Vengono ripercorsi, vita quotidiana, comportamenti, credenze della città, sia quella infima che quella nobilissima. Il surplus di miasma si fa ossessivo fino al disincanto. Si procede per opposizioni di simboli, in formula chiastica. Compare, tra i poeti, l’ Eliot de “La terra desolata” (O mio popolo, cosa ti ho fatto…), fino a identificare il proprio ritmo vitale e il proprio comportamento con quello del popolo (vivo, vivissimo sulla scena, spesso in preda a balli di San Vito)..
- 3. Dissonanza cognitiva . Refrain di Quanno sponta la luna a Marechiaro. Questa “luna” (una palla, sulla scena -elemento tondo rispetto a quello poligonale e a parallellepipedo della “gabbia) splenderà costantemente, malinconicamente e atavicamente sullo e nello scorrere del Sebeto.
- 4. Dalla dissonanza alla consonanza. Lo “stare coi piedi per terra” che finisce per essere la vera posizione capovolta del reale. Rapsodia dei piedi. I “cardilli accecati nati muti” non possono che rievocare l’Edipo. Le forze che entrano in conflitto nel corpo trovano esito nello stesso corpo che qui diventa “soma”, anticipando il “cavallo”, la dinamica neuromotoria e schizofrenica successiva. Il “corpus” di Napoli in “Sebeto” si manifesta attraverso la fluidità, umoralità, miasma del ghenos.
- 5. Il riordino dei dati dell’esperienza. Dopo la trenodìa e la quasi epilessia, la possessione, interviene, come per tutte le catarsi, il distacco, l’ironia, la volontà di riscatto. Napoli è osservata adesso nei suoi incredibilia e nel suo altrettanto incredibile canone comportamentale che nella marionetta dell’ avvocato con la voce a pivetta trova il suo simbolo autoironico, microUbù che ritornerà in altro luogo della “messa” in scena.
- 6. Stasi. Omeostato corpo-memoria in equilibrio. Desiderio di significato e senso ordinato. Dal corpo sale una nenia al proprio cantare “a ffronna” fino alla elaborazione di un classicissimo sonetto in lingua napoletana la cui situazione rinvia a Machado (El limonero languido suspende…).
- 7. Arsi e tesi verso il basso. Ritorna l’animus, grottesco rispetto all’anima lirica. Si tratta di due facce della medaglia che implicano “polarismo”, anche iconografico. Sulla scena “Pulcinella e la vecchia” (la maschera & la morte), tema ricorrente nella tradizione culturale popolare non solo napoletana. All’inizio del testo si dichiara :”puzza, mannaggi’ ’a morte/ stu presebbio/ ncullato cu’‘a sputazza”(puzza, maledetta morte, questo presepe incollato con lo sputo) ed ecco uscire, de profundis dalla percezione del “regista del giorno dopo”, personaggi che ritualmente vengono collocati sul presepe.
- 8. Altra alternanza o ansa: Aldo Masullo, dramatis persona della filosofia e della paticità del vissuto:la forma filosofica. L’atteggiamento mnestico, rimembrante, di rêve, produce molte rêverie tra le quali è stata scelta dal regista quella relativa al pittore Errico Ruotolo, domiciliato nel quartiere di San Giovanni a Teduccio, una delle zone più a rischio dell’area metropolitana. Come le foto sul comò, i quadri di Rizzo e quelli di Ruotolo hanno una funzione di “segnale”. Errico, sul letto di morte, è visto come il “Cristo velato” della Cappella Sansevero, attorniato da statue allegoriche che hanno la precisa funzione di “vedere” la parola sotto il velo. La luna è sempre presente e ora è una palla colorata che saltella manovrata da un bambino invisibile o un “munaciello”. La “palla” che rimbalza nella stanza dell’amico morto è la stessa che verrà lanciata al pubblico.
- 9. Il mondo dei riti e dei miti. Leopardi e Virgilio. L’ “eroe” giunge, seguendo il fiume del nulla o il “più nulla” del fiume, alle tombe (vuote) di Virgilio e Leopardi.”. I due poeti parlano per bocca dell’attore medium e post-veggente. Il Leopardi incontrato qui è quello che fu oggetto di scherno e fu messo in ridicolo dai napoletani, quello de “I nuovi credenti”.
