Mitologia e Unicità di prodotto
ABSTRACT Tratto dal libro “La strategia aziendale nei mercati complessi” (di L. Macchia, ed. Franco Angeli, mar 2010) riguarda l’aspetto “mitologico” dei prodotti nella società post-industriale, in rapporto alla ricerca di unicità nel mercato.
Nel 1943 lo psicologo Abraham Maslow pubblica un articolo, destinato a segnare generazioni di studiosi di management, che analizza i bisogni umani ponendoli in una piramide evolutiva, che ha la forma seguente.
Il bisogno basilare è quello della sopravvivenza: cibo, acqua, riparo. Una volta che queste esigenze fondamentali sono soddisfatte, l’uomo ricerca la continuità nel tempo di questo stato di soddisfazione, ovvero la protezione dai pericoli ambientali (sicurezza) ed il riconoscimento della propria identità in un gruppo (affettività).
A questo punto siamo ai livelli di una società evoluta nella quale l’individuo ricerca il successo e l’apprezzamento sociale (riconoscimento), ed infine di concentra sulla realizzazione delle proprie aspirazioni e dei propri sogni (auto-realizzazione).
In economia tale concetto di scala dei bisogni riecheggia nella celebre distinzione tra bisogni “primari” ovvero fisiologici (approssimativamente i primi due livelli di Maslow), e bisogni “secondari”.
Questi ultimi sono i bisogni che potremmo definire “a pancia piena”, come la cultura, il divertimento, l’impegno verso cause “più alte”.
Fino agli anni ’50 le società avanzate si sono trovate ad affrontare i bisogni primari, ed hanno quindi posizionato le loro offerte sulla parte bassa della piramide di Maslow.
L’idea era consentire ad ognuno di possedere un’automobile, un televisore, una cucina “tecnologicamente avanzata” e così via.
Se guardate le vecchie pubblicità della Ford Popular degli anni ’50, trovate immagini candidamente ingenue, simbolo di un’epoca e di un concept di prodotto ormai lontani.
Una donna graziosamente vestita saluta il marito che va a lavoro con la sua splendida “Popular”: è il sogno di un benessere di massa, di bisogni primari soddisfatti per sempre, di un ritorno ad un paradiso terrestre di pace e quiete, simboleggiato dall’abito “fashion” della donna, in armonia con un arredamento vivace e stilizzato.
Il problema è che questo sogno di perfezione si è infranto contro il vertice della piramide di Maslow. Oggi noi tutti, esuli del paradiso terrestre del benessere costante, vaghiamo a tentoni in un mondo di incertezza, poiché abbiamo assaggiato il frutto proibito dei bisogni più sofisticati, più legati ai livelli profondi del nostro essere.
I consumatori di oggi, possiamo dire, non hanno più bisogni, ma piuttosto “desideri”, e si rivolgono alle aziende alla ricerca di prodotti/servizi che schiudano un immaginario spesso sfuggente a loro stessi.
E così, mezzo secolo dopo il poster Ford della Popular, ritroviamo una pubblicità ben diversa da parte dell’Alfa Romeo.
Nessuna immagine dell’automobile, né delle persone, né di una qualunque vita sociale, ma uno sfondo nero nel quale spicca il logo della casa ed uno slogan: “il cuore ha sempre ragione”. Il nero, in cui si accende il logo Alfa Romeo, evoca l’inconscio stesso dei potenziali acquirenti, parla ai livelli più profondi della loro emotività. Il cuore ha sempre ragione: il dialogo è con l’emisfero destro del cervello, quello in cui risiedono emozioni e desideri.
Non c’è alcuna promessa rivolta alla vita codificata dai riti sociali e dalle abitudini, ma il messaggio vuole colpire la parte più intima e irraggiungibile dell’animo umano.
Fabris nel suo saggio “Societing” (2008) parla di superamento non solo dei bisogni, ma anche dei desideri, verso una nuova tendenza che pone al centro le “esperienze” (e ricollegandosi quindi al filone del cosiddetto “marketing esperienziale”). D’altra parte, a ben vedere, l’esperienza non gareggia con il desiderio, quanto piuttosto lo proietta sul piano dell’agito e del fenomenico. Cos’è, in fondo, un’esperienza positiva, se non l’incontro con i nostri desideri? Così l’esperienza “Starbucks” diventa essenzialmente la scoperta di un desiderio inconscio, di un luogo dell’anima. Così ricordo la mia prima esperienza in uno Starbucks sulla Fifth Avenue: la musica jazz, il via vai delle persone, una perfetta sensazione di relax e di recupero del mio tempo interiore. Ho scoperto di desiderare quel luogo. Epifania di un desiderio, non suo superamento.
