Numero 60 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

LA CITTA' RUBATA

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di Laura Lambiase Profeta

 

Quel mattino del 27 maggio  l'uomo uscì di casa alle otto in punto, come ogni altro giorno dell'anno.
Come ciascuna mattina della sua vita chiuse l'uscio dietro di sé a chiave. Mise le mani nelle tasche dei pantaloni e ve le tenne ben infisse ad evitare di sorreggersi al corrimano della scala. Conosceva quel corrimano di ferro nero, corroso e appiccicoso al tatto, mai lavato nè lucidato in tutti quegli anni. Non aveva visto, da quando abitava in quel vecchio palazzo, qualcuno pulirlo. Non aveva neanche mai veduto qualcuno pulire le scale, rifletté. Per abitudine le sue scarpe evitarono le chiazze vermiglie, le larghe macchie scure su cui le suole scivolavano. Pochi gradini, una curva, un pianerottolo, pochi altri scalini grigi. Scarafaggi con le zampe in aria vi giacevano da mesi in compagnia di pacchetti di sigarette accartocciati e mozziconi gialli. Rintanati negli angoli sapevano di potervi restare per molto tempo ancora.
Sul cancello facce smunte, bianche, snervate, flaccide, come senza ossa, scrutavano dentro con occhi inespressivi. Non salutò nessuno. Uscì in istrada inspirando profondamente come per un tuffo in acqua.
Il viottolo era deserto data l'ora. L'asfalto, un impasto di sudiciume nero, fermo baluginava. Percepì il familiare contatto delle scarpe sulla superficie stradale. Quel lieve sprofondare del piede nell'immondizia schiacciata dai passi, dilavata dalle piogge, sciolta dai calori estivi. Catrame, sudore e resti biologici componevano una patina che ricopriva le vie della grande città. Era sempre stato così.
Attese l'autobus per mezz'ora soltanto. Non c'era ancora traffico. Era quella la ragione per cui l'uomo usciva più presto di quanto gli fosse necessario. Eppure l'abitacolo era strapieno.
Gli odori si confondevano e in quel giorno di prima estate già toglievano il respiro. Acuti, inaciditi. Fetori di uomini accalcati che non si erano ancora tolti di dosso le ore della notte. Si parlava sottovoce del colore dell'acqua. Era un argomento sempre interessante e vario. Dal rubinetto usciva un liquido giallastro, torbido, dal profumo acuto. Era impossibile usarlo per lavarsi il viso e i denti. Qualcuno lo faceva adoperando l'acqua da bere. Iniziò una discussione accesa. Alcuni la descrissero di color giallo senape. Altri confutavano questa dichiarazione: propendevano per  un rosso mattone, un giallo arancio, un verde marcio. Erano di queste tinte le macchie che popolavano i loro lavandini, i loro bidet e i loro cessi. Furono mostrate le unghie verdastre, come di marziani, tra lo stupore dei passeggeri. Uno, per rendersi interessante, fece vedere le dita gialle e maleodoranti. Fu accusato di essere un fumatore, minacciato e messo a tacere. Tutti, però, furono d'accordo sul grado di fluidità di quel liquido. Era denso come diarrea. Lo sporco e la puzza sui corpi dei passeggeri erano dovuti senz'altro a quel colore. Nessuno osava più lavarsi. Bere, si beveva solo acqua imbottigliata dallo Stato, che aveva il monopolio delle sorgenti. Le poche rimaste. Il prezzo proibitivo riduceva molti ad elemosinarne un bicchiere, come un tempo gli ubriaconi facevano col vino. Nessuno aveva creduto alla donna che affermava di essersi lavata la faccia con l'acqua da bere. Quella era razionata, e in certe case tenuta in cassaforte o stipi chiusi a chiave. Le solite cose, pensò l'uomo. Solite chiacchiere. Eppure avvertì uno strano senso di disgusto alla bocca dello stomaco. Era una sensazione nuova per lui. Sempre sano, sempre indifferente a odori, sapori, voci, pensieri. Era come se qualcosa di molto brutto stesse per accadere, o fosse già accaduto. Sceso che fu alla sua fermata, sostò un po' per respirare l'aria della strada, ma il suo polmone non parve accorgersi della differenza. L'asfalto, appiccicoso come di gomma masticata e vomitata, rendeva lentissimo l'incedere. All'imbocco di un vicolo due uomini lottavano, dandosi strattoni, tirandosi per la manica, sferrando pugni. Uno fu buttato a terra, fu trattenuto, si divincolò, si liberò e prese a tirare una borsa che l'altro stringeva sotto l'ascella. Il possessore teneva stretto il possesso, l'altro adirato e seccato  gli sferrò un calcio, lo atterrò, tirò con stizza la borsa da sotto il braccio, gli sferrò un altro calcio al viso in segno di ringraziamento e fuggì in salita verso un motore acceso che attendeva. L' uomo, che aveva seguito lo svolgimento della storia con sguardo distaccato, vide il derubato alzarsi e prendere a rincorrere l'altro in salita, zoppicando e sputando sangue. Tutto era accaduto in silenzio. L'uomo si guardò intorno percependo per la prima volta lo straordinario silenzio e si avvide di una folla di persone pensose e silenti, formatasi per osservare lo spettacolo. Il derubato non aveva fatto un grido, nè chiesto aiuto. D'altro canto sarebbe stato inutile, nessuno glielo avrebbe prestato. Neanche lui, pensò. Soprattutto lui, si corresse. Era stato derubato tante volte. Silenzio, gente muta, con gli occhi persi nella visione familiare di due persone in lotta. Silenzio.
Si era fatto tardi. L'uomo guardò la folla, di cui aveva fatto parte, disperdersi. Andò via. Ma qualcosa stava facendosi spazio nella sua mente. Era lo sguardo degli astanti, era il silenzio degli astanti, era l'assoluta indifferenza degli astanti. Una scena che si ripeteva migliaia di volte in un giorno e i ruoli mutavano costantemente. Il derubato rubava. Il ladro veniva depredato. Perché questa volta gli occhi degli altri, le loro bocche serrate...i suoi occhi, la sua bocca...lo avevano confuso, acuendo lo strazio allo stomaco?
Continuò a camminare fino al suo ufficio. Con le scarpe che sembravano fatte di melassa.