Leopardi guarda verso il basso, le classi dei lavoratori del tempo, le vecchie, gli scugnizzi, le silvie ma -genialmente- lo fa con la forma più classica possibile, l’idillio. Il Virgilio che si incontra nella Crypta del mondo delle idee ha le idee molto chiare. E’ un Virgilio che chiama Leopardi “figlio mio”, è il Virgilio Partheniàs, il balbuziente al quale la Madonna (“Oi ma’”, “Oh, madre”) dà l’incarico di tutorare il figlio, il Verbo, la Parola. Dante incontra Virgilio in limine del viaggio e del cammino. Napoli prigioniera di un cubo è condannata a battere i piedi nelle sue impronte millenarie e lo incontra alla fine del cammino memoriale. Perché? Perché l’inferno ancora deve cominciare ed è il reale, le persone che sudano polvere da sparo. Viene posta qui la domanda delle domande, e viene posta da Virgilio stesso alla Vergine lunare: ”Chi è Napoli?”. Gli viene risposto che la città è un sepolcro senza morto, come quello virgiliano, che custodisce il nulla, morto anch’esso, che è un lamento di prefica che occorre pagare perché non pianga più così come non piange ma dorme, dorme sopra il “Sebeto”, come un personaggio dello Spoon River , la Carolina di “Quanno sponta la luna a Marechiaro”, e dorme perché sa che la Città del sole, la splendida città mitraica, è un compulsivo conato di vomito, che alla Vergine vengono donate catenelle d’oro massiccio, ex voto di croci camorristiche, che il “sebo” è debordato. Carolina dorme per tenere anche lei gli occhi chiusi.
- 10. Terminato il percorso nel “Ventre Inconscio di Napoli”, la “lenta immersione nella città dolente”, viene abbandonata la lingua materna e si riprende quella madre, l’italiano. Si è compiuto il passaggio verso l’autocoscienza. Partenope-Virgilio allatta le ombre di Napoli con giunture spezzate (l’icona della Madonna che allatta i dannati è ricorrente a Napoli). Nel cielo di sotto appare come stella caduta quella “col nome di un eroe” (Federico II). Il corpo, reale, morto del bambino del sogno, il “parve puer” allattato con latte di mandorle amaro, da cianuro, procede in lallazioni di versi che sanguinano, versi col guscio rotto, la cui magia consiste nel guarire gli altri ferendo sé stesso (come, del resto, Cristo, la Parola). Carolina ( la parte femminile dell’autore), l’anima dell’ animus, sembra si stia per svegliare. L’intero universo gravita attratto dal suo sonno e le cose precipitano sul suolo, rimbombano nel “Sebeto” seguendo l’usta del caos. Appunto per questo le cose, la realtà, “Napoli”, appaiono ora come “cose dell’altro mondo” e le macerie e le rovine fisiche e morali della città acquistano lo statuto di “cosa” reale, “rem”, perché “la vita è sogno e la storia è solo sonno”.
L’invito all’azione è che “Napoli” non torni ad essere “Napoli” ma diventi ciò che auspica il suo nome: città nuova.
p.s mentre scrivo queste note apprendo che il depuratore di Cuma , sebezio, “sversa” a mare il liquame “tal quale”. Ho sempre sospettato che i Campi Flegrei, la “Terra del mito”, fossero una mitoballa.
PARERI CRITICI
Ho visto lo spettacolo e l’ho applaudito. Poi ho letto le note di regia e la sequenza scenica di lavoro, Ho così “visto” e capito tante altre cose. Con ancora più convinzione esprimo al gruppo le mie congratulazioni!