Certamente tutto questo ci porta ben al di là dello scarno concetto di utilità dell’era industriale. È uno dei tratti caratterizzanti, della nostra società, una delle principali ragioni per cui la chiamiamo “post-industriale”.
Oscar Wilde ha detto «viviamo in un’epoca in cui il superfluo è la nostra unica necessità»: questo aforisma oggi è diventato un fondamentale principio di sociologia e marketing strategico, non nel senso di indurre ad un design di prodotti superflui “tout court”, ma per la sua incredibile capacità dialettica di “smontare” il tradizionale concetto di utilità, a favore di una visione più profonda e indefinita.
Per le aziende il livello di complessità è enormemente aumentato: più i bisogni si spostano verso i desideri e più sono difficili da capire, soddisfare rincorrere (diventano più latenti e sfumati).
Ecco perché la differenziazione di prodotto diventa enormemente difficile e complessa, spostandosi dalla banale ricerca dell’ennesimo bisogno non soddisfatto, alla creazione (spesso si parla di “business creation”) di prodotti/servizi che ispirino l’animo umano. Benvenuti nella “mitologia del mercato”.
1. Mitologia del mercato
Roland Barthes, nel suo libro “Miti d’oggi”, dà una definizione semiologica del mito.
Egli si ricollega al concetto di “segno” come composto di un “significante” e di un “significato”. Senza pretesa di essere all’altezza della trattazione di Barthes, si può pensare al significante come al recipiente, ed al significato come contenuto. Così il mazzo di rose è il significante, mentre la passione è il significato. Il suono della campanella è il significante, la fine della lezione il significato. Ora Barthes, con un salto intellettuale impressionante, definisce il mito partendo dal segno (significante + significato) che è utilizzato dalla cultura come significante, a sua volta, di qualcos’altro.
Così, per esempio, una foto dei Beatles, al di là del significante (l’immagine, la grafica, i colori) e del significato (si tratta del celebre gruppo pop di Liverpool), assume, nella sua interezza di “segno”, una funzione di significante a supporto di un significato altro: quello di rappresentazione di un’intera generazione, di un clima storico, di un sogno di libertà.
Chiedendo venia ai semiologi, tento di riportare questo potente concetto sul piano del mercato.
Ogni prodotto è, tutto sommato, scomponibile in un “significante”, che è la tecnologia che lo struttura, la sua veste materiale (immateriale se si tratta di un servizio), e di un “significato” che è la sua funzione d’uso.
Ma, via via che i bisogni si spostano verso i desideri, il ruolo dei prodotti è sempre più “mitologico”.
Struttura e funzione d’uso divengono asserviti ad un significato diverso, non direttamente correlato alla natura del prodotto.
Si pensi alla Coca Cola “Zero”: questo prodotto è il simbolo di un’economia dell’immateriale, in cui persino un articolo destinato (almeno nella sua matrice originaria) a placare la sete ed a dare rinfresco, e quindi ai bisogni primari e secondari, diviene prodotto basato sull’azzeramento (nomen omen) ontologico. Un prodotto che si impone piuttosto come assenza (degli zuccheri) piuttosto che sulla presenza (della bibita già nota e data per “scontata”), tendendo appunto ad “azzerare” i “Minus” lasciando solo i “Plus” di prodotto. Tale rettifica nella contabilità della funzione d’uso, nello stesso tempo, sul pianto etico, esprime l’affermazione di una promessa incondizionata di felicità (senza “zuccheri”, senza “peccato”) che rimanda ad un mondo primigenio e dionisiaco, simbolo di un’idea di libertà selvaggia e di riconciliazione tra uomo e natura.
