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Salvatore Piredda |
Salvatore Piredda, già p roprietario di un celebre bar-caffè, punto di ritrovo del jetset di Cagliari, qualche anno fa ha deciso di trasferirsi in Spagna realizzando a Marbella la prima fabbrica italiana di limoncello. Dopo alcuni anni di impegno e di tenacia è riuscito ad affermare il suo prodotto, ma qualche tempo fa ha ricevuto la lettera di un avvocato, che gli ingiunge di togliere dalle sue bottiglie la tipica denominazione italiana, asserendo che il nome limoncello è stato registrato dal suo cliente spagnolo. Ma il paradosso non finisce qui, e sarebbe quasi comico se non si trattasse di una vistosa anomalia che lede i nostri diritti, danneggia la nostra economia e contravviene a quanto previsto dalle leggi comunitarie in materia di marchi. Piredda ce ne spiega i dettagli, confidando in un doveroso intervento delle autorità italiane.
- Quanto ha cominciato la Sua attività di produzione e vendita del limoncello?
Sette anni fa cominciammo ad immetterlo nel mercato spagnolo, cosa che altri imprenditori italiani avevano fatto per il mercato tedesco, inglese e un pò meno per quello francese. Dapprima lo importavamo in bottiglia dall'Italia poi, per ridurre i costi del trasporto, decidemmo di importare solo la infusione di buccia fresca di limone, alla quale aggiungemmo alcool, zucchero ed acqua, poi attraverso apposite macchine ed attrezzature che miscelano, imbottigliano ed etichettano, cominciammo a produrre il limoncello direttamente in Spagna. Da allora l’oggetto principale della nostra impresa consiste nella trasformazione – a livello artigianale, in quanto realizzata con un numero limitato di dipendenti - di un prodotto base in un prodotto finito.
- Quanto lavoro è stato necessario per affermare questo famoso prodotto italiano?
Moltissimo. Comunque nell’iniziare questa attività ci siamo ispirati alla esperienza di altri italiani nostri amici che già lo avevano fatto nella Germania del Sud, dove c’è una infinità di ristoranti italiani ed una comunità italiana veramente imponente. Pertanto è stato abbastanza facile presentare e far accettare questo conosciuto prodotto nazionale da parte dei nostri connazionali all’estero. Il discorso qui in Spagna è stato più duro e impegnativo, perchè la presenza italiana è notevolmente inferiore e di conseguenza vendere solo ai ristoranti italiani non sarebbe stato sufficiente dal punto di vista commerciale e imprenditoriale. Pertanto la nostra sfida fu quella di utilizzare questi canali italiani, non solo come destinatari del nostro prodotto, ma anche per espanderci su quelli spagnoli e far conoscere il limoncello a tutta la Spagna. Mi chiedi se è stato difficile. Ovviamente le difficoltà non sono mancate. Ma in effetti più che difficile è stato laborioso, ma alla fine ce l’abbiamo fatta e siamo riusciti a raggiungere livelli che sembravano impensabili.
- Voi avete aperto la strada, e la concorrenza?
Come c’era da aspettarsi è arrivata. A questo proposito debbo lamentare una certa concorrenza sleale da parte di imprese italiane, fra le quali - non ho alcuna difficoltà a farne il nome perchè è cosa risaputa - la MAR di Rimini, del Gruppo Cremonini, una multinazionale contro cui è difficile lottare.
- In che senso ritiene che sia sleale?
Nel senso che loro importano direttamente dall’Italia non solo il limoncello, ma tutti gli altri prodotti della loro linea, come ad esempio amari, fernet e sambuca, comprandoli direttamente dalle fabbriche con il bollino italiano e - non applicandogli la prevista imposta spagnola di fabbricazione - le rivendono in Spagna a prezzi bassissimi.
- Ma, concorrenza sleale a parte, questo non è illegale?
Certamente che lo è, tanto è vero che hanno avuto diverse denuncie e subìto altrettante verifiche e controlli da parte di ispettori doganali, però per loro pagare cento milioni di multa è come per me pagare centomila lire. E questo francamente non mi pare giusto.