Prof. Comunicazione formativa e nuove tecnologie - Univ. Di Napoli
Giuseppe Tortora
Io sono un pittore. Sono pertanto presenza del silenzio, traduco tutto in immagini. “dove scorre il Sebeto“ è un’opera in cui le immagini sovrastano la parola senza tuttavia soffocarne il senso. Infatti, per quanto la messa in scena sembrerebbe far saltare quasi del tutto i vincoli e le norme della razionalità dominante, l’azione teatrale è costruita sul magnifico poema di M. Grasso che fa rivivere un lasso di tempo storico napoletano ricco di tensioni, conflitti e amori. Le tipologie morfologiche degli attori vengono proposte con una gestualità che rasenta l’isteria (nell’accezione bretoniana del termine). Pertanto il significato che ciascuno di noi può avere della realtà in qualche modo viene epurato, trasferito in una sorta di rivitalizzato spirito della fisicità del teatro, dove si tessono i segreti segni dell’esistere. Operazione, questa, difficile, ma che finalmente propone, da una angolazione sensibile, una nuova dimensione teatrale. È come invadere la vita così priva di vita con qualche altro senso per riuscire ad ascoltare la memoria estrema delle cose.
Uno spettacolo, quindi, che poteva materializzarsi grazie a quel grande patafisico che è R. Rizzo.
Mario Persico
Piace e colpisce "Dove scorre il Sebeto"?, la trasposizione teatrale, a cura di Raffaele Rizzo, del poema "Sebeto" in cui Mimmo Grasso celebra il fiume che scorreva sotto Napoli come metafora della città.
Piace lo spunto: un popolo che per colpa o per distrazione perde un fiume è "argomento antropologico prima che idrogeologico", per usare le parole di Rizzo. Che attraverso vari quadri mette l’ "homo napolitano" alla ricerca del fiume perduto, restituendo con il flusso dei versi recitati il ritmo quieto e inesorabile del corso sotterraneo. Colpisce la potenza, spesso aggressiva, dei toni. Nessun compiacimento oleografico a servizio di una denuncia che non fa prigionieri. Riusciti soprattutto alcuni frammenti, su tutti la sequenza del cavallo che stramazza – ricorda la Morte del Femminella de la “Gatta Cenerentola”- e il quadro detto “a' Vecchia e o' Carnevale”, che mettono in risalto l’estro di Ettore Nigro e Chiara Orefice, in scena con Monica Palomby, Lucio Pacifico e Arturo Muselli (prima ed. Alessandro Mele).
critico la Repubblica Napoli
Giovanni Chianelli
Da qualche parte scorre il Sebeto… E’ vero, in qualche luogo dello spazio-tempo della “città dolente” devono esserci ancora i ruderi e le tracce di una originaria e naturale innocenza. Innocenza perduta, con il grave peccato di avere una “storia”, che ha cancellato ogni traccia della natura dalla quale pure è nata, ma che ha dovuto rinnegare per poter sopravvivere.
Queste le prime riflessioni dopo aver assistito a Dove scorre il Sebeto, una straordinaria messa in scena di “teatro di poesia e visività” tratta dal poema Sebeto di Mimmo Grasso.
La “parola-corpo” usata dal regista interpreta bene il rigore dei versi del poeta, che rifugge da ogni napoletanità ruffiana e compiaciuta – tanto cara al “turismo culturale” che affligge e umilia da secoli la città partenopea. Alla lingua napoletana e alla sua espressione corporea è ridata la dignità – antropologica prima che artistica – di quella “parola-corpo”, che supera i limiti dello spazio-tempo contemporaneo e riesce con il particolare del parlato e del gesto della “città dolente” a comunicare l’universale dolore e l’eterno malessere esistenziale che affliggono, e per questo fraternamente uniscono, l’intera umanità.
Dal pensiero e dai versi del grande Giacomo Leopardi alla morte dello sconosciuto musicista Petru Birlandeanu, il viaggio offertoci dal poema visivo di Grasso e Rizzo ci fa comprendere il valore della testimonianza - cosciente o involontaria - di coloro che hanno sperimentato la vita e la morte in questa città e donandola al mondo, per una possibile consapevolezza, individuale e collettiva, della commedia umana alla quale tutti noi partecipiamo per tutti i giorni della nostra esistenza.