Così un paio di scarpe da ginnastica possono essere riguardate come un oggetto di cuoio, plastica, gomma, finalizzato ad una funzione d’uso, che è la pratica sportiva. Ma un paio di Nike diventano, per i consumatori, qualcos’altro. Tecnologia e funzione d’uso sono solo il segno di un desiderio mitico di libertà, forza e giovinezza, come splendidamente illustrato, nelle comunicazioni pubblicitarie, da slogan come il famoso “sei più veloce di quanto pensi”. Le scarpe diventano il richiamo ad un sogno di auto-realizzazione (si noti il collegamento maslowiano) in cui la loro funzione d’essere originaria evoca il sentimento profondo e mitologico della libertà. Parafrasando Baudelaire possiamo dire “il mercato è una selva di simboli” (1) : i prodotti diventano espressione culturale, in quanto stanno a significare istanze individuali e sociali centrali nella vita.
I marchi (brand) assumono il potere di evocare la natura mitologica dei prodotti, di renderla immediatamente recuperabile nella mente dei consumatori.
È questo il processo per cui possedere una maglietta Lacoste, o una auto BMW, ha un significato ben più complesso e inafferrabile di quanto possa essere il concetto di “polo di qualità” o di “automobile di fascia alta”.
È il concetto di “unicità”.
2. Unicità
Fino a qualche decennio fa il problema dell’unicità era un problema “da ricchi”, nel vero senso del termine. I prodotti si distinguevano (figura 3) molto nettamente tra:
- “commodity” concepiti per assolvere a specifiche funzioni d’uso, rivolti alla massa dei consumatori ed a buon mercato;
- “non commodity” caratterizzati da unicità e ricercatezza, e rivolti ad un’elite.
Nei mercati odierni dei paesi avanzati, questo dualismo è scomparso. I consumatori si aspettano prodotti/servizi che sintetizzano i pregi di entrambe le categorie: sono ampiamente disponibili, personalizzati, unici, differenziati, ed a basso costo.
C’era una volta l’alta tecnologia per pochi. Oggi computer portatili, lettori digitali, stampanti e scanner sono alla portata di tutti. I televisori digitali hanno cavalcato uno dei più rapidi cicli di prodotto della storia, passando in circa 5 anni da prodotti esclusivi per pochi, a “commodity” tecnologiche sempre più alla portata di tutti.
C’era una volta il trasporto aereo destinato a famiglie facoltose e uomini d’affari. Oggi è possibile volare in Europa a prezzi spesso più bassi della tariffa del parcheggio dell’aeroporto, in cui lasciamo l’auto durante la vacanza. Ciò è frutto della compresenza dei seguenti fattori:
- crescente complessità dei bisogni che, come abbiamo detto, tendono a diventare desideri e mitologia, per cui accontentarsi dell’ovvio e del trito non rientra più nei comportamenti dei consumatori;
- iper-competizione: grazie alla globalizzazione dei mercati ed al moltiplicarsi dei mezzi di comunicazione, l’offerta si è moltiplicata e specializzata, arrivando ad offrire molteplici soluzioni che si adattano alle esigenze (desideri) di ognuno;
- tecnologia a costi decrescenti, grazie alla innovazione continua ed ai progressi scientifici a velocità esponenziale in ogni campo.
Insomma i consumatori di oggi tendono ad essere “viziati”, ad avere, e quindi pretendere, capra e cavoli: prodotti sofisticati a prezzi contenuti.
Questo non vuol dire, si badi bene, che la variabile prezzo sia scomparsa, né che non esistano più prodotti di fascia alta.
In realtà, lo scenario è molto più complesso, ed il tradizionale dualismo commodity/lusso è stato sostituito da un’offerta in cui l’unicità di prodotto, almeno ad un certo grado, è ineludibile.
Un prodotto di successo, per usare le parole di Seth Godin (2003), deve essere una “mucca viola”, che si distingue dalla miriade di mucche marroni ed attira l’attenzione del consumatore, proponendosi a lui come unicum. Ciò vale tanto per una tazza di caffè (si pensi a Starbucks) quanto per un pezzo di arredamento (si pensi ad Ikea).