- Ritorniamo al limoncello?
Il limoncello è forse il prodotto più significativo in questa guerra concorrenziale, poichè sul mercato c’è una vera invasione di liquori che pretendono di chiamarsi limoncello senza averne le caratteristiche. Infatti il limoncello è fatto solo di bucce fresche di limone come il nostro e come tanti altri.
- Oltre alla concorrenza sleale fra compatrioti, mi accennavA ad un fatto veramente sconcertante che vede protagonista un produttore spagnolo. Che è successo?
Nel 1996 uno spagnolo, probabilmente dalla vista lunga,ha registrato in Spagna un suo liquore chiamandolo “limonchelo”,che in spagnolo si pronuncia “limoncelo”, ma che noi italiani lo potremmo leggere “limonkelo”. La parola, pur essendo diversa come ortografia, ha una una certa assonanza fonetica col termine vero del fanoso liquore italiano.Insomma dal punto di vista lessicale è un’altra cosa. Sta di fatto che questa registrazione vieta la entrata e ovviamente la commercializzazione in Spagna, a qualsiasi prodotto similare con la scritta limoncello, adducendo il fatto di essere l’unico ad avere registrato questo nome.
- Ma la legge che dice?
La legislazione comunitaria europea, in materia di marchi, non consente la registrazione di un marchio costituito dal nome di un prodotto “tipico o tradizionale” di uno Stato Membro, anche se, come in questo caso, con l’espediente una leggera modifica ortografica che non ne cambia il riferimento. Basta aprire un vocabolario o una enclopedia alla voce limoncello, per leggere “prodoto tipico italiano. Prodotto tipico, insomma, e quindi non registrabile per legge. Sarebbe come se uno pretendesse di registrare un nome come “whisky”, o “amaretto”, due nomi tipici che appartengono a tutti. O come se facessimo un distillato di uva chiamandolo “cognac”, che come tutti sanno è un prodotti tipico dell’omonima regione francese. Io credo che nessun ufficio per il registro dei marchi si sognerebbe di accettare una cosa simile. Così come la “grappa”, che è una parola tipica italiana e nessun altro se ne può appropriare. A stessa cosa vale per il famoso “orujo” spagnolo, un distillato tipico della Galizia, che corrisponde alla loro grappa, o per il “calvados” francese, il liquore di mele preferito dal commissario Maigret, e così via. Sarebbe come se in Italia andassi a registrare “pacharan” che è un liquore tipico spagnolo, approfittando che questo nome non è noto all’ufficio dei marchi, e quelli me lo registrano. Dopo di che potrei impedire agli spagnoli di usare quello che è un loro legittimo nome. Ecco, questo è il paradosso avvenuto per il “limonchelo”.
- Ma in che modo una registrazione storpiata come “limonchelo” può impedire di usare il nome italiano “limoncello”?
L’equivoco nasce dal fatto che foneticamente i due nomi si assomigliano, insomma suonano uguali, hanno una pronuncia quasi identica, inducono in confusione, sembrano la stessa cosa anche se non lo sono. Di conseguenza l’ufficio del registro spagnolo, che evidentemente non sapeva nemmeno cosa fosse il limoncello, attribuisce al primo che lo ha registrato l’autorità di disporre del suo nome. Sono certo che sia stato un errore. Non è giusto ma è così. E adesso questo astuto spagnolo ha messo in moto uno studio legale per diffidare tutti, me compreso, dall’usare il nome limoncello sulle proprie etichette. Ma quello che mi meraviglia è che nessuna delle istituzioni italiane ha fatto o sta facendo qualcosa per tutelare i nostri diritti.
- Quali istituzioni? Ci faccia un esempio.