sociologo
Vincenzo Villarosa
Nel corpo di Napoli
Pour en finir avec… Sì, occorrerebbe proprio farla finita, come dice il mio amico Iain Chambers, con il continuare a parlare di Napoli, parlandoci addosso, portando avanti un noioso gioco provinciale, che, al solito, si misura, contemporaneamente, coi due registri della grandezza perduta (“una volta Napoli era una capitale”) e della miseria a ogni costo (“Questa è la città più invivibile del Mondo”), registri che confluiscono nell’insopportabile atteggiamento narcisistico di volersi per forza unici. Sì, occorrerebbe proprio farla finita. Ma, come suggerisce Artaud col giudizio di dio, non si può farla finita semplicemente tacendo. Occorre invece proprio parlarne, come stiamo facendo adesso e come hanno fatto Raffaele Rizzo e Mimmo Grasso, il primo riscrivendo per la scena il testo che il secondo aveva già scritto per la sua città, una città fatta di corpi, che si contorcono tra spasmi e grida e canti e sussurri. Occorre, allora, parlarne esilarando una realtà storica, torcendola per farle dire altro da quello che finora abbiamo ascoltato da quel buon senso comune forse troppo accomodante. Affiorerà così una corrente di senso nascosta, inaspettata, che potrà permetterci di riscrivere tutto daccapo, a cominciare dalla storia, la propria, personale, individuale, e quella comune, collettiva, universale.
Dario Giugliano
LA SCENA E LO SPAZIO SCENICO
La scena
L’impianto scenico è molto scarno. Un cubo di lato 2,80.
Sul fondo del cubo, lasciando il passaggio per gli attori, due pannelli dipinti. (I temi dipinti sono ripresi dall’opera - “Manifesto” di Errico Ruotolo - pag. 91 del catalogo della mostra 2007 - “Necessità del presente”). Strutturalmente l’impianto scenotecnico è costituito da 12 tubolari in ferro da 2,80 metri, 4 panche in legno da circa 40 x 40 x 90 cm,
un cubo in legno lato 40 cm. I detti pannelli da cm 112 x 84.
Due vaschette in Plexiglass trasparente da 45 x 45 x 14 e una da 35 x 35 x 14 piene d’acqua.
Il tetto della gabbia è costituito da tre pannelli in plexiglass di colore blu da cm 86 x 265.
La struttura, insieme a due piantane esterne, sostiene gli spot per le luci di scena.
Lo spazio scenico
Gli attori che non sono in scena - nel senso che non sono dentro la gabbia – siedono a destra e a sinistra della struttura - in atteggiamento di attenzione silenziosa. Qui sono in vista e assumono il ruolo di attori che non fanno gli attori. Poi entreranno nella gabbia: uno spazio segnato da tubolari, sotto un cielo di plexiglas. Intanto, buttato lì a terra, in vaschette di plexigas trasparente, “scorre” il Sebeto, “in mezzo ai piedi”, a dividere/unire attori e spettatori. E la scena diventa come un ring sul quale si sviluppa una modalità recitativa a quadri, in interscambiabile ruolo dei personaggi in scena. Le ”situazioni” sono prelevate per la scena come ”da” un sogno. Ogni poeta narra la sua storia e il suo commento. E lo spazio, così come pensato, può regalargli - nell’immaginazione del pubblico - anche un ruolo da cantastorie della città.
Le foto pubblicate sono foto dalle prove, e sono nell'ordine:
- dove scorre il Sebeto
- ’a vecchia ô carnevale
- questi versi mi puzzano
Raffaele Rizzo, patafisico in Napoli, vive e lavora a Napoli. Scrive per il teatro. Più recentemente, nel 2005, vince il concorso nazionale di microdrammaturgia di Porto San Giorgio con “L’ultima automobile”, rappresentata a quel festival. Vince anche la quarta edizione con “Quando le sedie di plastica bianca guardano le superstrade”. È stato presente, negli ultimi quattro anni, alla rassegna Museum teatro Napoli, organizzata da Libera Scena Ensemble, con suoi testi dei quali ha curato anche la regia. A maggio 2008 è invitato con il suo “Leggenda e cunto del libero merlo” al Festival Imaginarius di teatro di strada di S.M. La Feira, Portogallo. Si vanta di essere membro dell’Institutum Pataphysicum Phartenopeium col grado di Coordinatore Severissimo di Patapruriti oratori. Alcuni suoi lavori, in forma di teatro breve, animano serate patafisiche di quell’Institutum. Ha scritto “Le cipolle fanno ridere”: un bel libro di Calembours e manipolazioni linguistiche, molto apprezzato da nullafacenti e fannulloni (escluso forse Piccola Bruna).