2.1. Eludere l’unicità: perché spesso le aziende si comportano come alcolisti
In sintesi abbiamo visto come, nella nostra era “post-industriale”, la differenziazione di prodotto si conquista nella selva oscura dei desideri e della mitologia, e non più nel comodo giardino della funzione d’uso e dei bisogni. I consumatori si aspettano dalle aziende un processo di innovazione continua, che regali continuamente nuove “unicità”. La struttura di mercato iper-competitiva ed i rapidi progressi tecnico-scientifici, sono i fattori abilitanti di questa aspettativa. |
È una sfida che appare titanica, che richiede innovazione continua ad ogni livello. Una sfida che è spesso al di sopra delle capacità di aziende che hanno prosperato in mercati tradizionali, prevedibili e statici.
Una sfida così difficile e radicale, che spesso i manager preferiscono semplicemente eluderla, cercando palliativi e soluzioni a breve termine, nel tentativo di creare vantaggi strategici “alla giornata”.
Come suggerisce acutamente Gary Hamel (2000, p. 41-67) questa elusione è alla base dello spostamento delle attività delle aziende verso le ristrutturazioni finanziarie e societarie, piuttosto che concentrarsi sul prodotto/servizio offerto.
Il comportamento elusivo può essere schematizzato con il diagramma sistemico in figura 4 (adattato da Senge, 1990).
Quando un’azienda vive un momento di difficoltà (calo di performance), si instaura un senso di crisi dal quale si può uscire in due modi completamente diversi.
Primo modo
Ripensare radicalmente la propria strategia ed il proprio prodotto/servizio producendo, con un certo ritardo (Roma non è stata fatta in un giorno) il livello di innovazione necessario per superare la crisi, ed avviarsi verso nuovi cicli di crescita.
Secondo modo
Vivere la crisi come minaccia esterna, senza mettere in discussione il proprio modo di essere, e cercando invece dei palliativi a breve termine. Questo tipo di reazione è alla base del moltiplicarsi di iniziative di fusione ed acquisizione (ingrandirsi ed aumentare fatturato per apparire in crescita a tutti i costi), e di molte altre azioni di tipo finanziario (come il buy-back di azioni, che consiste nel riacquisto da parte dell’azienda di azioni proprie per aumentarne il valore, al di là del contenuto “reale” del valore stesso). È anche alla base delle sfrenate campagne di “cost reduction” (riduzione dei costi) che spesso barattano modesti vantaggi nel breve termine, con il danno spesso irreparabile a importanti asset aziendali (in primis le risorse umane ed il loro patrimonio di conoscenze). Come osserva Hamel, lo sbilanciamento verso politiche di cost reduction (che lui chiama ironicamente “liposuzioni” proprio ad indicarne la temporaneità: una volta che il grasso in eccesso è finito, anche i vantaggi terminano) è indicato da crescita degli utili molto più elevata della crescita dei ricavi, mentre il trend contrario (ricavi che crescono molto più velocemente degli utili) indica spesso politiche di fusione e acquisizione (merging & acquisition) tutte tese a fare “volume” e quindi “scena”(2). Hamel indica i dati in tabella 1, davvero impressionanti, relativi al periodo 1995-2000 (2000, p. 43).
Fig. 3 – Paradigma sistemico soluzione sistemica / soluzione fondamentale, applicato all’innovazione aziendale
Il primo modo è “fondamentale”, teso a curare la malattia, mentre il secondo è “sintomatico” e cura solo i sintomi, mentre il problema di fondo continua a persistere. Questo doppio ciclo sistemico caratterizza il comportamento di chi è affetto da dipendenze (come ad esempio gli alcolisti) che, piuttosto che affrontare la causa del proprio disagio, continuano ad attenuarne i simboli ricorrendo alle abitudini di cui sono dipendenti. La crisi nata nel 2008, e che tuttora viviamo, è anche questo: crisi di un mercato che si è allontanato dalla creazione del valore “reale”, ed ha ripiegato su palliativi che a lungo andare hanno portato al crack del sistema.
2.2. E se l’unicità fosse a portata di mano?
Eppure, secondo alcuni, l’unicità non è poi così difficile da individuare.Paul Hawken, arguto autore, imprenditore di successo e visionario del business, afferma che, nella generale deriva del mercato contemporaneo, basterebbe una sorta di “back to basics”, un ritorno ad un’offerta genuina basata sulla sincera volontà di offrire ai consumatori prodotti di qualità. Persino un hamburger, afferma Paul Hawken può, in questo senso diventare un prodotto unico:
Prendiamo un prodotto banale, ordinario, trascurato, e rendiamolo nuovamente reale. L’hamburger, per esempio. Esistono tanti cattivi hamburger a questo mondo che, oso affermare, a chiunque ne preparasse uno onesto, con porzioni generose e cipolla fresca, non mancherebbero mai i clienti. In altre parole: prendiamo un prodotto e riportiamolo alla sua essenza (1987, p. 63).