Per esempio il Ministero delle Politiche Agricole, che ogni giorno sbandiera in televisione quello che fa, ma poi permette che avvengano queste vistose ingiustizie a nostro danno. Per tutelare il diritto dei cittadini ci vogliono delle prese di posizione decise, responsabili, autorevoli, competenti, come quando i tedeschi pretendevano di liberalizzare il nome “parmigiano”, e Berlusconi - allora capo del Governo – ingaggiò una vera battaglia per tutelarne l’origine italiana. E la vinse, perchè era giusto che la vincesse. Oggi il parmigiano non ce lo tocca nessuno e tutte le imitazioni sono dichiaratamente fuori legge, perchè è una denominazione di origine, non un nome generico come è il limoncello. Così come nessuno potrebbe registrare la parola “formaggio”, perchè tutti la possono usare aggiungendovi il tipo e il nome del fabbricante.
- Cosa si può fare per porre rimedio a questa ingiustizia?
Da solo farei una battaglia contro i mulini a vento, spendendo un sacco di soldi senza sapere come andrà a finire. Praticamente dovrei fare un ricorso ad un dipartimento del Ministero del Turismo e Commercio spagnolo, chiamato “Oficina española de patentes y marcas”. Per funzionare correttamente questo uficio dovrebbe avere un elenco delle denominazioni tipiche europee, oppure chiedere un benestare a livello europeo prima di accettare una registrazione sospetta o sconosciuta. Insomma dovrebbe essere in grado di sapere a livello comunitario cosa può o non può registrare. Con tutti i moderni mezzi di comunicazione che abbiamo, oggi non dovrebbe essere difficile. È come quando una banca chiede ad un’altra se un assegno è coperto. In caso di anomalie, il nostro Ministero delle Politiche Agricole, non solo può, ma deve intervenire e tutelare i nostri diritti. Francamente non capisco come mai fino ad oggi ancora nessuno sia intervenuto.
- Insomma questo spagnolo la fa da padrone senza che nessuno osi fermarlo?
Proprio così. Anzi le dirò di più. Non contento di essersi appropriato del nome limoncello - grazie a quella che voglio sperare si tratti solo di una svista dell’ufficio spagnolo dei marchi - ha scatenato addirittura una guerra a livello europeo contro una industria italiana che aveva registrato un prodotto come “liquore tipico della costiera amalfitana limoncello”. E hanno vinto gli spagnoli. Gli hanno bloccato la vendita in tutta l'Europa. È semplicemente vergognoso.
- Lei cosa pensa di fare?
Io cerco di resistere, di difendere i miei diritti e i risultati che mi sono sudato dopo tanti anni di lavoro. Ma in assenza di interventi istituzionali sono fuori legge e potenzialmente vulnerabile. So di vivere una profonda ingiustizia perchè il limoncello è italiano da sempre. Appropriarsi del suo nome è stata una profonda ingiustizia, oltre che un atto di illegalità al quale le istituzioni italiane debbono porre rimedio. Come? Facendo opposizione alla “Oficina española de patentes y marcas”, e chiedendo di annullare questa registrazione perchè non è legale. Non sono il solo italiano a dover subire questa prepotenza. Spero che il nostro Governo si muova subito e con determinazione, se non si vuole che la sfiducia degli italiani trovi in questo disinteresse un ulteriore motivo di incoraggiamento e di giustificazione.
INCHIESTA
La contraffazione delle denominazioni tipiche agroalimentari
Il caso del Limoncello della Costiera amalfitana.
- La vicenda giudiziaria che si è conclusa recentemente con la sentenza del Tribunale di primo grado della Comunità Europea del 15/6/05 (T 7/04), riguardo alla registrazione del marchio commerciale del “Limoncello della costiera amalfitana” ai sensi del Reg. del Consiglio 40/94, è molto indicativa dell’effettivo livello di tutela offerto dall’ordinamento comunitario alle denominazioni di origine dei prodotti agroalimentare.