L'androne era stato di marmo un tempo, pietra bianca e marmo. Una scalinata si spingeva verso l'alto per quattro piani. Sui pianerottoli una porta per lato. Nulla al centro. Solo uffici. Tutto nel buio di finestre mai nettate, di porte e pareti annerite da respiri e sputi, di scale imputridite da sperma e piscio. Una nuova macchia di sangue ricopriva in forma di esili dita il campanello dell'ufficio in cui lavorava, al terzo piano. Ieri non c'era, ricordò . Una siringa era stata piantata con la punta all'insù nel corrimano di legno fradicio della scala. L'uomo teneva perennemente le mani infilate nelle tasche, ma una donna che scendeva vi pose la palma della mano sinistra così vicina che per poco non ne fu ferita. Le bestemmie e le urla che seguirono fecero aprire tutte le porte per un secondo, e le fecero richiudere frettolosamente. L'uomo guardò la donna che gridava spalancare una bocca enorme, strabuzzare gli occhi, cercare di vomitare e piangere senza riuscirci. Si lisciò la mano sinistra come se fosse stata fatta a brandelli e scese tra urla e bestemmie. La siringa rimase al suo posto. L'uomo prese le chiavi e aprì la porta del suo ufficio. Nel richiuderla dietro di sé avvertì uno scalpiccio in salita e delle voci sommesse. Qualcuno si fermò dietro la sua porta chiusa, dinanzi alla balaustra con la siringa infissa. Dal buco dello spioncino vide uomini in divisa color limone. Quando furono andati via l'ago era ancora sistemato tra il legno scuro del corrimano.
Il mattino passava lento. In quel periodo dell'anno il lavoro subiva un arresto. Era così ogni volta a fine maggio. Molti erano già in vacanza, approfittando dei prezzi più bassi e del tempo sempre buono. Ma il caldo afoso di quegli ultimi giorni stava trasformandosi improvvisamente in un temporale estivo. Un vento caldo si alzò dalle zone più basse della città portando con sé sudore e polvere. Entrò nella stanza attraverso le finestre aperte e l'uomo nel respirare si sentì soffocare. Andò a chiudere i vetri. Festoni di plastica azzurri, abbarbicati ai palazzi come liane, si agitavano col soffiare del vento. E frusciavano e borbottavano e cantavano. Uno, staccatosi dall'edificio di fronte, si contorse per un secondo, si mise in una corrente d'aria e prese il volo. L'uomo lo vide sollevarsi in alto a fatica, come tirato da un filo invisibile che lo costringeva a sballonzolare contro i muri delle case. Terminò la corsa contro la finestra della sua camera. Con un urto e un boato sprofondò nella strada. Tutta la via, per quello che era concesso all'uomo di scorgere, fremeva di palpiti azzurri. I festoni si incrociavano, facevano nodi e risalivano. Ricoprivano la strada. E il vento li faceva cantare.
La pioggia non venne. Non sarebbe servita a molto, ma avrebbe lavato l'aria per un po'. Così, invece, restava bassa e irrespirabile. L'uomo mangiò un panino e bevve acqua dello Stato. Non amava tornare a casa per pranzo. Era solo. E andare per strada non era piacevole. Il resto del pomeriggio trascorse tra l'osservazione dei festoni, annotando quanti si erano staccati parzialmente e avevano cominciato a sbattere contro persone e cose giù nella strada, e quanti altri avevano preso il volo guadagnando la libertà. Molto pochi questi ultimi.
Giunsero le cinque. Dette un ultimo sguardo ai nastri azzurri. Alcuni uomini in divisa ne stavano staccando uno in posizione pericolosa. Quando uscì la punta dell'ago occhieggiava dalla fessura del corrimano. Mise istintivamente i pugni in tasca.
Nello scendere le scale fu investito alle spalle da una folata di aria tiepida che lo superò, sbattendogli contro, disfacendosi in sbuffi grigiastri. Il palazzo aveva due entrate. Una in basso nella via di centro, elegante, e l'altra sulla collina. Due portoni, due numeri civici, due vie di fuga. Il vento aveva imboccata la porta in alto, si era infilato e si era precipitato per le scale in discesa come un qualsiasi viandante. Sugli ultimi scalini fu aggredito da una ventata che saliva, entrata dal portone in basso. Ma quando fu sulla strada il vento era calato. Neanche più un filo. I festoni azzurri apparivano flosci, immobili, senza vita. E tutto intorno taceva. L'uomo odiava quel momento, l'attimo in cui iniziava il viaggio di ritorno a casa. Una volta cominciato il resto andava da sé, ma il pensiero del viaggio lo infastidiva. La strada viscida, i visi degli altri sempre seri, inalterati nelle loro diverse infelicità, le loro voci petulanti, i loro odori di sporco, le loro parole insipide senza colore, il loro spavento ben celato in fondo agli occhi e la consapevolezza rabbiosa di essere come loro, assolutamente identico: viso, odore, terrore.
Improvvisa tornò la stretta allo stomaco. Era colpa dell'aria aperta, della strada, fintanto che stava al chiuso tutto andava bene, ma appena usciva, l'aria calda, la testa, lo stomaco... la strada... la strada... la strada. Pensò che stava per svenire, un vecchio gli passò accanto e mormorò "Eccone un altro, dov'è la squadra di disintossicazione? Quando ce n'è bisogno non si fa vedere, che schifo!". Era già sparito quando l'uomo decise di non svenire, di farsi forza e affrontare il ritorno come ogni sera, senza mettersi nei guai con la squadra in giallo limone.
Nell'autobus, stremato dal mal di stomaco l'uomo non si avvide che qualcuno gli frugava nelle tasche di dietro del pantalone. Non portava mai nulla in quelle tasche.
Gli sguardi dei passeggeri cominciarono a fremere, rotearono dall'uno all'altro, sbirciarono alle loro spalle, guardarono il vicino, stringendosi addosso le giacche, scrutarono i movimenti degli altri e si fissarono in un punto lontano. Furono interrotte di colpo le stupide chiacchiere sul colore dell'acqua, sull'insopportabile calore venuto in anticipo quest'anno e su quanti altri morti di droga ci saranno prima che lo Stato riesca a disintossicarli tutti. Ci fu il silenzio. Lo stesso pesante, gelido, colpevole silenzio del mattino. E l'uomo si ritrovò con la mano dell'altro che tentava la tasca della giacca. Lo guardò e la mano si dissolse in qualche altro posto. Non c'era rabbia in lui, era proprio come tutti gli altri, ormai. Lasciava che la vita fluisse al meglio possibile. Che gli altri non si accorgessero troppo di lui, che il benessere fosse assicurato, che il lavoro non fosse pesante, che la sua casa fosse accogliente. Era tutto ciò che si poteva volere. Ma questo sgomento alla bocca dello stomaco non riusciva a capirlo. Questa era la sua vita, e lo era da abbastanza anni da essercisi abituato. C'era di peggio. C'erano stati suoi amici morti per droga, altri condotti nei Centri di Disintossicazione e mai più rivisti, altri ancora fuggiti in cerca di lavoro. Si sentiva un privilegiato a cui il dolore fisico toglieva il gusto del proprio privilegio. Un ingrato, ecco cos'era! Un ingrato.

