Numero 26

APPUNTI SU TALUNI ASPETTI DELLA POLITICA ECONOMICA ITALIANA
(Prima parte)

 


Vincenzo Porcasi



Come ricordato ampiamente da antichi e fondamentali maestri come Francesco Parrillo, Alfonso Rinaldi, e Nazzareno Ferri, l´unificazione italiana non fu scevra dall´apportare profondi cambiamenti alle strutture, vuoi di tenuta della contabilità nazionale dei singoli stati preunitari vuoi negli indirizzi di politica economica che il nuovo stato si vedeva imposti dalla necessità di fronteggiare l´enorme debito pubblico che aveva emesso per raggiungere l´unificazione.

L´elenco dei problemi, peraltro, vide aggiungersi nuove questioni: quali quelle del finanziamento delle attività scolastiche, quanto meno primarie (recupero dell´analfabetismo) alla formazione di una struttura militare unitaria, fondata sul principio della leva obbligatoria, alla unificazione degli istituti di emissione e della relativa attività bancaria, e, inter alia.

A fronte di tali temi, nella società civile intanto la crescente industrializzazione, l´elettrificazione urbana e delle campagne, l´apertura di nuove vie di comunicazione, nonché la realizzazione delle ferrovie nazionali, se da una parte trasformava il contadino in ceto operaio urbano, dall´altra provocava anche l´insorgere del conflitto sociale nel paese.

Dal momento che la condizione umana della nuova classe operaia era quantomeno tragica, mentre nel sud e nelle isole erano venute meno le capacità tutorie di assistenza dei regni locali e della chiesa, mentre rimaneva in piedi un neo feudalesimo competitivo, essendo la proprietà del fattore terra (dominante) passato dal primo stato al terzo stato.

In tali condizioni, la nascente grande industria italiana, spesso legata a fattori di carattere politico, come il caso che la Banca Romana andò a dimostrare, da una parte esasperò il conflitto sociale, determinando fra l´altro l´uso degli scioperi e delle serrate, la nascita del Movimento Socialista prima e poi del Partito Comunista e poi lo sviluppo delle attività mutualistiche poi evolute nel mondo della cooperazione, e dall´altra parte favorì un ininterrotto flusso emigratorio verso l´intero continente americano e in minore misura verso l´Africa e il resto d´Europa.

A sopperire ai bisogni dei ceti più poveri provvidero da una parte la Chiesa Cattolica e dall´altra il movimentismo che alla stregua di altri movimenti francesi, tedeschi, austriaci, olandesi e inglesi diede vita, come detto alle prime forme di società mutualistiche, che poi organizzate, ebbero felice conclusione soprattutto nel nord e nel centro Italia nel mondo della cooperazione, attraverso la nascita delle società cooperative, del mondo del lavoro e di quelle di consumo (micro - credito ante litteram).

Il fenomeno, non solo ebbe fortuna sul piano della produzione artigianale e industriale, ma anche nel campo della produzione agricola e della relativa trasformazione dei prodotti ottenuti (freschi, secchi, freddi, e trasformati), nonché in quello delle costruzioni civili, in particolare contribuendo a risolvere la questione abitativa nei grandi centri urbani.

In ogni caso, allora come oggi, rimaneva e rimane il problema della socializzazione, cioè delle relazioni fra i diversi soggetti ormai urbanizzati. Le grandi città affollate dalle forze lavoro venute dalla campagna, prive di adeguate strutture per l´accoglienza, non disponevano di alcuna area preposta al dialogo; di concerto con l´industria e la nobiltà torinese fu un prete, divenuto poi santo, che fondando l´ordine salesiano gettò le basi per riaprire una possibilità di socializzazione interclassista attraverso, per esempio, l´apertura di centri di formazione professionale e di oratori nei quali soggetti diversi potessero avviare il dialogo sociale e quando del caso quello intereligioso.