La questione è sorta a seguito della richiesta della ditta italiana Shaker di L. Laudato , di registrare il marchio complesso “limoncello della costiera amalfitana” secondo la procedura di registrazione del marchio europeo, quindi per l’intero territorio dell’Unione europea, secondo quanto previsto dal Reg. 40/94, sebbene la ditta spagnola Liminana y Botella SL” avesse già registrato nel 1996, presso l’ufficio marchi e brevetti spagnolo, il marchio “Limonchelo”. La ditta italiana nell’ottobre 1999 presentava la domanda di registrazione di marchio comunitario all’Ufficio per l’Armonizzazione del Mercato Interno (UAMI), per la registrazione del marchio complesso (vale a dire grafico e fonetico) “Limoncello della costiera amalfitana”, scritta che sormonta un grande tondo bianco circondato da limoni gialli inseriti in una fascia scura a sua volta circondata da un fascia turchese e bianca, con in basso la scritta “sheker”. Nei termini previsti dal Reg. 40/94, la ditta spagnola ha presentato opposizione alla registrazione, sostenendo che il marchio della ditta italiana avrebbe creato confusione presso i consumatori spagnoli con il proprio marchio verbale “Limonchelo” già registrato nel 1996 per la medesima classe di prodotti. La UAMI accolse l’opposizione della ditta spagnola e respinse quindi la richiesta di registrazione del marchio della ditta italiana. Quest’ultima presentò ricorso alla commissione d’appello della medesima UAMI, la quale tuttavia respinse il reclamo, confermando la prima decisione, in quanto ad avviso della commissione l’elemento dominante del marchio richiesto era il termine “limoncello” che, pertanto, avrebbe potuto ingenerare confusione con marchio “limonchelo” in precedenza registrato.
La ditta italiana ha impugnato il provvedimento della UAMI innanzi al Tribunale di primo grado delle Comunità Europee a Lussemburgo, chiedendo il riconoscimento del diritto a registrare il proprio marchio. Il Tribunale, dopo ampia disamina dei profili strettamente attinenti alle caratteristiche visive e fonetiche dei due marchi, è giunto alla conclusione che il marchio “Limoncello della costiera amalfitana” potesse essere registrato in quanto per le caratteristiche visive di detto marchio, non vi era il rischio di confusione tra i due marchi, in quanto in quello della ditta italiana l’elemento figurativo rappresentato dal cesto dei limoni gialli era assolutamente prevalente su quello verbale (limoncello), così che non era ipotizzabile una confusione con un marchio solamente verbale (lo spagnolo Limonchelo).
- Così impostando il ragionamento argomentativo, la Corte lussemburghese evita di affrontare alcune questioni di grande rilevanza di diritto comunitario, che pure, data l’autorevolezza della sede, avrebbero necessitato di adeguate puntualizzazioni, tenuto conto della rilevanza dei principi di diritto comunitario in gioco. limitandosi invece a decidere il caso solo in punto di fatto, con una argomentazione giuridica (neppure troppo raffinata) propria di un giudice ordinario di merito. Il Tribunale di Lussemburgo ha deciso il caso della richiesta di registrazione del marchio “limoncello della costiera amalfitana” presentata dalla ditta italiana, sulla base della comparazione dei due marchi, l’uno (quello spagnolo) solamente verbale (Limonchelo), mentre l’altro (quello italiano) complesso, vale a dire che è composta di elementi verbali e figurativi. Il Giudice comunitario, ha ritenuto dominate nell’ambito della valutazione complessiva del marchio l’elemento grafico, e sulla base di tale considerazione ha accolto la domanda della ditta italiana, non configurandosi profili di confondibilità tra i due marchi, i quali possono, pertanto, secondo il Tribunale, essere entrambi legittimamente registrati e (evidentemente) tutelati. La sentenza è coerente con la giurisprudenza del tribunale di prima istanza in materia di confondibilità dei marchi in generale e dei criteri di comparazione visiva, ma i Giudici non si sono resi conto della conclusione paradossale a cui, nel caso di specie, sono pervenuti: un marchio, che rappresenta una evidente contraffazione fonetica della denominazione di un prodotto tipico e tradizionale, noto e conosciuto in ambito europeo, per la stessa ammissione dell’UAMI e del Tribunale, riceve la stessa tutela giuridica del marchio che riproduce la denominazione tradizionale corretta. Tutela che - è bene sottolineare il profilo – viene riconosciuta solamente perché trattasi di marchio complesso, in cui la rappresentazione grafica è forte e dominante nell’ambito dell’intero marchio complesso “limoncello della costiera amalfitana”.