 

Il mattino seguente l'uomo si svegliò alle sette, come ogni giorno. Aveva dormito sonni agitati come ogni notte. Questa volta, però, vi si era aggiunto un dolore sommesso, perpetuo allo stomaco. Non aveva sogni da ricordare anche stavolta, eppure sognare era stato uno dei più dolci passatempi della fanciullezza. Si riproponeva ogni sera di ricordare ciò che affollava il sonno. Ma la memoria dei sogni sembrava far parte delle gioie dell'infanzia. Eppure c'era stato qualcosa, sì adesso ne aveva un esile ricordo. Un rumore, un rumore silente, ovattato come di nebbia. Uno scalpiccio, un correre leggero di molti piedi. Il tocco sulla parete di una mano, no! di un pugno. Una nocca su di una porta. Trambusto, disordine, urla soffocate, sbattere di usci, vetri infranti: qualcuno in lotta. Si avvide allora che non era stato un sogno. Per Dio! Erano arrivati gli uomini dell'S.D.D. Avevano preso qualcuno e lo avevano trascinato via. C'era stato un rumore soffuso come di un pesante tappeto tirato a forza. Chi mai poteva essere la "vittima", il "fortunato" piuttosto, che erano venuti a salvare? Difficile a dirsi, avevano tutti gli stessi sguardi spenti, tutti la stessa pelle cerea, tutti la stessa aria stanca. Non ci si distingueva più l'uno dall'altro. Drogati e sani apparivano ugualmente ammalati. Il suo vicino aveva l'aspetto di una persona normale. Magro come tutti, solitario come tutti, silenzioso come tutti. La signora del piano di sopra era una casalinga come qualsiasi altra, aveva un marito che lavorava tutto il giorno e due figli piccoli. La ragazza accanto, che viveva con i nonni, era impiegata e non la si vedeva mai. Forse faceva due turni di lavoro per guadagnare qualcosa in più. Dove poteva trovarlo, lei, il danaro per la droga? Mentre pensava non aveva smesso di prepararsi per uscire. Il caffè era nella caffettiera. Fumava. Se l'era versato in una gran tazza e lo stava sorseggiando mentre spostava i passi da una stanza all'altra. Era pessimo quel caffè! Aveva dovuto farlo con l'acqua frizzante, era finita quella naturale. Un caffè così era meglio non berlo. Lo bevve lo stesso per svegliarsi. Lo stomaco ebbe una contrazione violenta. Inutile ripetere il rito stolido del lavaggio. Neanche aprì il rubinetto. Usò delle salviette profumate per nettarsi ascelle, piedi, genitali, ano compreso, mani e faccia, orecchie comprese. Per farsi la barba usò il suo vecchio rasoio elettrico. Intanto cercava di ricordare, di mettere insieme elementi spuri, distanti, minimi. Cosa accadeva ai drogati che venivano disintossicati? Spesso cambiavano città, era presumibile, visto che non tornavano. Altre volte la loro infermità peggiorava, a sentire chi ne conosceva qualcuno. Che cosa strana e misteriosa, si disse l'uomo. E dimenticò l'accaduto perché erano le otto e doveva uscire di casa.