In tal senso nasce quindi nell´area movimentista un umanesimo devoto e ottimista, che verrà denominato "Umanesimo della Speranza". L´umanesimo che la Rivoluzione Francese aveva diffuso era di tipo naturalistico, la revisione operata dal fabianesimo, da certe componenti socialiste, nonché dall´area salesiana, porta a quello spirituale, aperto, ottimista con una impostazione ampliata e letificante della esistenza umana (sarà "Umanesimo Integrale" conJacques Maritain o "Umanesimo Plenario" con Paolo VI).

L´umanesimo reca implicito al suo interno un diritto all´eguaglianza delle possibilità e un diritto alla felicità di cui nell´Europa continentale si era poco parlato, caduto l´impero romano mentre molto di ciò si era parlato nel mondo arabo islamico. Come cennava Don Rodolfo Fierro Torres nel secolo passato (1911), l´operaio ha i suoi diritti, diritti sacri, ha la sua dignità e bisogna che in ogni parte del mondo gli uni e gli altri gli siano riconosciuti.

 

IL GIOLITTISMO
La politica governativa nel nostro paese dal ritiro di Zanardelli, 1903, fino al 1914 è quasi sempre diretta o controllata da Giovanni Giolitti (1842- 1928). E´a capo del governo con tre successivi ministeri: 1903/1905, 1906/1909, 1911/1914, interrotti dalle brevi parentesi di Fortis, Sonnino, Luzzati. La sua personalità e la sua politica informano di sé il paese così ché il primo quindicennio del XX secolo passa alla storia col nome di "età giolittiana".

Le grandi maggioranze giolittiane uscite dalle elezioni nel 1904 e del 1909 sono composte di conservatori, liberali e radicali. Con i governi Giolitti è notevole l´opera politica amministrativa a incremento delle condizioni di crescita nazionale in senso lato, come appare dall´aumento di alcuni bilanci, come quello dell´istruzione che passa fra il 1900 e 1907 da 49 milioni di lire a 85 milioni, dei lavori pubblici da 79 milioni di lire a 117 milioni di lire.

Dell´agricoltura da 13 milioni di lire a 27 milioni di lire. Nel 1906 lo Stato assume l´esercizio diretto delle ferrovie, che vengono accresciute e nel 1910 delle scuole elementari. Si ha poi un complesso di leggi speciali in favore del mezzogiorno e anche dell´Italia centrale ormai ritenute regioni in degrado.

La legislazione sociale riguarda i campi più svariati: la sanità pubblica, le opere pie, le case economiche popolari, le società cooperative agricole che diverranno un modello universale anche oggi pienamente utilizzato per avviare un processo di sviluppo concreto, di villaggio e di periferia urbana, nei paesi ad economia in trasformazione o ancora in ritardo di sviluppo; gli infortuni sul lavoro e la cassa di invalidità e vecchiaia, il lavoro delle donne e dei fanciulli, gli uffici del lavoro, il riposo festivo.

Giolitti attua, pur con empirismo accorto e flessibile una politica puntualmente liberale, favorendo una contrapposizione di destra e sinistra monarchica e mirando ad attrarre il socialismo riformista nell´orbita costituzionale e governativa.

Accoglie "i cattolici deputati" (non i deputati cattolici) e l´accesso quasi generale dei cattolici alle urne, accettando Roma italiana, ma non promuove una formazione organica di partiti, attirandosi le critiche di aver favorito la svalutazione in parlamento e l´autoritarismo personale.

Giolitti affronta nettamente la questione economico sociale e quella politico governativa ed è convinto della necessità di garantire la libertà delle organizzazioni del lavoro mediante il non più insidiato esercizio del diritto di sciopero.

Ma il proposito di mantenere le forze dello Stato estranee ai conflitti del lavoro - che fino ad allora hanno appoggiato i ceti padronali - non può evitare una serie di scioperi che giunge a interessare più di 600.000 lavoratori.