- Il Tribunale comunitario, nella sua evidente volontà di liquidare la complessa questione, nella maniera più asettica possibile, neppure esamina il punto se i due termini “Limonchelo” e “limoncello” sono tra loro confondibili, e quindi lascia nel dubbio le ditte italiane che producono tale noto liquore, non potendo escludersi, nella logica della sentenza, che la ditta Spagnola possa loro inibire la commercializzazione del prodotto almeno per l’intero territorio spagnolo. In verità, la sentenza è assolutamente insoddisfacente per quanto attiene all’esame della questione centrale della controversia, vale a dire sulla legittimità della registrazione di un marchio che riproduce la denominazione di un prodotto tipico tradizionale di uno stato membro, seppure non tutelato come prodotto a Denominazione d’Origine Protetta o come Indicazione Geografica Protetta ai sensi del Reg. 2081/92, ovvero privo dell’attestazione di specificità di cui al Reg. 2082/92. Sia il dato normativo, sia la giurisprudenza comunitaria, avrebbero dovuto indurre il Tribunal e di primo grado di Lussemburgo ad esaminare preliminarmente la questione della validità giuridica della istrione del marchio “limonchelo” da parte dell’Ufficio marchi e brevetti spagnolo nel 1996. Per quanto attiene alla legislazione comunitaria in materia di marchi, non sembra che essa consente la registrazione di un marchio costituito dal nome di un prodotto, seppure con una marginale modifica fonetica, tipico e tradizionale di uno Stato membro.
L’art. 7 del regolamento 40/94 afferma che sono esclusi dalla registrazione (lett. c): “ i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che in commercio possono servire, per designare la specie, la qualità, la quantità, la destinazione, il valore, la provenienza geografica, ovvero l'epoca di fabbricazione del prodotto o di prestazione del servizio, o altre caratteristiche del prodotto o servizio”; e lett. d): “i marchi composti esclusivamente da segni o indicazioni che siano divenuti di uso comune nel linguaggio corrente o nelle consuetudini leali e costanti del commercio;”. La formulazione della norma, se pur non esclude espressamente la registrazione come marchio commerciale del nome di un prodotto tipico e tradizionale di un paese membro, tuttavia per certo non lo consente, perché è evidente che proprio in quanto nome tipico e tradizionale esso designa la “specie” di un prodotto (limoncello, al pari di brandy, pizza, mozzarella ecc.) e nel contempo è una indicazione divenuta “comune nel linguaggio corrente e nelle consuetudini leali e costanti del commercio”. Perché dunque sia la divisione di opposizione della UAMI sia il tribunale di primo grado, nel decidere, ai vari livelli, la controversia, non hanno valutato preliminarmente la validità giuridica dell’iscrizione del marchio “Limonchelo” ai sensi del cit. art. 7 del Reg. 40/94? Domanda a cui non si riesce a dare una risposta giuridicamente plausibile, anche in relazione ai rilievi che la stessa UAMI ebbe a sollevare, con lettera 23 novembre 1999, alla ditta italiana allorché questa richiese l’iscrizione del marchio “Limoncello della costiera amalfitana” anche per i prodotti della classe 29 (carne, pesce, pollame e selvaggina, estratti carne frutta ecc.) e della classe 32 (birre, acque minerali e gassose ed altre bevande analcoliche).