Aperto l'uscio si avvide immediatamente che la porta della casa accanto era spalancata, ne entravano e uscivano persone come ad una veglia funebre. Tutti in silenzio, trascinavano i piedi, avevano un' espressione di terrore. Entrò per vedere e vide. Il suo vicino era steso sul letto. Gli occhi sbarrati, arrossati, incapaci di discernere, un sottile rivolo di bava, quasi invisibile, all'angolo della bocca semichiusa. Non gli era parso mai così malato. Non riusciva a capire perché lo avessero lasciato lì, finché non si accorse di una donna seduta accanto al letto. Aveva l'aria di una operatrice statale o di una infermiera. Non era certo una sua parente. Le mancava quel lieve palpito di pietà, sentito o simulato, che un parente anche lontano ama esternare. Era fredda, indifferente, con un malcelato guizzo d'odio nello sguardo. Segaligna, un corpo androgino ma senza fascino, una bocca diritta senza labbra, oscena come una ferita rimarginata. La stanza grigia, con pareti grige e mobili grigi e finestre grige, quella donna dalle labbra ghignanti, l'infermo dallo sguardo senza occhi furono troppo per l'uomo. In un attimo fu in istrada e in breve tempo alla fermata dell'autobus. Vi salì e non riuscì ad ascoltare le vecchie solite chiacchiere, che lo avrebbero rassicurato. Si sforzò di sentire ma il volto del drogato, le labbra della donna e le sue mani incrociate sul grembo, gli impedivano qualsiasi altro pensiero. Le mani della donna senza anelli, mascoline, forti le aveva dimenticate ed ora riapparivano insistentemente. Sentiva che tutto in quella persona era ostile e nemico. Ed ebbe la percezione viva che bisognava fare qualcosa. Lui fare qualcosa? Ma era pazzo? Cosa c'entrava con tutto quell'oscuro arrabattarsi? Ricordò il suo vicino di casa. Non lo aveva mai visto fermarsi in istrada insieme a chi vendeva droga. Eppure ce n'era ad ogni passo. Fermi, appoggiati alla portiera di una macchina in sosta, l'aria di chi aspetta qualcuno e fuma una sigaretta, ben vestiti e rasati sin dalle sei di mattina e fino a notte fonda. Soltanto nella sua via ce n'erano più di dieci gruppetti, riconoscibili, ben in vista, sospettatissimi.

Erano lì un mese, venivano presi e tornavano il giorno successivo, allo stesso posto, al loro commercio abituale. Poi tornavano in galera per un giorno. E avanti e indietro il viavai degli acquirenti, come un corteo ad un funerale, le stesse facce stravolte, gli stessi occhi arrossati, lo stesso affanno e la stessa sofferenza. Di diverso l'assenza di un piccolo e composto atteggiamento pietoso che si addice ad un funerale. E niente lacrime. Forse, concluse, se lo procurava altrove. Era terreo, scarno, sgomento come chiunque in questa città. L'aria era più maleodorante del solito quando scese dall'autobus, una mistura spessa e disgustosa che colpiva allo stomaco con fitte di dolore e nausee. Un vero e proprio emetico era l'aria. Sì, pensò, il suo vicino aveva un volto terreo, scarno e sgomento come tutti: scarno per il cibo e l'acqua, terreo per l'aria e sgomento per la paura. Era sceso molto distante dal luogo di lavoro, ma non resisteva più chiuso dentro quell'angusto abitacolo. Una lieve sensazione di claustrofobia. Erano anni che non la provava. I festoni erano ancora tutti per strada. Nulla veniva mai rimosso. Ma il vento era del tutto calato. Alcuni festoni erano semplicemente afflosciati su se stessi, senza più vita: l'azzurro divenuto color polvere. Adocchiò due ragazzi su di una moto e capì cosa avevano in mente. Si avvicinò ad una vecchia donna e le bisbigliò all'orecchio di stare attenta. L'altra lo guardò in viso, lui era già andato avanti, si fermò e continuò a guardarlo con occhi di odio, furenti. "Che vuole questo?" sbraitò ad alta voce. Ma i ragazzi avevano scelto una vittima migliore ed erano passati oltre. Si meravigliò del suo gesto. Mai prima. Mai l'avrebbe fatto prima. Il suo sgomento aumentò. Filò via. Verso il portone del suo ufficio. Le scale, la porta, quei poggiamani lerci. Ancora la voglia di dare di stomaco, la puzza del suo corpo mal lavato, lo sguardo del vicino e la bocca della donna. Meglio dimenticare tutto e mettersi al lavoro. L'ago era ancora lì. Macchiato di sangue. Qualcuno ci aveva poggiato sopra una mano e se l'era infilzata. Gocce sul pianerottolo. Entrò nel suo ufficio e vomitò il caffè, in grumi marroncini, sul pavimento dell'entrata.
Non toccò cibo per il resto del giorno. Credette così di placare la nausea. Che non diminuì. Cosa mai gli era preso? Avvicinare una vecchia per avvertirla di un furto, forse madre o nonna dei ladri. Doveva essere impazzito. La regola voleva che ciascuno badasse a se stesso. E questo era tutto. Guardò fuori. La giornata stava lentamente declinando. Per le strade, rare persone, nel caldo. La città spopolava. Fu contento di essere al sicuro, pensò, e rimase terrorizzato da quel pensiero. Al sicuro. Lì da solo in ufficio. Al sicuro. Che cosa significava? Guardò di nuovo in strada; i festoni azzurro polvere, fermi lungo i muri, pendevano come lenzuola annodate da evasi in fuga. La gente ha volti scarni, si disse, ed orbite vuote. Come evasi morenti si aggira per sordide vie. Non voleva tornare a casa. Pensò quando giunsero le cinque. Non poteva tornare a casa. Lì si sentiva al sicuro. Fu la fame a stanarlo.

