“Senza Dimora”
Studio per definire metodi e proposte
di Tina Badaracco
Per indicare le persone senza dimora sono stati utilizzati molti termini quali barbone, vagabondo, homeless, clochard, hobo che, hanno sotteso e veicolato quasi sempre un’ideologia negativa. Ad esempio clocher, in francese, significa “zoppicare”, ma indica anche persona poco intelligente; anche l’etimologia di barbone è negativa provenendo da birbone, cioè delinquente, disonesto; mentre vagabondo si riferisce ad un uomo che non conosce dimora, ozioso, restìo al lavoro e socialmente pericoloso.
I primi ad interessarsi al fenomeno dei senza dimora sono stati E. Florian e G. Cavaglieri, che hanno indicato il vagabondaggio come uno degli esiti della prima rivoluzione industriale. Per loro il problema più grande era rappresentato dal controllo e dalle forme repressive che all’inizio dell’industrializzazione venivano attuate nei confronti delle fasce più deboli della società, in particolare verso i vagabondi considerati pericolosi devianti in quanto rifiutavano uno dei cardini fondamentali della vita economica e socioculturale: l’ethos del lavoro. Ciò che veniva indicato come “rifiuto del lavoro” era, ed è in realtà connesso alle difficoltà di riqualificare le proprie capacità lavorative; come moltissime persone non sono riuscite ad affrontare le problematiche legate alla rivoluzione industriale del secolo scorso, così oggi la professione di molti viene resa obsoleta dalla più recente rivoluzione tecnologica.
Con i mutamenti sociali ed economici degli ultimi trent’anni, alcune definizioni hanno diffuso un significato quasi romantico e ricco di connotazioni ideologiche. Barboni e clochard sono diventati quindi, quelle persone che hanno scelto di vivere per strada perché insofferenti alla società e alle sue regole, e caratterizzate da un ideale mistico di libertà e solitudine. Questo errore, che si trasforma in pregiudizio, ha “riferimenti culturali, concettuali e letterari che si rifanno al clochardismo dei Ponti di Parigi ed agli esempi storici di altre epoche, interpretati abitualmente e ufficialmente come valori supremi dello spirito (anacoreti e poverelli del Medio Evo).(...) Sembra di leggere in questa posizione un ulteriore alibi intellettuale per assolversi ed esonerarsi dalla presa di coscienza diretta, senza risalire alle cause del fenomeno, ma arrestandosi alla superficialità di esso.
E’ importante infine distinguere il concetto di “senza dimora” (homeless) da quello di “senza tetto”. Con senza tetto ci si riferisce alla mancanza di una casa, nel senso materiale del termine. L’essere senza tetto inoltre rimanda ad una molteplicità di situazioni del tutto casuali; ad esempio, dopo un terremoto una popolazione può rimanere per un certo periodo senza tetto (vedi l'Abruzzo), ma nessuno identificherà quelle persone come homeless.
Essere senza dimora non significa tanto essere senza un tetto quanto piuttosto essere privi di tutta la vita che si può svolgere sotto un tetto dove l’uomo può coltivare le relazioni informali e formali, nonché dare forma e senso alla propria identità. Il rapporto Feantsa sulla povertà in Italia, prodotto nel 1993 da A.Tosi e C. Ranci, propone una definizione complessa del fenomeno che suddivide idealmente le persone senza dimora in tre categorie: “le persone prive di qualsiasi sistemazione (no accomodation), quelle in sistemazioni provvisorie nel settore pubblico o in quello del volontariato (temporary accomodation) e coloro che si trovano in sistemazioni abitative marginali fortemente standardizzate (marginal accomodation)”. Fornire una definizione della persona senza dimora è dunque un compito difficile: il rischio è di imbrigliare l’identità e la dignità della persona entro definizioni limitate e nascondere un mondo di miseria che soprattutto oggi si manifesta in tutto il suo degrado. Ciò che è invece importante è focalizzare l’attenzione sui loro bisogni che sono principalmente bisogni materiali (inerenti all’assenza di una dimora, di un’adeguata alimentazione, di un lavoro..) ma anche e soprattutto bisogni post-materialistici (connessi alla dimensione affettivorelazionale, ovvero i legami familiari, i rapporti amicali, ma più in generale i rapporti con la comunità e società). Siamo di fronte dunque, ad “un fenomeno complesso che interessa e colpisce persone in cui la caratteristica comune è, paradossalmente, l’eterogeneità delle problematiche.