Infatti la UAMI richiese di ritirare la domanda di registrazione per prodotti appartenenti alle bevande non alcoliche della classe 32, poiché, a suo parere, “se l’indicazione “limoncello della costiera amalfitana” fosse utilizzata per contraddistinguere sia prodotti di questa classe di prodotti sia prodotti della classe 33 (bevande alcoliche), essa potrebbe indurre in errore il consumatore facendogli credere che la bottiglia così denominata contiene il ben noto liquore denominato”limoncello” mentre così non è. Inoltre la Uami richiese alla ditta italiana limitare l’elenco dei prodotti della classe 33, al liquore proveniente dalla costiera amalfitana “dato che il marchio sarebbe ingannevole qualora il liquore avesse una origine diversa, tenuto conto del fatto che Sorrento e la zona limitrofa godono di una reputazione in relazione allo specifico prodotto e che pertanto l’origine dello stesso è determinante per la scelta del consumatore” . Ma se allora la denominazione limoncello ha una tale risonanza presso il pubblico, tanto da identificare l’origine del prodotto con un determinato territorio italiano, come ha potuto ritenere la divisione di opposizione della medesima UAMI giuridicamente valida la registrazione del marchio “limonchelo” richiesto dalla ditta spagnola nel 1996, anche in relazione del disposto della lett. g) del citato art. 7, in cui è stabilito che non possono essere registrati i marchi “che sono di natura tale di ingannare il pubblico per esempio circa la natura, la qualità e la provenienza del prodotto o del servizio”? La divisione di opposizione della UAMI, sia in primo grado che in appello, nonché il Giudice comunitario neppure si sono posti il dubbio della validità del marchio registrato nel 1996, a quanto è dato comprendere dalla lettura della motivazione della sentenza del Tribunale, concentrando la loro attenzione su un unico profilo, vale a dire il rischio di confusione che il marchio di cui la ditta italiana chiedeva la registrazione, potesse creare con il marchio preregistrato in Spagna, neppure incidentalmente chiedendosi, se non fosse proprio il marchio della ditta spagnola a ingannare i consumatori spagnoli e comunitari in ordine alla effettiva provenienza del “limonchelo”.
- Eppure la giurisprudenza comunitaria, in altre occasione, aveva affrontato la questione delle denominazione tradizionali dei prodotti agroalimentari non rientranti nelle tutele dei cit. Regolamenti 2081/92 e 2082/92, risolvendola nel senso di dare loro tutela. Si ricordi al riguardo la nota sentenza torrone di Alincante della Corte di Giustizia Europea del 10/11/1992 (C-3/91). In tale giudizio si controverteva della legittimità di una convenzione franco-spagnola del 1973 che aveva riservato la denotazione “Torrone di Alicante” ai soli prodotti spagnoli, ed una società spagnola aveva agito in Francia contro una società francese che a Perpignan produceva torroni chiamandoli “Alicante”.
La Commissione intervenne nel giudizio a sostegno della società francese, sostenendo l’illegittimità della convezione in questione, perché in violazione del principio comunitario della libera circolazione dei prodotti. La Corte di Giustizia così motivò, “La Commissione, dal canto suo, richiamandosi alla stessa sentenza Commissione/Germania (Sekt), sostiene che la funzione specifica della denominazione geografica sussiste e il divieto per le altre imprese di usare la denominazione è giustificato dalla tutela della proprietà commerciale unicamente se il prodotto designato dalla denominazione tutelata possiede delle qualità e delle caratteristiche dovute all’ubicazione geografica della sua provenienza e tali da contraddistinguerlo. Essa precisa che nel caso in cui il prodotto non tragga un sapore particolare da un determinato terreno, l’etichettatura che indichi il luogo d’origine o di provenienza effettiva del prodotto, ai sensi dell’art. 3, settimo comma, della direttiva del Consiglio 18 dicembre 1978, 79/112/CEE, riguardante l’etichettatura e la presentazione di prodotti alimentari destinati al consumatore finale, nonché la relativa pubblicità basterebbe per tutelare il consumatore dal rischio di errore. La posizione della Commissione, che concorda con quella difesa dalla LOR e dalla Confiserie du Tech, va disattesa. Essa si risolverebbe infatti nel privare di qualsiasi tutela le denominazioni geografiche che siano usate per dei prodotti per i quali non si può dimostrare che debbano un sapore particolare ad un determinato terreno e che non siano stati ottenuti secondo requisiti di qualità e norme di fabbricazione stabiliti da un atto delle pubbliche autorità, denominazioni comunemente chiamate indicazioni di provenienza. Queste denominazioni possono ciò nondimeno godere di una grande reputazione presso i consumatori e costituire per i produttori stabiliti nei luoghi che esse designano, un mezzo essenziale per costituirsi una clientela. Esse devono quindi essere tutelate“.