 

Erano gli ultimi giorni di maggio. Un maggio pieno d'afa. La città poco a poco si svuotava. La sera calava un fumo nero sulle strade: pulviscolo palpabile, grigiognolo degli scarichi di mille automobili. E un tanfo persistente scendeva, lento come un bradipo. L'uomo, attardatosi in ufficio, si accorse che erano le sette, perché ebbe fame. Ma l'idea di tornare a casa lo atterrì. Quel luogo gli era divenuto ostile. Voleva dimenticare il suo vicino e la donna che lo sorvegliava. Abbuiò presto. Nessun tramonto colorò il cielo. Il buio precipitò. I negozi erano serrati. Un bar, una banca, una vetrina di abiti per l'infanzia. Uno dietro l'altro, chiusi. Facce grigioverdi, rarissime, gli sfrecciavano intorno. La gente, a quell'ora della sera, scivolava veloce lungo i muri. Nel camminare lontano da casa, si chiedeva cosa erano stati quei festoni azzurri, a cosa erano serviti. Una gran festa. Ma era stato molti mesi addietro. In un vicolo alcuni ragazzi si agitavano sul corpo di una donna, li scorse di sfuggita mentre la denudavano per rubarle il denaro che aveva nascosto nel reggiseno. I seni sciolti, enormi, lattiginosi, ballonzolarono flosci.
Seduto ad un tavolo di una pizzeria deserta si sentì meglio. Il pizzaiolo cominciò subito a far conversazione. C'era stato un tempo in cui la pasta, lavorata a mano con acqua di fonte, aveva una consistenza leggera ed elastica ed un sapore di paradiso. La cottura nel forno a legna, poi, dava al tutto un profumo inimmaginabile. Non se ne ricordava affatto e forse non era mai stato vero. Anche così, fragrante, quasi biscottata, un po' bruciacchiata ai margini, ricoperta di ogni ben di Dio, anche così gli sembrava la cosa più buona della terra. Ne mangiò due, di media grandezza. Bevve della birra analcolica. Capì che era possibile essere felice. Si beava di quello strano senso di riposo in cui penetravano appena le parole del pizzaiolo. Questi, grato all'uomo, raccontava sommessamente dei bei tempi in cui si beveva vino rosso, e birra alcoolica, scura, profumata. Questo era prima che lo Stato abolisse tutti i tipi di droga, alcool e tabacco compresi. L'uomo ascoltava appena parlare delle Squadre per la Disintossicazione dalla Droga, i famigerati SDD che nessuno amava. Ma non provava nessun interesse a quello che il vecchio pizzaiolo andava dicendo. Smise del tutto di ascoltarlo. Gli giungevano lievi, soavi frasi, come rallentate da un tempo incommensurabile. Lontane, "...e la droga è in aumento, credete a me!", lontane le parole inascoltate, sempre più lontane, insensibili alla sua coscienza. "...vuol dire piuttosto...per la Diffusione della droga...Una mandria di pecore cieche... il Sabato sera...le Squadre...li ho visti io...ammazzato uno.. Le SDD, fanno paura!" Improvviso il vociare si placò. E l'uomo si sentì obbligato ad annuire per cortesia come se avesse ascoltato ciò che l'altro aveva appena detto. Finì, estatico, di sorseggiare la sua birra. Masticò l' ultimo pezzo di pizza bruciacchiato. Si sentì bene, non temette più il ritorno a casa. Eppure non ne ebbe voglia. Decise di andare al cinema. Pagò il conto. Il pizzaiolo lo vide uscire un po' barcollando e si pentì di aver parlato con lui. Quell'uomo era intossicato come tutti in quella lurida città, pensò e si affrettò a chiudere bottega.
Era passato tanto tempo dall'ultima volta che era stato al cinema. Vi entrò con allegria. Non guardò nemmeno i manifesti, tanto era tutta pornografia. Non si proiettava altro. Dentro intravide al buio tre o quattro persone. Occupò un posto isolato e si preparò a godersi la serata. Non gli erano mai piaciuti quei film. Ma volle tentare ancora una volta. Alla fine  dello spettacolo era ricomparso, ferocemente, il mal di stomaco. Restituì le due pizze bruciacchiate nel cesso del cinema. La fica della donna sullo schermo si era trasformata nella bocca della virago dalle mani ossute che custodiva il suo vicino di casa. Quei corpi (quanti ne erano? a metà film aveva perso il conto) che si dimenavano: lingue, cazzi, fiche, mani, gambe, culi, dita, occhi, sperma. Corpi aperti di un rosso sangue, visi gialli, membra biancastre. E tutto quel sospirare, ansare, strabuzzare, penetrare, gorgogliare, palpitare. Tutto quell'ansimare infelice. E ancora sperma, triste crudele osceno sperma biancolatte. Anche la birra vomitò in quel cesso. Gli era tornata la paura. Paura. Paura di quei corpi senza gioia che si dimenavano spaventati. Neanche più il desiderio di carezzare un seno. Col capezzolo rivolto all'insù, così lieto, e spensierato e gioioso. Neppure più la voglia...Che cosa era accaduto? Insomma che era successo? Andava tutto per il meglio. Cavolo! si ripeté. Che stupida vita di merda. Non era di quelli che amavano il turpiloquio. Adesso, fuori dal cinema, si sentì stringere lo stomaco. Non capiva se era fame o nausea. Cercò un altro ristorante. Non sarebbe tornato a casa fino a che il terrore non si fosse di nuovo dissolto. Questa volta la ricerca gli prese più tempo. Era notte fonda.

