Numero 61 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

La funzione della Sardegna a favore dei paesi candidati UE
Come realtà territorialmente piccole ma ricche di cultura possano fare grandi cose

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di Aurelio Juri

 



L' esperienza della Slovenia

Il cosiddetto Mondo sviluppato, il nostro Mondo, quello che viviamo, conosciamo e tocchiamo in Europa, nella mia Slovenia, da voi in Italia, e altrove dove c'e condivisione di regole e standard, è trincerato da qualche anno, di certo dal crollo dell'americana »Lehman Brothers«, nella soluzione dei tanti problemi in cui si è impantanato e nella ricerca così di una via d'uscita dalla crisi economica che lo soffoca come di un modello di vita agiato almeno nella misura conosciuta prima dell'avvento della crisi.
E qualcuno paga il costo di questa trincea. I lavoratori, i ceti più umili, chi del proprio lavoro, quando ce l'ha, riesce a malapena a campare, i milioni di salariati, disoccupati e precari spesso e sempre più spesso relegati nella condizione di asservimento materiale e psicologico nei confronti del capitale, ovvero di chi ne è proprietario e che come tale ha la facoltà di disporre nel bene e nel male della loro sorte. Non esagera chi parla di schiavitù postmoderna.
Il malcontento si accumula. Sotto varie forme e in tanti bacini di fermentazione che poi esplodono o comunque si sfogano in scioperi parziali o generali, in proteste più o meno contenute, più o meno violente, in manifestazioni di ribellione e insurrezione contro la totale degradazione della dignità umana e contro la logica capitalista più gretta che nel perseguimento delle vie al guadagno non conosce compromessi, costi quanto costi.

 

 