Anche nella successiva sentenza del 7/11/2000 nella causa Warsteiner Brauerei (C-312/98), la Corte ha affermato che “non vi è nulla nel regolamento n. 2081/92 che indichi che tali indicazioni di origine geografica non possano essere tutelate in forza di una disciplina nazionale di uno Stato membro. Al contrario, risulta espressamente dal nono 'considerando del regolamento n. 2081/92 che il suo campo d'applicazione si limita alle denominazioni in ordine alle quali esiste un nesso fra le caratteristiche del prodotto e la sua origine geografica. Peraltro, nella citata sentenza Pistre e a., punti 39 e 40, la Corte ha già dichiarato che il regolamento n. 2081/92 non osta all'applicazione di una normativa nazionale che tuteli denominazioni le quali implichino riferimenti geografici specifici i quali, se esistessero nessi tra le caratteristiche dei prodotti richiamate da tali denominazioni e la zona geografica alla quale rinviano, potrebbero formare oggetto di una registrazione ai sensi del detto regolamento”. A tali precedenti giurisprudenziali il tribunale di primo grado non ha ritenuto di fare alcun riferimento nella motivazione della sentenza in esame per verificare la validità del marchio registrato.
- Il problema riguarda quindi in generale, la tutela delle denominazioni di origine di prodotti agroalimentari e delle menzioni tradizionali equivalenti, non coperti dalla tutela delle DOP e IGT, o AS e STG, e per i quali non può affermarsi con certezza che una qualità o caratteristica particolare sia legata al territorio di provenienza, ma che tuttavia hanno acquistato una rilevanza per la storia e la tradizione del luogo in cui vengono prodotti. Già da tempo, si sono evidenziati i limiti della tutela offerta dalle norme dei Regg. 2081/92 e 2082/92 ai prodotti agroalimentare, fondati su una logica di tutela di “nicchia” e di eccezione, ma passi avanti per superare tale impostazione non sembra siano stati compiuti. Resta il problema, tuttora non risolto, né in sede legislativa, né in sede giurisprudenziale, se sia consentito a chiunque di appropriarsi di una denominazione tipica e tradizionale, e di utilizzarla per contraddistinguere prodotti agroalimentari, la cui lavorazione (come nel caso del Limonchelo) avviene in altri e lontani luoghi da quelli in cui essi vengono tradizionalmente lavorati.
E’ pure da chiedersi se tale diritto all’appropriazione di denominazioni tradizionali, ove effettivamente riconosciuto, sia compatibile con le linee “politica agricola strutturale” che l’Unione Europea ha da tempo stabilito, in particolare con il Reg. 1257/99, come pure, in sede comunitaria, si è autorevolmente sostenuto, in cui la tutela e valorizzazione dei prodotti agroalimentari, rappresenta lo strumento principale diretto a favorire la crescita e la competitività della imprese agricole, visto che la banalizzazione delle denominazioni d’origine tradizionali è un evidente danno per le imprese dei territori di provenienza prodotti con denominazioni tradizionali (come appunto la costiera amalfitana per il Limoncello). E’ pure da chiedersi se il diritto alla appropriazione delle denominazioni” tradizionali, sia compatibile con i principi di tutela dei consumatori europei, i quali non avranno alcuna certezza della effettiva provenienza dei prodotti agroalimentari tipici.
- La sentenza in esame, oltre alle sconfortanti considerazioni sull’ordinamento comunitario in tema di tutela dei prodotti agroalimentari tipici e tradizionali, al di fuori delle aree di tutela dei Reg. 2081/92 e 2082/92, stimola pure una amara riflessione sull’Italia, come sistema paese, intesa quindi come istituzioni, imprese, organizzazioni professionali, cittadini, consumatori ed altri. Dal 1996 nessuno sembra essersi accorto in Italia che era stato registrato come marchio il nome di un liquore tradizionale tipico di una regione italiana; nessuno ha percepito la gravità della appropriazione indebita di un pezzo del nostro patrimonio nazionale, quali sono i prodotti agroalimentari tipici e quindi nessuno ha attivato la procedura di opposizione alla registrazione del marchio “limonchelo” da parte della ditta spagnola, né ha agito in giudizio per farne dichiarare la nullità in relazione alle citate norme comunitarie. Né i Governi che si sono succeduti, né il Ministero delle politiche Agricole e forestali, né le organizzazioni professionali di categoria, di tutti i settori direttamente coinvolti nella vicenda (confederazioni agricole, industriali, artigianali o del commercio), né le singole imprese, né le organizzazioni dei consumatori, hanno reagito al danno subito per la indebita registrazione del marchio in questione.