Quando giunse a casa, un'ora prima dell'alba, il cielo era bianchiccio. Davanti al cancello, una ragazza parlottava con il gruppo di uomini appoggiati a una macchina blu notte. Il biancore del viso dagli occhi inespressivi, le mani esangui era lì a pregare, a promettere, a chiedere per pietà qualcosa in cambio di tutto. Era così bella, i tratti delicati, l'abito elegante, i movimenti armoniosi. Prometteva meraviglie, elargiva particolari, mimando l'oscenità di gesti amorosi. I venditori la toccavano, le alzavano la gonna di stoffa costosa. Ridevano con bocche vuote. L'uomo le passò accanto, attraversò il cancello, percorse l'androne, salì su per le scale. Si fermò davanti la sua porta. Esausto. Non volse lo sguardo verso destra. Qualunque cosa fosse accaduta al suo vicino voleva ignorarla. Era deciso a vivere la sua vita. Ora sarebbe andato dritto in cucina a prendere una pillola per il mal di stomaco e poi a letto, a dormire per tre o quattro ore di filato. Mise la chiave nella toppa. Non apriva. La guardò da vicino, ne palpò le scanalature. Riprovò. Questa volta la porta si aprì a fatica. Non era mai stato difficile aprire con quelle chiavi. Subito s'accorse, entrando, che qualcosa era fuori posto. Un odore acre, pungente di cesso intasato. Un nauseante odore di fogna. Si diresse verso la stanza da bagno, la porta era spalancata. Era certo di averla chiusa. Lo faceva ogni mattina prima di uscire. Il bagno esalava quel puzzo per tutto il giorno.

Erano le fogne della città che respiravano. Lui teneva la porta sbarrata. Si avvide che il coperchio del cesso era sollevato, altra cosa inusuale. Qualcuno era venuto a pisciare nel suo bagno. Ma questo non aveva senso! Entrare in una casa di nascosto per infilarsi nel cesso a pisciare. Senza tirare lo sciacquone, per giunta. La porta di casa appariva intatta. Solo un piccolissimo segno, come un graffio, all'altezza della serratura. Era stata forzata, ma così bene!. Ecco perché la chiave funzionava male. Sentì un trambusto nella casa affianco, proprio nel luogo da cui provenivano i suoni la notte prima. Pensò al vicino e alla sua carceriera senza labbra. Era un' agente delle Squadre? Ebbe paura. Una paura intensa. La stessa che aveva provato per tutto il giorno. Che gli stringeva lo stomaco come una premonizione di catastrofe. Richiuse l'uscio con un movimento lieve, impalpabile. Restò in ascolto. Sentì dei passi che si avvicinavano. Percepì una presenza alla sua destra. Sulla porta della casa accanto. Forse la donna. Spense la luce, per istinto. Attraversò il breve corridoio fino alla stanza da letto. Dava sul cortile interno del caseggiato di fianco. Saltò fuori, l'aria sapeva di azzurro sporco, ma non uscì dal cancello. Si arrampicò su un balcone che guardava di faccia la sua finestra. Si rannicchiò dietro un mucchio di oggetti smessi. Tavoli per l'estate, sedie a sdraio, ombrelloni. Tremava. Dentro, la casa, era deserta di suoni. Erano in villeggiatura. Fuori le vecchie cose abbandonate lo celavano alla vista. Restò immobile, guardandosi intorno. Nelle sue stanze uomini in divisa giallo limone si mossero convulsi. Si aggirarono tra il letto e la poltrona, tra l'armadio e la finestra. Una casa scarna, quasi nuda. Non dava possibilità di riparo ad un fuggiasco. Non una mano a sopravvivere. Così comune, così angusta, così impersonale e indifferente. Così evasiva. Vide divise giallo limone saltare dalla finestra giù nel cortiletto e uscire dal cancello sulla strada. Sentì le loro voci far domande ai venditori. Ebbero risposte incomplete. Nessuno guardava da quella parte. Lo credettero fuggito dalla via laterale. Forse era salvo! Salvo da che cosa? Perché quelli dell'SDD erano piombati in casa sua. Due volte! Lo avevano atteso tornare. Avevano spie negli occhi dei venditori. Nei loro sguardi sfuggenti, nei loro modi guardinghi. Nella volgarità dei loro volti. Era forse così? Ma perché mai lo cercavano. Non aveva mai fatto uso di droga. Mai bevuto né fumato. Era stato uno stupido, ridicolo cittadino modello. Per tutta la vita.