Ma a questo nostro Mondo è successo e sta succedendo qualcosa che pochi, almeno nelle dimensioni degli accadimenti, erano capaci di prevedere. E' successa la Tunisia, è successo l' Egitto, si sono infiammati gli animi anche altrove nel nord d'Africa e nel Medio Oriente e il culmine pare consumarsi in Libia col cui regime i nostri governi hanno sempre operato coi guanti. Per Moammar Gadhafi ben si sapeva che era una bomba a tempo, ma ciò non ci dissuadeva dal combinare affari con lui, anche d'armi, le stesse con le quali si è scatenato contro il proprio popolo. Le vittime si contano a migliaia, lo stato è oramai in piena crisi umanitaria, sull'Europa pesa la minaccia di un esodo di profughi dalla Libia e dalle altre coste nord-africane di dimensioni che il vostro ministro degli esteri, Frattini, già pronostica bibliche.
La più esposta e vulnerabile su questo fronte come su quello generale dei cambiamenti in corso è indubbiamente l'Italia, perché geograficamente più vicina e perché legata soprattutto alla Libia per storia, infrastrutture e dipendenza energetica.
Ma neppure la Slovenia potrà sottrarsi alle conseguenze di questo sisma e ai compiti che le si imporranno, per dovere umanitario, politico, istituzionale, se vogliamo, e rispetto a tanto – apro una parentesi – fa ridere e pena allo stesso tempo sentire in casa mia le contestazioni e le polemiche che la disponibilità manifestata dal nostro premier agli Stati Uniti ad accogliere uno o due prigionieri di Guantanamo, ha scatenato. Parentesi chiusa.
Siamo testimoni dunque di mutamenti epocali irreversibili nel nord Africa, come annota lo storico inglese Timothy Garton Ash, grande studioso di rivoluzioni contemporanee, che non potranno lasciare indifferente e illeso, comunque vadano le cose, il dirimpettaio europeo, il quale dovrà a sua volta ridisegnare la propria politica verso questa parte del mondo, cui ha sempre guardato, fin dai tempi del colonialismo più spudorato, come ad un proprio bacino di sfruttamento e guadagno – petrolio, gas, altre risorse e materie prime.
Per quanto in Libia scorra ancora sangue e Gadhafi, sordo a tutti i richiami internazionali, inciti alla guerra civile e mobiliti mercenari d'ogni parte contro il proprio popolo, e neanche altrove nei paesi della ribellione la situazione si sia ancora stabilizzata, nè la rivoluzione si sia ancora realizzata  – precisa Garton Ash - c'è da augurarsi che il processo di democratizzazione innescato dai siti Facebook e Twitter e ripreso poi dalle piazze vada a buon fine, dia nuovo coraggio, nuove speranze, nuovi orizzonti di crescita a questi popoli.
Ma pure in questo caso - perché è legittimo aspettarsi di tutto dall'evolversi della situazione, anche un mero ricambio di oligarchie, più o meno accettabili per l'Occidente -, pure nel caso il paventato esodo non si verifichi, o sia contenuto, per l'Unione Europea il Mediterraneo non sarà più quello di prima. Diverrà comunque uno spazio di vita, relazioni sociali, politiche, economiche e culturali diverso, che invocherà nuove regole di collaborazione e partenariato. Ovviamente su principi di maggior equità e mutuo rispetto.
Sono d' accordo col professor Porcasi quando afferma in un recente articolo, che »sull'Europa si scatenano le conseguenze della propria assenza nello scenario internazionale e soprattutto nell'area della prossimità«, dove non stanno – l' autore mi consenta di aggiungere – solo i nuovi aspiranti all'Unione Europea, ma l'intero »Mare nostrum«, Libia ed Egitto compresi.
Neanche questa insurrezione l'ha trovata pronta e reattiva. A Bruxelles come nelle altre  capitali europee ci si è mossi lenti, in maniera confusa, anemica, ambigua, persino contraddittoria. Parigi si è posta, insorta la Tunisia, addirittura dalla parte del dittatore Ben Ali, poi riparato all'estero e deceduto. Il primo commento dell'Alto rappresentante per la politica estera, signora Ashton, è stato un non saper che pesci pigliare: »Pieno sostegno si alle rivendicazioni democratiche e al ripristino dei diritti umani e delle libertà civili, ma prima ancora l'Unione vuole stabilità e prevedibilità«.
Ci è voluta la Libia, ci è voluto Gadhafi, ci son voluti i bombardamenti dei suoi caccia sui manifestanti a Bengasi e Tripoli perché l' UE si desse una mossa e correggesse il tiro.
E questa contumacia, questo attendismo, questo voler sentire prima l'amico d'oltre Atlantico, questo non volersi schierare con chiarezza e da subito a difesa degli stessi valori e principi sui quali è sorta e coi quali motiva così la propria esistenza come il proprio ruolo, questo preoccuparsi solo che l'immigrazione d'oltre mare non si estenda e che non si perdano petrolio e gas, rischiano di castigarla, l' Europa.
Nel diffuso malcontento per la crisi economica e sociale che perdura nonostante i segnali, in verità ancor timidi, di recupero, le masse di immigrati del Magreb con in testa i giovani intellettuali insorti alle dittature di casa, che già si trovano nei paesi dell'UE, e l'opinione pubblica europea ancora votata ai principi della giustizia sociale, della solidarietà, ai valori democratici, potrebbero divenire un miscuglio esplosivo anche nelle piazze d' Europa.
Nella vicina Croazia, l'impopolarità del governo già si manifesta nelle piazze, in modo anche violento. Parecchi feriti e contusi negli scontri fra polizia e dimostranti, sordi quest'ultimi  agli appelli della premier Kosor a mantenere la calma, pena possibili complicazioni circa i termini di ingresso nell'Unione Europea, oramai ad un tiro odi schioppo. Non sorprenda: la crisi economica è profonda, il tasso di disoccupazione supera il 15%, il governo oltre a promettere l'UE non trova altro che convinca e rassicuri il popolo e poi a cogliere l'occasione per soffiare su fuoco è la destra estrema, ovviamente antieuropea.
Tornando al discorso più compiutamente europeo non va trascurato un altro elemento di apprensione: la proclamazione del fallimento del modello multiculturale della società europea  da parte dei leader della destra che presiedono anche ai governi più importanti - Merkel, Sarkozy e Cameron. E quando si arriva a tanto e si cercano di erigere nuovi pregiudizi e barriere nei confronti della prossimità – come la chiama Porcasi - si può passare il limite,per agire tanto della destra, incoraggiata e legittimata nella sua avversione dei diversi, quanto della sinistra, offesa e ferita nel proprio credo.
Mi scuso se mi accosto solo adesso al tema del nostro incontro, ovvero alla funzione della Sardegna a favore dei paesi candidati all'UE, ma era impossibile non collocarlo, visto soprattutto il ruolo di centralità mediterranea dell'isola-regione, nel contesto teste' descritto e ancora in piena evoluzione.
Ecco, di quale sia questa funzione non ne sono sufficientemente erudito, ma so cosa significa essere cerniera fra mondi diversi. Lo è anche il mio paese, la Slovenia, per altro un tantino più piccola della Sardegna, ma parimenti ricca di bellezze naturali, di storia e di cultura e non di meno, di ruolo internazionale.
Terra di incontro e confronto, che fu ovviamente anche di scontro, fra tre grandi culture europee: germanica, romanica e slava, e di congiunzione fra Mittel Europa e Balcani, è stata la prima fra le 6 repubbliche della  Jugoslavia socialista  ad acquisire l'indipendenza e l'unica finora ad aver aderito a pieno titolo all'Unione Europea, all'area Schengen e all'Euro.
Una realtà  di 2 milioni di anime, plurietnica, anche costituzionalmente, fatta di: popolo sloveno, comunità nazionali autoctone (italiana, ungherese), Rom e cittadini di altri popoli ed etnie dell'ex federazione.  Tutti, sloveni e non,  esplicitamente menzionati nella Costituzione e tutelati anche negli  specifici diritti nazionali, chi individualmente, chi come collettività.
E se anche da noi volessimo esprimerci come i la signora Merkel e i signori Sarkozy e Cameron, ovvero proclamare il fallimento del multiculturalismo, diremmo una balla. Si, tentazioni in questo senso, resistenze xenofobe, razziste e nazionaliste nei confronti dei non sloveni, siano essi minoranze più o meno radicate, o immigrati più o meno recenti, o prigionieri di Guantanamo e quant'altro, ci sono, ma c'è tutta una storia di convivenza plurietnica, come dicevo, fra mondo latino, germanico e slavo, che non si può sradicare.
Eleggere un sindaco di nazionalità italiana sulla costa,  a Capodistria, Isola e Pirano, dove gli Italiani viviamo da sempre, ma non contiamo neanche il 2% della popolazione, non è stranezza. Neanche la scelta di un sindaco di origine africana, di colore, come avvenuto alle ultime amministrative a Pirano. E anzi, c'è stata una levata di scudi ad una sparata razzista nei suoi confronti da parte di un personaggio dal quale per storia vissuta, levatura culturale, prestigio internazionale, ci si sarebbe aspettato tutt'altro. Parlo dello scrittore sloveno di Trieste, autore di un romanzo che si è letto molto ultimamente anche in Italia, »Necropoli«, Boris Pahor.
Quindi, così come la Slovenia, anche la Sardegna, in virtù della sua storia e della sua collocazione geografica, in questo caso al centro del Mediterraneo e dei suoi flussi culturali, ha tutti i presupposti per dire NO a chi pure da voi, in Italia – vedi l'onorevole Isabella Bertolini del PdL - vorrebbe dichiarato fallito, impraticabile e addirittura deleterio il multiculturalismo, e intavolando quanti più esempi pratici di integrazione e inclusione sociale onnicomprensiva,  riaffermare i valori della solidarietà, della giustizia sociale, delle pari opportunità, del dialogo e del rispetto della dignità umana.
Oltre a questo, ove possibile, cercare, ideare e offrire opportunità  di cooperazione, che possano per altro cogliere i finanziamenti europei, a realtà locali e regionali nei Paesi candidati all'UE (la Croazia, come dicevo, è nella dirittura di arrivo, ma ci sono la Serbia, il Montenegro, la Macedonia e mi auguro quanto prima anche la Bosnia-Erzegovina, il Kossovo e l'Albania) con le quali il quasi Paradiso di Maurizio de Andrè trovi affinità e interessi comuni.