E’ da domandarsi come sia possibile che nessuno di tali soggetti, quotidianamente impegnato in durissime dichiarazioni per la tutela dei nostri prodotti agroalimentari tipici, contro la agropirateria, contro la perdita di identità di tali prodotti, contro ecc. ecc. , non solo non si sia attivato nelle competenti sedi istituzionali, politiche e giudiziarie, per far cessare l’abuso di cui è vittima il sistema Italia nel suo complesso, ma addirittura sembra che neppure fosse informato dell’illecito commesso. Se è così, il sistema Italia, in tutte le sue componenti interessate (istituzioni, organizzazioni professionali, imprese, e consumatori), evitando, ove mai possibile, i logori ed oramai non più tollerabili giochi di scaricabarile degli uni sugli altri, ripensi seriamente ad una politica complessiva di tutela del patrimonio agroalimentare italiano, con una proposta di legislazione organica sia interna che comunitaria, mettendo a punto, strumenti di intervento e di tutela effettivi, al pari dei quanto avviene nell’affine (per interessi, rilevanza economica e tematiche culturali) territorio dei beni culturali ed ambientali, in cui recentemente, è stato emanato un codice, da cui si possono prendere spunti per l’adozione di strumenti di tutela utilizzabili anche nel settore agroalimentare.
Enrico Scoccini
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È IN ATTO UNA GUERRA EUROPEA
Per il limoncello è in atto una "guerra" europea. Una querelle portata avanti a suon di carte bollate e "combattuta" nelle aule dei tribunali. I due rivali sono l’Italia e la Spagna e, più precisamente, il motivo del contendere è l’opposizione da parte del titolare spagnolo della griffe "Limonchelo" a far registrare il marchio "Limoncello della Costiera Amalfitana", appartenente ad una ditta, la Shaker, con sede a Vietri. Un brand, quest’ultimo, che riproduce un piatto di ceramica vietrese con il nome del prodotto. E che, a detta degli spagnoli, potrebbe indurre all’errore i consumatori. Un vero e proprio testa a testa, dunque, che non manca neppure di generare colpi di scena. Perché il Tribunale di primo grado dell’Unione Europea aveva ritenuto che "il grado di somiglianza tra i marchi non fosse sufficientemente elevato da poter ritenere che il pubblico spagnolo potesse far confusione tra i due prodotti".
Una decisione che, però, è stata contestata dall’Ufficio armonizzazione del mercato (Uami), che aveva giá deciso di rifiutare la registrazione del marchio appartenente all’azienda operante sul comprensorio amalfitano. L’Uami, perciò, ha presentato ricorso alla Corte di giustizia europea del Lussemburgo che, ieri, ha annullato la deliberazione del Tribunale di primo grado e, di fatto, rimandato la controversia nuovamente al punto di partenza. Nella sentenza, la Corte sottolinea che «il Tribunale non ha compiuto una valutazione globale del rischio di confusione tra i due marchi in conflitto». E ancora: «Nel verificare l’esistenza di un rischio di confusione, la valutazione della somiglianza tra due marchi non può limitarsi a prendere in considerazione solo una componente di un marchio complesso e paragonarla ad un altro». Ne consegue, quindi, ha aggiunto la Corte Europea, che «la sentenza impugnata è viziata da un errore di diritto e deve essere annullata». A questo punto, deve ripartire di nuovo l’iter giudiziario.
«Ci dispiace che la Corte Europea - commenta Marco Aceto, presidente del Consorzio che raggruppa i produttori di limoncello - abbia annullato la sentenza di primo grado. La vicenda riguarda solo un marchio perché purtroppo il limoncello non è tutelato in quanto non ha l’indicazione geografica tipica». |