 

Rimase nascosto dietro il tavolo pieghevole su quel balcone in quel cortile per molte ore. Per poco non si addormentò. Quando fu pieno mattino seppe che era tempo di fuggire. A quell'ora il viavai dei clienti inebetiti era finito ed anche i venditori si concedevano una giusta pausa dal lavoro. Per il resto la gente non era propensa a curarsi degli altri. Scavalcò la balaustra, riassettò l'abito sgualcito di un giorno e s'incammino, calmo, verso il cancello. Lo attraversò e proseguì, pacatamente, in direzione della fermata dell'autobus. Voleva solo allontanarsi. Non sapeva dove andare. Gli amici erano scomparsi, perduti. Parenti non ne aveva o non li ricordava. Improvviso il pensiero del pizzaiolo della sera precedente s'insinuò nel suo cervello stanco. Aveva detto qualcosa di particolare che non ricordava. Peccato non averlo ascoltato con attenzione. Doveva tornarci e farsi ripetere tutto. Era l'ora di maggiore affollamento. La pizzeria era strapiena. Che differenza dal deserto della notte prima. Era arrivato lì stravolto. Si era aggiunto alla fatica di un viaggio in autobus maleodorante e colmo, il senso di terrore e precarietà di chi è in fuga. Scorse il pizzaiolo in fondo al lungo camerone. Era intento a far funzionare la macchina delle pizze. Le estraeva dalla impastatrice, già confezionate. Le condiva e le spingeva nel forno. Per tirarle fuori dopo pochi minuti, cotte a puntino. L'uomo gli si avvicinò. Lo prese per la manica e gli rivolse una domanda che suonò stupida "Ti ricordi di avermi parlato ieri sera?" L'altro, turbato, lo guardò. Solo un istante, si rivoltò verso la macchina, facendo un segnale al cameriere. Un piccolo strizzare d'occhi, un muovere di labbra e il cameriere prese l'uomo per le spalle e, chiedendogli se avesse intenzione di pranzare, lo trascinò verso la porta. "Devo parlargli. E' importante" continuava mentre veniva spinto fuori. "Solo se deve mangiare. Insomma non vede che abbiamo da fare!"  Fu buttato in strada.

L'aveva riconosciuto, ne era certo, ma non si era fidato. Lo aveva guardato e aveva pensato che fosse una spia, un poliziotto, un drogato, un idiota. Si sedette sui gradini di una chiesa imponente, magnifica. Doveva ricordare. Riflettere. Che cosa era tutto quel terrore? E perché lo aveva ignorato fino ad allora? Perché le Squadre per la Disintossicazione dalla Droga non erano mai entrate nella sua vita, fino ad allora. Chi erano quelle squadre e quale era il loro compito, si chiese. Cercò di ricordarne la storia. Erano state fondate otto o nove anni prima, subito dopo l'abolizione di tutte le droghe in uso. Per abbattere la vendita clandestina, che era divenuta esorbitante. Era dilagata, sommergendo tutto e tutti. Così lo Stato aveva provveduto creando un servizio di volontari. Loro compito era stanare i consumatori di sostanze tossiche e curarli fino a guarigione. Ricordò che un suo amico faceva parte del Corpo dei disintossicatori, ma non lo vedeva da anni. Aveva sempre provato orrore per quell'esercito di poliziotti speciali. Senza motivo. Pensò che il suo amico avrebbe potuto aiutarlo, che avrebbe saputo placare il suo terrore. Si accorse, nel cercare il numero di telefono, che aveva dimenticato il suo nome. Così continuò a camminare fino a che ricordò. Improvvisa la memoria aveva partorito un nome, venuto dal nulla, perdutosi, spentosi in un firmamento di oggetti inutilizzati. Gli telefonò. Era in casa. L'uomo balbettò frasi di scusa, di rimprovero, di affetto. L'amico parve imbarazzato ma non scontento. Lo invitò a passare da casa sua e gli dette l'indirizzo. Era poco lontano. Aveva camminato molto ma conosceva bene la città. Bussò ad un citofono annerito, giù nella strada, sperando di aver letto bene il nome tra tutti quei segni resi indecifrabili dalla polvere. Gli rispose una voce metallica che non riconobbe. Il portone di scatto si aprì, la voce urlò "secondo piano a destra". Scale bianche di marmo, un palazzo lussuoso in un quartiere residenziale. Ecco perché aderivano alle Squadre, malignò tra sé l'uomo, salendo a piedi. Detestava gli ascensori. L'amico, sulla porta aperta, scrutava la rampa di scale da cui l'altro giungeva. L'uomo alzò gli occhi e si trovò di faccia uno sconosciuto, un vecchio dagli occhi malati.  Solo quando si mosse e sorrise nel saluto, lo riconobbe. Qualcosa, un lieve guizzo di giovinezza in tutti quegli anni era rimasto lì, nascosto e riparato, tanto da poter riapparire improvviso. Lo accolse prendendolo sotto braccio. Entrarono in casa e la porta fu chiusa alle loro spalle.

C'era in quella casa, un odore, un che di lustro che meravigliava. Le stanze erano ben arredate, piante gigantesche, verdeggianti accanto alle finestre. Un divano spazioso, tappezzato di azzurro, gonfio di cuscini. Si sedettero. L'ospite prese due bottiglie di liquido scuro da un mobile chiuso a chiave e ne versò il contenuto in grossi boccali di vetro. Il sapore amaroasprigno della birra analcolica s'insinuò tra le labbra, per scorrere lungo la gola. Avrebbe preferito qualcosa di più dolce, ma non lo disse. Si guardarono un po' prima di parlare, sorseggiando birra e sorridendo estatici. Erano cambiati, invecchiati, induriti, lo sguardo spaventato. L'uomo seppe che l'altro era divorziato da anni, che ora viveva solo, che aveva cambiato lavoro. A questo punto fu facile chiedergli di quello precedente, delle SDD. Le risposte divennero improvvisamente evasive, incomplete, imbarazzate. Aveva dato le dimissioni anni prima perché il lavoro era pesante e mal retribuito. Insomma risposte banali a cui l'uomo non credette. Ma l'altro s'innervosì e cercò di cambiar discorso. "Si lavorava a tutte le ore e spesso i tossicomani erano pericolosi, aggressivi. Tentavano la fuga, la difesa con armi o persino il suicidio. Insomma un brutt'affare", fu ciò che ammise dopo molte pressioni. Ad un certo punto l'uomo tirò fuori la domanda che l'opprimeva: "Come fa la Squadra a sapere chi si droga, a riconoscere il malato tra tanti?". "Ci sono degli informatori nell'ambiente stesso dei venditori. Loro sanno chi va a comprare droga e, se vogliono vendicarsi di qualcuno, lo accusano. In cambio dei loro servizi vengono ripagati con l'impunità per un certo periodo di tempo. Poi ci sono i vicini che spiano.