 

 

Aurelio Juri, 61 anni, nativo di Pola in Croazia, residente fin da piccolo a Capodistria in Slovenia. Appartenente alla comunità nazionale italiana, sposato con due figli. 
Di professione giornalista - 19 anni nei programmi informativi in lingua italiana a Radio e TV Koper-Capodistria. Entrato nel 1973 nella Lega dei comunisti, seguendo un po' le orme del padre Vittorio, comunista e partigiano, contribuì attivamente nel 1990 al processo di democratizzazione e indipendenza del paese e alla trasformazione del partito in socialdemocratico. 8 anni sindaco di Capodistria, negli anni della transizione al sistema pluripartitico e della guerra di indipendenza, e successivamente parlamentare nazionale (12 anni, ovvero 3 legislature) ed europeo (supplenza di 1 anno in sostituzione del presidente del governo Borut Pahor). Impegnato soprattutto sui temi della politica internazionale, dei diritti umani e delle minoranze nazionali, della convivenza, del buon vicinato, della multiculturalità nonché su quelli ambientali, pacifisti e della democrazia locale.
Per 5 anni membro del Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d'Europa e per 8 anni membro della Presidenza del Forum parlamentare europeo Habitat.
Ritiratosi dalla politica attiva nel 2009,a conclusione del mandato a Bruxelles, per divergenze col partito sul contenzioso frontaliero fra Slovenia e Croazia, ovvero per aver osteggiato apertamente il blocco posto dalla Slovenia ai negoziati della Croazia di adesione all'UE.
Da allora in pensione. Continuano la tradizione parlamentare il figlio Luka e il fratello Franco.