Numero 32 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

L’assolo ribaltato *

di Raffaele Rizzo

 

Avevo letto qualche recensione positiva sullo spettacolo in programmazione, una trilogia incentrata su personaggi femminili nel teatro classico: “Antigone, Medea e Giovanna d’Arco”. Era tardi e presi un taxi per raggiungere, in breve tempo, la piccola sala di Posillipo.

Arrivai che mancava poco al previsto inizio, ma in teatro non c’era ancora nessuno. Così nei minuti che seguirono, e per un’ulteriore buona mezz’ora. Si era ormai alle dieci circa, e, di spettatori, escludendo me, neanche uno.

La regista si aggirava per l’atrio ben nascondendo il suo nervosismo, e a un certo punto, m’invitò a entrare perché si sarebbe cominciato.

pip

Mi sembrò doveroso dirle che, per me, si poteva soprassedere; magari sarei tornato un’altra sera, ma lei m’invitò, con decisione, a raggiungere la sala.

Entrai e mi diressi verso quello che, da quando avevo letto una nota di Sandro De Feo (critico teatrale dell’Espresso degli anni sessanta) che lo preferiva, era diventato anche il “mio” posto: poltrona di canale, sesta fila. Non sempre me lo posso permettere.

Sperai che qualcuno entrasse nei minuti successivi; se non uno spettatore pagante, almeno un addetto di compagnia o del teatro; invece niente e nessuno. Vi anticipo che rimasi solo fino alla fine.

Inizialmente la cosa aveva assunto una nota di frizzante curiosità, ma con l’avanzare del tempo, aveva prodotto una serie di considerazioni, nuove e particolari.

Intanto si era determinato un rapporto, direi privilegiato, fra me e gli attori. Inevitabilmente, essendo l’unico spettatore del loro lavoro, ne diventavo anche interlocutore. Il loro sguardo era sempre rivolto verso di me e ciò mi procurava un certo imbarazzo.

Per quanto mi riguardava, poiché rimanevo il loro interlocutore “privilegiato”, l’iniziale eccitazione stava cedendo campo a riflessioni più prosaiche. Pensavo, infatti, che, se mi fosse sopraggiunta la necessità di andare alla toilette, non l’avrei potuto fare. Come mi sarei dovuto comportare? Alzarmi e andare, o chiedere scusa, supponendo che si sarebbero interrotti per aspettarmi? Non osai niente di tutto ciò; com’è intuibile, non avrei potuto fare diversamente.

Altra considerazione: sarei potuto andare via perché non interessato allo spettacolo? Spesso decido di farlo, ma, in quella circostanza, la cosa avrebbe assunto un peso particolare: avrei dovuto avvertire che, per me, era inutile continuare. Vedendomi uscire senza dir niente, si sarebbe creduto ad un’urgente necessità, e atteso inutilmente il mio ritorno in sala.

Vi assicuro che, in quel momento, lo spettacolo più brutto e insopportabile del mondo, mi avrebbe tenuto inchiodato alla poltrona, fino alla fine. Capii che ero inesorabilmente prigioniero del teatro. Non sarei mai riuscito ad alzarmi e uscire. Mi chiedevo ancora, come avrei potuto reagire, nell’ipotesi che lo spettacolo non mi fosse piaciuto. Avrei mai potuto fischiare, come a volte faccio, rivendicando questo sacrosanto diritto dello spettatore, se fatto nei momenti opportuni, e senza interrompere la scena, quale segno di civiltà teatrale?

Pensai tuttavia che mai avrei potuto fischiare da solo. Quale squallore avrebbe accompagnato un patetico fischio solitario, e come sarebbe risuonato, da solo, nella sala? Quale sensazione l’avrebbe accompagnato?

Non sarei stato, alla fine, un ingrato, una specie d’ospite screanzato, piuttosto che un comunissimo spettatore insoddisfatto?

Per fortuna, lo spettacolo cominciò a piacermi.

Mi piaceva teatralmente, nell’accezione, diciamo pure, standard del caso.

Ma intanto, come per l’ipotesi del fischio, le medesime riflessioni presero ad ingombrarmi la mente, prospettandosi l’eventualità di un applauso solitario. Quale sinistro effetto, in quest’altro caso, avrebbe accompagnato il mio ridicolo clap clap?

Non avevo scampo, e lo spettacolo volgeva al termine! L’attrice continuava a recitare guardandomi negli occhi, ed io, disperato, non avevo ancora deciso che fare! Ad un tratto, quando sembrava che non avessi vie d’uscita, ebbi l’idea che, alla fine, fu risolutiva.

Presi carta e penna e scrissi una lunga riflessione sulla situazione del momento, pressappoco come quella che ora riporto in questa nota. Utilizzai gli stessi spunti sulla toilette, il fischio, l’applauso, eccetera. Aggiunsi che mi affidavo allo scritto perché, in quella forma, non avevo imbarazzo ad esternare il mio plauso, e li ringraziavo infine, per avermi regalato quella particolare e godibilissima esperienza teatrale.

Piegai il foglio e attesi, placato, la fine della pièce. A quel punto mi alzai, coprii la breve distanza che mi separava dal proscenio, e lanciai il mio messaggio sulla scena. L’attrice lo raccolse, lo spiegò e, attorniata dagli altri attori, prese a leggerlo con loro. Alla fine esplosero in un inusuale applauso nei miei confronti.

Visibilmente emozionato, in un imprevisto ribaltamento dei ruoli, m’inchinai e uscii, accompagnato dal generoso applauso.

* (Una esperienza teatrale alla “Riggiola” di Napoli – novembre 1970)

** La Riggiola: Il termine ha origine spagnola ed indica una piastrella, spesso dipinta a mano, che si produce ancora oggi nelle costiere amalfitana e sorrentina.