L’incredibile storia di una resurrezione
Improvviso fu il risveglio.
Mi trovavo in un buco, una grotta, forse; nel buio, nel sangue, nello sterco.
Senza un ricordo in testa.
Sentivo la pelle, i capelli, financo il cuoio capelluto, stringersi e dilatarsi come intrisi di miele. Il corpo mi doleva muscolo per muscolo,vena per vena.
Non un ricordo nella testa.
Il respiro si diradava: dovevo uscire. Tentai le pareti della grotta con le dita, piano piano piano. Scoprii così che una pietra chiudeva l’imboccatura della tana. Lì la parete si muoveva appena. Se non avessi avuto quelle braccia dolenti, quelle spalle dilaniate, quelle ossa spezzate sarei riuscito a spostarla almeno un po’. Il dolore nel mio corpo era sì lancinante ma veniva percepito più come un ricordo di supplizi che una vera e propria afflizione. Non provavo veramente qualcosa. Era come se le vie dei sensi fossero state interrotte, come se più nessuna sensazione mi attraversasse. Seguendo questo pensiero comandai a me stesso di mentire; di non ascoltare più nulla. Di non enumerare le ferite e così, molto lentamente, spostai il masso ed uscii.
Profumo di campi innaffiati. Di vento e di pioggia.
Non un ricordo in testa.
Neanche il luogo. Nessuno per strada. L’unico ordine che pompava nel cervello insieme al sangue era “fuggire, andar via: presto!”. Indosso un lenzuolo avvoltolato e legato con un grosso nodo e in testa nessun ricordo, mi guardai intorno per una via di fuga. Lontano l’ombra scura di un monte. Mi avviai verso quella oscura sagoma. La montagna, mi ripetevo, per tradizione è il luogo della latitanza.
Camminavo lentamente, i miei piedi erano laceri come stracci. Grossi alberi mi nascondevano alla vista e mi sostenevano amorevolmente. Improvvisi, in uno spiazzo aperto, apparvero tre strumenti di tortura e di morte. Pali infissi nella terra, alla loro sommità altri pali incrociati. Erano lì, solitari, rosi dal tempo e dal sangue. Avrei voluto fuggire ma ero esausto: quei pali a croce avevano risvegliato in me un terrore insensato, provavo tutto il dolore che alitava dal vecchio legno. Desideravo fuggire ma i miei piedi non reggevano lo sforzo: c’erano rovi e pietre e buche che ostacolavano i miei passi. La luna illuminava le piaghe sul mio corpo. Non riuscivo a pensare, a capire, a spiegare tutta quella carne massacrata. Qualunque cosa volesse dire, era certo che non fosse a mio favore. Dovevo allontanarmi da quel luogo, sparire, volar via.
Non fu facile seguire una direzione: mi erano tutte sconosciute. Non ricordavo nulla, il mio cervello era una landa desolata. Non smettevo di camminare, di cadere, di rialzarmi, di guardarmi intorno, sperando di percepire un alito di memoria. Presto, bisognava far presto. Qualunque fossero le mie colpe dovevano essere molto, molto gravi. Di questo ero consapevole.
Ho attraversato campi arati e deserti; viottoli, prati, giardini, colline e valli. Per tre giorni ho camminato con nudi piedi sanguinanti e gambe dolenti, mangiando frutti dagli alberi e radici dalla terra. Vestito di stracci. Di notte nascondendomi dal sole e viaggiando in compagnia della luna.
Il terzo giorno, esausto, ho raggiunto un casale per chiedere acqua e sono crollato a due passi dalla porta.
Dell’acqua in un boccale di legno mi ha irrorato le labbra, svegliatomi l’ho afferrato tra le mani e mi sono abbeverato come un animale assetato, un lungo sorso che mi è parso restasse nella gola per infiniti istanti. I miei occhi non vedevano, le mani tremavano. Qualcuno mi ha sollevato e mi ha portato dentro casa.
Ho sentito l’odore acre di erba e di sterco di cavallo. Un gran dolore alle gambe che venivano trascinate. Ho parole nella testa e so di poterle disporre in buon ordine, ma quando cerco di tirarle fuori per spiegare, chiedere, riesco solo a farfugliare. Le consonanti e persino le vocali si distraggono e cominciano a saltare e a cadere e a ballare. La mia voce non è che un lugubre sussurro. Un gorgoglio da bestia morente. E ho solo un desiderio in testa: parlare, spiegare.. chiedere. Vengo tirato dentro una stanza senza luce, lasciato cadere accanto un grande focolare, come un cane. C’è qualcosa che fuma sopra legna ardente, c’è qualcosa che esala profumi caldi e avvolgenti che mettono in mente memorie di casa, di pane strappato con forti mani paterne, di sorrisi di donne attraverso il nero dei loro abiti.
Percepisco i movimenti; non riesco a prendere coraggio e aprire gli occhi. Non so cosa potrebbe accadere se mi scoprissero vivo. Non vogliono derubarmi: sono nudo. Una mano mi deterge il viso con un panno umido. E’ caldo e mi solleva dal dolore. Mi accarezza la fronte, vede il mio respiro.
Ora sa che il mio cuore batte ancora.
L’aria è mutata, non più il leggero respiro di un tempo mite, non più terreni smossi per seminare raccolti futuri. L’estate è entrata con il suo caldo umido fiato. Ed ora è quasi inverno.