E' tutto basato su una fitta trama di lettere anonime, spiate, delazioni. E' orribile ma utile." La loquacità dell'amico, così improvvisa e spontanea creò un ulteriore senso di disagio nell'uomo, invece di dissiparlo del tutto. Fu definitivamente certo che qualcosa non fosse sistemato al posto giusto. Qualcosa di poco convincente circa l'attività delle SDD. L'impressione che un mistero avvolgesse le azioni delle squadre. Odiava pensare che lo Stato e i venditori di droga collaborassero in qualche misura tra loro. Ma non lo confessò all'amico, diffidava di lui. Troppi soldi, una casa pulita e lussuosa, un eccessivo benessere. Da dove gli venivano? Nulla giustificava un tenore di vita così alto, rarissimo in quegli anni. Cercò di andarsene più di una volta, ma l'umor malinconico dell'amico glielo impedì. Alla fine lo lasciò solo senza alcun rimorso e corse giù dalle scale. La voce dell'altro che, come prima, gridava dall'alto "Ti raccomando fatti vedere, telefona!". Non avrebbe mai più avuto né voglia né coraggio sufficienti per incontrarlo. Era stato insopportabile. Una quantità di bugie, di giustificazioni, di menzogne. Che cosa aveva taciuto? Per Dio che cosa c'era da sapere che lui ignorava?. Era sera, quasi notte ormai. E non sapeva dove andare. Pensò al pizzaiolo, ma escluse l'idea di ritornarvi. Si avviò verso il suo ufficio. Forse lì avrebbe potuto riposare e raccogliere le idee. Calmare l'angoscia che cresceva, senza ragione, sempre più intollerabile. Attraversò la città a piedi, nascondendosi all'accostarsi di passi. Cercando di mettere ordine negli avvenimenti, si avvicinò all'edificio in cui da anni trascorreva molte ore della sua giornata. Inutile giornata, si disse. Immotivata, irragionevole. Nè donne, nè ricchezze, nè piaceri. Un andare avanti e indietro con fatica, sprecando ore e talento. Voglie e desideri. Un camminare  avanti e indietro. Trascinarsi, strisciare... Era arrivato. Furtivamente aprì il portone, entrò nell'androne angusto, salì le scale senza posare le mani sulla ringhiera. Davanti la porta dell'ufficio si fermò un attimo ad ascoltare. Nulla. Silenzi di anni e di giorni. Aprì con cura la porta. La richiuse piano. Non accese la luce, ma la stanza gli era così nota! Respirò: era al sicuro. Ecco di nuovo quel pensiero. Sentì un fruscio alla sua destra e come un' eco rispose un piccolo suono a sinistra . Pensò ai topi con sollievo. Ma il pensiero restò monco. Braccia, mani gli si avventarono contro afferrandolo. Lo tennero stretto, gli impedirono di gridare, di muoversi. Fu buttato a terra e trattenuto. La luce si accese: quattro uomini con le divise giallo limone delle Squadre per la Disintossicazione dalla Droga lo legarono con del fil di ferro. Che gli ferì i polsi. Fece per dire "Non sono drogato" ma si avvide che i poliziotti lo sapevano già. Gli chiusero la bocca con un bavaglio adesivo. Non poté più fiatare. Neanche pensare, o soffrire. Attese. Era come morto. Un animale. Un povero animale perduto. Solo i suoi occhi erano vigili. Videro la polvere bianca che veniva sciolta, una siringa estratta dalla tasca di una divisa. Un ago appuntito, avvitato al cannello trasparente, che aspirava con un morto sussurro la polvere liquida. Poi non riuscì a scorgere più nulla. L'uomo non sentì più nulla. L'enorme siringa era dentro la sua carne, conficcata nella vena del braccio. Iniettava lo strano liquido che faceva perdere i sensi. Non era molto doloroso. Quegli uomini erano abili. I sensi si dissolvevano, si allontanavano, si abbuiavano. L'ultima cosa che vide, prima di perdersi, fu la bocca senza labbra del poliziotto della squadra speciale al servizio dello Stato che teneva infisso l'ago nella sua vena. Lo irritò quel ghigno insensato.

 

 

Osare.
Avere il coraggio di andare contro corrente, di andare oltre, di valicare confini, di non fermarsi alla superficie. Non esiste una cultura alta ed una meno alta esiste solo la noia. Un gesto creativo senza vita, asfittico, pavido, furbo, conveniente è merda.
Laura Lambiase Profeta ha scritto di musica per “Laboratorio Musica” e “l’Unità”; ha descritto Napoli sul “Mattino” e sulla guida “dell’Espresso”; si è divertita su “Cosmopolitan”.