Il fenomeno nuovo per l´Italia ma non per gli altri paesi europei, è il trapasso dei grandi scioperi dall´industria all´agricoltura, dalle città alle campagne, se i socialisti guidano il movimento, Giolitti dà la colpa alla borghesia che niente ha fatto per prevenirlo e afferma: " che tanto più grave diviene la colpa se questo movimento di elevazione economica viene combattuto da borghesia e governo insieme".

Nel movimento socialista c´è in realtà qualcosa di più profondo che semplici rivendicazioni economiche: l´avvento del IV Stato all´autogoverno e al potere. Giolitti desidera attrarre la componente socialista del movimento nell´orbita costituzionale, lavora per il trapasso dall´oligarchia alla democrazia. Il fatto che la maggioranza dei conflitti si verifichi nel mezzogiorno è in stretta connessione con l´arretratezza della vita politico sociale del mezzogiorno stesso.

La serie di leggi emanate non ripiana la dislocazione dualistica fra nord e sud e si genera nella coscienza della gente del sud uno stato d´animo di risentimento verso il nord e verso il governo. Si ritiene che la parte più ricca e più progredita d´Italia si avvantaggi sull´altra attraverso la politica economica del governo, per quanto attiene il protezionismo agrario, il regime doganale, la distribuzione dei lavori pubblici, un minore carico tributario, il regime delle concessioni.

Giolitti è portato a risolvere il "problema del mezzogiorno" inserendolo in quelli più generali di un´amministrazione via via perfezionantesi e di un progresso generale del paese, che tra l´altro è promosso dall´opera governativa, ma affidato pur sempre essenzialmente alle forze naturali dello stesso.

Le accuse fatte dai meridionalisti alla politica economica governativa si associavano quelle relative alla condotta politica. "Il governo ècomplice dello sfruttamento eccessivo del mezzogiorno e ne è responsabile diretto delle condizioni politiche arretrate e anormali.

Si giova delle condizioni semifeudali della società con l´abuso del potere pubblico, creando una maggioranza la cui fedeltà è assicurata con i favori spiccioli governativi". Gaetano Salvemini nel 1910 lancia contro Giolitti un opuscolo intitolato al "Ministro della malavita", e ai suoi "ascari".

Il metodo di governo di Giolitti consiste in un gioco abile che lo porta ora verso l´una tendenza ora verso l´altra. Questo gioco favorisce l´accusa di "empirismo" (in quanto esprime una condotta che appare priva di una norma ideale, costante e sicura, piena di contraddizioni e per niente sistematica o coerente).

Tale accusa gli viene rivolta sia dall´uomo che continua gli ideali della vecchia destra risorgimentale, come il direttore del Corriere della Sera, Albertini, sia da un socialista come Turati. Ma proprio quest´empirismo che egli celebra come "arte somma di governo", lo conduce nel l911 a decisioni molto gravi. La promessa del suffragio universale (promessa che aveva fatto cadere il governo Luzzati che pensava solo di allargare il voto e non estenderlo a tutti) lo mette in difficoltà con le destre, che temono dal suffragio universale la vittoria dei partiti dell´estrema sinistra, e in particolare del partito socialista.

Per distrarre l´attenzione, Giolitti dà inizio all´impresa di Libia. Anche se nega che vi sia stato un rapporto tra il suffragio universale e la spedizione nel 1911, la legge passa in parlamento senza incontrare alcuna opposizione. Per essa il diritto elettorale viene attribuito oltre che ai soggetti muniti dei titoli di cui alla legge del 1882, anche a quanti hanno adempiuti gli obblighi del servizio militare o hanno raggiunto i 30 anni di età. Gli elettori salgono da 3 milioni e mezzo a 8 milioni.

Con la Guerra di Libia, assai popolare, che Giolitti celebra come una sua grande conquista, proclamando la sconfitta della mancanza di "Alti orizzonti" dei precedenti governi democratici, si rafforza il nazionalismo. L´avvenimento che ne segna la nascita come partito politico è l´occupazione nel 1908 della Bosnia e dell´Herzegovina da parte dell´Austria.