Inoltre la tecnologia consente di trarre spunti sempre nuovi, utilizzando creativamente nuove potenzialità continuamente emergenti. Nel settore delle “vendor machine” (distributori automatici) di cibo e bevande, comparto apparentemente statico e privo di prospettive, sono in atto trend sorprendenti(3):
- sono stati creati nuovi modelli in grado di impastare e sfornare pizza in diversi gusti, oppure piatti caldi, o fresche insalate;
- altri distributori di nuova concezione puntano ai cibi sani ed al “functional food” proponendo articoli salutisti (bevande al ginseng, spremute, alimenti vitamici) e dietetici;
- sono stati creati modelli sensibili al rispetto ambientale, che puntano sul risparmio energetico (stand-by dopo un certo tempo di inutilizzo, ed eliminazione di illuminazione ad alto consumo) e sulla riduzione dell’inquinamento (eliminazione dei bicchieri usa e getta grazie all’utilizzo di lavastoviglie incorporate);
- infine, si sperimentano sistemi con modalità di pagamento di nuova concezione (ad esempio con il cellulare) o addirittura senza pagamento (grazie ad introiti di natura pubblicitaria), e con interfacce innovative (ad esempio touch screen).
Come si vede l’innovazione può essere dirompente anche in un settore tutto sommato tradizionale.
2.3. Approccio olistico all’unicità
Il prodotto/servizio non è solo il prodotto/servizio.
Ricordate: nulla è più essenziale del superfluo. Offrire unicità vuol dire offrire qualcosa di unico, in termini della costellazione costituita dal prodotto/servizio e degli “extra” forniti con esso, che spesso giocano un ruolo centrale nella caratterizzazione di unicità.
Mi riferisco innanzi tutto all’alone di servizi aggiuntivi che circondano il prodotto, ne esaltano l’appeal, lo completano integrandolo con i desiderata dei clienti.
La General Motors offre un pacchetto di servizi denominato “OnStar” (esempio tratto da Hamel, 2000, p. 112) con le sue berline di lusso. I servizi aggiuntivi previsti comprendono:
- servizi di soccorso in caso di emergenza (24 ore al giorno, 7 giorni su 7);
- conciergerie per informazioni e prenotazioni;
- tele-assistenza: rilevazioni guasti critici (es. air-bag, apertura automatica in caso di chiave all’interno, attivazione per ritrovamento auto nel parcheggio).
Questo è un esempio estremo, ma la tendenza è generale: persino le utilitarie vengono vendute con servizi aggiuntivi come finanziamenti, assicurazione, particolari condizioni di garanzia, e possibilità di cambio vettura a scadenza. Nell’ambito delle forniture impiantistiche si rileva la proliferazione di soluzioni “chiavi in mano” in cui la fornitura “strictu sensu” è offerta in una costellazione di servizi aggiuntivi: progettazione, personalizzazione, configurazione, assistenza, gestione in outsourcing, fino alle soluzioni che comprendono i servizi di finanziamento e leasing.
In generale, questi “add-on”, offerti come completamento al prodotto originale, vengono indicati con il termine “perkonomics”(4) ed il loro ruolo è spesso preponderante rispetto agli aspetti “di sostanza” (le caratteristiche tecniche e qualitative del prodotto servizio). Ma ciò non ci stupisce. Nulla è più essenziale del superfluo.
I perkonomics più sofisticati e determinanti sono quelli legati a due dimensioni intangibili del prodotto.
La dimensione relazionale
Le aziende vengono sempre più spesso selezionate per la loro capacità di mantenere prima, durante e dopo l’acquisto, relazioni positive con i clienti. Da ciò l’emersione del paradigma del “marketing relazionale”, in cui l’approccio ai clienti è centrato sul mantenimento di un rapporto solido e duraturo.