Tra l’opinione pubblica è diffusa la convinzione che la strada sia una scelta di vita. Tale stereotipo veicola un’immagine delle persone senza dimora alquanto riduttiva se si pensa alle difficoltà che devono affrontare per soddisfare i loro bisogni più semplici. Nella maggior parte dei casi si tratta di una serie di micro-fratture che, in assenza di adeguate reti di sostegno, conducono in una voragine di fronte alla quale i più soccombono. Alcuni sono stati costretti ad allontanarsi da una situazione di violenza o di emarginazione, cosicché la vita in strada rappresenta, paradossalmente, l’unica soluzione per sfuggire a ulteriori sofferenze e frustrazioni. Inoltre, tra l’umiliazione e l’alienazione dell’istituzionalizzazione, molti sono costretti a “scegliere” la strada, il freddo, i pericoli. Quindi, quello che in un primo momento può sembrare una libera scelta, in realtà appare come il tentativo di evitare qualcosa, e non come il desiderio di raggiungere uno stato sognato. E’ più corretto dunque parlare di costrizione di fronte alla quale i più reagiscono chiudendosi in atteggiamenti di rinuncia e rassegnazione: schiacciati da susseguenti rotture e da continui sradicamenti, privi di speranza e incapaci di progettare una vita diversa, si lasciano scivolare in una situazione di precipitosa involuzione verso il basso e di chiusura a ogni relazione soddisfacente con la realtà. La dimensione di rinuncia e di sradicamento si esaspera in una società in cui si inseriscono elementi di neodarwinismo sociale: le difficoltà di inserimento sociale, culturale ed economico funzionano da elementi di selezione, per cui le persone che non riescono a lottare diventano cittadini incompleti e quindi inutili. Nel tempo, le persone senza dimora, già fragili e indurite da un vissuto carico di sofferenza, costruiscono barriere difensive e per evitare ulteriori e insopportabili traumi, elaborano un nuovo equilibrio, una sorta di “involuzione” verso strategie di adattamento all’ambiente urbano. La vita di strada, dunque non è solo una condizione di emarginazione passiva, ma piuttosto il disperato tentativo di adattarsi ad una nuova dimensione. “..sono persone che, a partire da un’esperienza di particolare sofferenza (percepita come massimo “punto di crisi”), si sbilanciano in modo apparentemente irreversibile dal baricentro della normalità, via via fino a fermarsi alla soglia minima della sopravvivenza, in un orizzonte esistenziale che si appiattisce nel bisogno di ogni momento presente, giorno per giorno, ora per ora. Nei loro racconti emerge spesso la contraddizione di un atteggiamento di disagio per l’attuale condizione di vita e contemporaneamente di chiusura e di resistenza verso situazioni che potrebbero minacciare il loro stato. In altri termini, le persone senza dimora per paura di perdere quel minimo di equilibrio conquistato, “preferiscono” sopportare gli affanni e i problemi di una condizione, che, nella normalità, sarebbe considerata intollerabile. “Dalla narrazione di molte storie di vita di uomini e donne senza dimora, si vede il continuo affiorare, fra narrazione delle difficoltà e delle apprensioni quotidiane, di episodi e amare constatazioni su persone o ambienti in cui sono state vittime di maltrattamenti, di emarginazione o di incomprensioni, cosicchè il vissuto quotidiano in cui sono precipitati, sia pur precario e fonte di pericoli, rappresenta quasi un rifugio da ulteriori frustrazioni e sofferenze.
F. Bonadonna (Bonadonna,2001:54) parla di una “sotto-cultura della resistenza”, per cui le persone che la mettono in atto finiscono via via per elaborare diversamente le informazioni provenienti dall’esterno e dal proprio corpo, perdendo a poco a poco ogni sembianza umana. Durante questo processo di adattamento si compie una “metamorfosi” delle abitudini sociali e culturali, del corpo e della psiche. Tale mutazione si compie a livello culturale attraverso la violazione dei valori e delle regole, etiche ed economiche che caratterizzano la nostra società. Nel nostro ambiente urbano l’abitare un luogo privato, e il lavorare sono connotati fondamentali di regolarità e di identità, come sottolineato dall’art. 4 della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro”. Le persone che non osservano questa norma fondamentale della cultura italiana diventano privi di utilità e quindi, devianti. Ma la devianza non è riscontrabile tanto nella disoccupazione, quanto nell’impossibilità di trovare o mantenere un lavoro in mancanza di una dimora. E’ un circolo vizioso: avere una stabilità lavorativa è indispensabile per il mantenimento di una casa, e al contrario non averla rende pressoché impossibile trovare o conservare un’occupazione. Anche il non-abitare diviene quindi una forma di devianza poiché la casa rappresenta un fondamentale elemento di identità e di integrazione sociale. Abitare deriva etimologicamente dal latino habitare, frequentativo di habere, cioè trovarsi, stare. Ma habitus indica anche abitudine, ovvero disposizione, condizione. Quindi, se diciamo che l’abitare comporta anche l’abitudine ad agire in un determinato modo, possiamo dire che il non-abitare determina l’assunzione di comportamenti altri. La città ruba a chi vive sulla strada la dignità di essere persona, rendendo invisibile il suo corpo che viene schiacciato dall’indifferenza dell’ambiente urbano e dalla spersonalizzazione dei servizi sociali. Vivere sulla strada non permette la cura del proprio corpo, l’attenzione quotidiana alla propria igiene: cambiarsi d’abito, lavarsi, radersi diventano un grosso problema per chi non ha una dimora stabile. A volte, lo sporco rappresenta un muro di protezione, ovvero un tentativo di accentuare la distanza tra sé e gli altri. Ognuno delimita il proprio territorio con i mezzi che ha. Così, come i cani che delimitano il loro territorio, anche le persone senza dimora, con il loro odore, pongono delle distanze. Essere puliti significa perdere le proprie barriere. L’impossibilità o la difficoltà di occuparsi normalmente del proprio corpo viene vissuta dai più con angoscia e come un’ulteriore sconfitta. Alcuni cercano disperatamente di mantenere un aspetto decoroso e dignitoso, recandosi nei pochi servizi doccia gratuiti e nei centri di distribuzione dei vestiti. Altri, di fronte a queste e altre difficoltà, soccombono e si lasciano scivolare lentamente verso l’abisso del non-ritorno, della rassegnazione e della perdita di un equilibrio emotivo e psichico, a volte già gravemente minato. Immersi così in una condizione da cui non riescono ad emergere, schiacciati dalla percezione di repulsione e d’indifferenza altrui, incapaci di capire e di capirsi, alcune persone finiscono per credere che l’isolamento sia la soluzione migliore. Secondo questa prospettiva tale condizione viene a configurarsi non come unica situazione traumatica ma come il punto estremo di un lungo percorso biografico.
Tina Badaracco: presidente del gruppo B&C NETWORK, Vicepresidente dell’area Comunicazione & Marketing di Confindustria Servizi Innovativi e Tecnologici
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