Chi mi raccolse nove mesi or sono mi ha ceduto, forse venduto, ad una vecchia che ha perso il figlio devastato dalla lebbra. Lavoro per lei in cambio di un po’ di sonno e di cibo accanto ai suoi animali. E’ gentile, l’aiuto ad arare, a seminare e a raccogliere quel poco che la terra restituisce. A volte la accompagno a vendere cesti di fichi, di noci e di uva passita.
Taglio fette di pane nero poggiandolo sul petto, lei vi posa accanto del formaggio appena fatto.
Dormo sulle stuoie insieme ad un agnello e ad altri animali. Non so dove ho vissuto, non riesco a darmi un nome e ho accettato quello di suo figlio: Emanuele.
Al mercato incontriamo gente, mi fanno domande alle quali, anche se potessi, non so dar risposte.
Vivo con la perenne sensazione di dover fare qualcosa di importante e il terrore di avere memoria del mio passato. Il tormento di non poter chiedere, di non poter sapere né parlare mi costringe all’isolamento. Anche la consapevolezza di saper scrivere parole e frasi complica di più la mia condizione. Sarei in gran pericolo se qualcuno ne venisse a conoscenza. Tutto ciò mi pietrifica, impedendomi di respirare.
La vecchia ha inventato un linguaggio col quale cerca di comunicare con me. Un segno di carezza lungo la schiena per indicare l’agnello o il cane, i suoi animali insomma, il coltello che taglia il pane, segno che si fa con la mano destra chiusa a pugno dall’ascella sinistra giù verso il fianco destro. Gesti comuni indicano il mangiare, il bere e il dormire. Il mio corpo sta irrobustendo, lentamente, a piccoli passi tutta la sofferenza sta dissolvendosi. Nella testa, a volte vedo immagini scomposte: delle lande coperte di sabbia fine, barche che ondeggiano su acque immense e uomini.
Nelle notti senza luci vedo l’ombra di una donna che viene a guardarmi. Mi sveglio col terrore nel corpo e non trovo nessuno accanto a me. Forse il capretto che ho aiutato a nascere e che si rifugia accanto a me.
Ma il volto di una donna che si strugge è fisso nella mia mente, un pianto come stridio di uccelli spaventati trafigge i miei orecchi.
Oggi è venuto un uomo.
Ha comprato molte cose. La signora era contenta. Si è rivolta a me, ordinandomi di raccogliere ciò che lui voleva. Quando gli ho porto le ceste cariche di noci fresche e fichi zuccherini i suoi occhi si sono posati su di me, mi hanno guardato a lungo. Prima con sguardo incuriosito, poi tremante. Anche la sua voce è incrinata quando mi chiede gentile: “ Uomo, tu chi sei?” .
Cerco di scrutare nel suo animo, cerco di scandagliare nel mio animo per capire il suo cambio di umore. La sua preoccupazione, il suo imbarazzo. Vorrei parlare, chiedere ma le mie corde vocali, le mie labbra riescono a estrarre solo un suono gutturale, un muggito.
La signora spiega, racconta di me ed io scopro un sentimento di angoscia crescere nel cuore e sul viso dello straniero.
Mi rivolge una domanda che ha il suono di un’affermazione “Dunque, buon uomo, non sai nulla di te”. Questa frase sembra rincuorarlo, appena un po’.
E’ un uomo molto elegante, so riconoscere ciò, anche ricco e certamente importante. Un ampio e lussuoso copricapo, abiti di velluto e lana. Imponente. Saluta e il suo servo prende la cesta.
Senza un vero motivo mi sussurra “Conoscevo un uomo col tuo stesso sguardo...ora è morto”.
Un largo moto del corpo, solo un cenno di saluto col capo.
La mia signora lo guarda allontanarsi e mi rivolge una frase che non comprendo: è un’offesa, come se fossi un animale disobbediente.
“E’ un gran signore, sai, potevi essere più servile con lui...che diavolo! Si chiama Giuseppe ed è di un paese di nome Arimatea, non tanto lontano da qui. Ricordalo nel caso tornasse, nel maledetto caso che tu riesca ad imparare a parlare.”
Sì, penso, lo ricorderò. Quell’uomo spaventato, che andava tra di noi, invece di lasciare che il servo si occupasse della spesa. Giuseppe di Arimatea, sì ricorderò il suo nome. I suoi occhi increduli, che avevano creduto di sapere chi ero, che avevano veramente sperato che avessi tutto dimenticato. Sì quel signore in un tempo remoto mi aveva incontrato. E questo lo terrorizzava. Questo terrorizzò anche me.
Quella stessa notte lasciai la casa, sapevo che dovevo sparire, fuggire lontano da ..lui.
Mentre apro l’uscio silenziosamente, per entrare nel buio di una notte di luna nuova, improvviso nella testa scoppia un ricordo e mi sento ripetere “Sì è così, Giuseppe è anche il nome di mio padre” .
Vado via. Alle mie spalle la vecchia casa si allontana.
Sono per sempre perso nel vuoto insondabile di una notte senza luna.
Osare.
Avere il coraggio di andare contro corrente, di andare oltre, di valicare confini, di non fermarsi alla superficie. Non esiste una cultura alta ed una meno alta esiste solo la noia. Un gesto creativo senza vita, asfittico, pavido, furbo, conveniente è merda.
Laura Lambiase Profeta ha scritto di musica per “Laboratorio Musica” e “l’Unità”; ha descritto Napoli sul “Mattino” e sulla guida “dell’Espresso”; si è divertita su “Cosmopolitan”.
E nata a Pontecagnano molti, molti anni or sono e vive a Napoli tra Paradiso e Provvidenza.