Tale approccio ha un aspetto “hard” legato alla migliore resa economica di un cliente “fedele” il cui costo di mantenimento è mediamente inferiore al costo di acquisizione di un nuovo cliente, e che fornisce ricavi stabili e tendenzialmente crescenti (grazie alle progressive vendite incrementali o “upselling”, ed alla vendita di prodotti complementari, detta “cross-selling”).
Ma ha anche un aspetto, non meno importante, di natura “soft”, legato al miglioramento del prodotto/servizio offerto, che viene rivestito da questo tessuto relazionale, che arricchisce l’esperienza del cliente, incidendo quindi in maniera decisiva sulla percezione di unicità. Gli esempi di marketing relazionale spaziano dalle più banali manifestazioni rappresentate dalle tessere fedeltà e programmi a punti, sino ai più avanzati servizi di tutoring e assistenza continua.
Il brand
La marca rappresenta il più intangibile degli aspetti di prodotto, ma al contempo ha un peso sempre maggiore sulla percezione di unicità da parte del cliente.
L’insostenibile leggerezza del brand fa di un prodotto un unicum, un essere mitologico, un’esperienza unica.
È il fenomeno sociologico per cui la Coca-Cola non è una semplice bevanda, ed un paio di Nike (come visto nell’esempio pubblicitario) divengono più magicamente potenti dei calzari alati di Ermes.
Una menzione a parte merita il fatto che i clienti sono sempre più sensibili all’aspetto “ecologico” del prodotto, che diviene un’ulteriore caratteristica aggiuntiva del prodotto stesso. Per esempio, nell’industria dell’elettronica, si lavora per costruire PC con materiali riciclabili (es. ASUS utilizza bambù e cartone riciclabile) e a basso consumo (Siemens offre prodotti a zero consumo in stand-by); cellulari composti di materiali riciclati (Nokia), e stampanti con toner a bassa tossicità (TBS Printware(5)).
È per tutto questo, che l’approccio all’unicità deve riguardare l’offerta nel suo insieme, in una visione olistica, che pone il problema della differenziazione di prodotto su un piano estremamente complesso, ove si intersecano tecnologia e comunicazione, potere della marca e relazioni cliente-azienda. |
Bibliografia
- Barthes R. (1957), Mythologies, Editions du Seuil, Paris (trad. it. Miti d’oggi, Einaudi, 1994)
- Fabris G. (2008), Societing. Marketing nella società postmoderna, Egea
- Godin S. (2003), Purple Cow, Do You Zoom (trad. it. La mucca viola, Sperling & Kupfer 2004)
- Hamel G. (2000) Leading the revolution, Harvard Business School Press (trad. it. Leader della rivoluzione, Il Sole 24 ore, 2004)
- Hawken P. (1987), Growing a business, Simon & Schuster, New York (trad. it. Come scegliersi un’attività e farne un business, Bompiani, 2000)
- Maslow A.H. (1943), A Theory of Human Motivation, Originally Published in Psychological Review, 50, 370-396 (disponibile al sito. psychclassics.yorku.ca)
- Senge P. (1990), The Fifth Discipline, Doubleday (trad. it. La Quinta disciplina, Sperling & Kupfer 2006)
note
1. In Baudelaire nella poesia “Corrispondenze” dei Fiori del Male si parla della natura come una selva di simboli.
2. Naturalmente non si vogliono stigmatizzare tutte le azioni di riduzione costi e fuzione/acquisizione, ma semplicemente criticarne gli eccessi e l’uso (ed abuso) come puri e semplici palliativi.
3. Tratto dall’articolo “Slot Food machine” apparso su “L’Espresso” del 6 novembre 2008.
4. Il termine “perkonomics” è crasi dai due termini inglesi “perk” (privilegio) e “economics” (economia).
5. Fonte “L’Espresso” 10 aprile 2008.
Lucio Macchia, 45 anni, laurea in ingegneria, ha un vissuto d’azienda quasi ventennale, in contesti di elevata complessità e dinamicità, nell’ambito di un ampio spettro di tematiche manageriali. Opera inoltre come formatore in corsi per professionisti e master di Business School, nelle aree Strategia, Finanza Aziendale, Business Plan e Management by Projects. A marzo 2010 ha pubblicato il libro “La strategia aziendale nei mercati complessi. Dai modelli di base alle visioni di frontiera” (Franco Angeli Editore).