Numero 63 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

Gentilezza
Dal clima aziendale al cambiamento

di Paolo Cervari ed Adelio Schieroni

 


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Alcuni mesi fa, per la precisione il 13 novembre 2010 molti giornali e siti di informazione on line hanno dato risalto ad un “avvenimento” particolare: la giornata mondiale della Gentilezza.
Psychologies Magazine, ispirata dal World Kindness Day, ha lanciato in Francia per la prima volta questa “giornata” riscuotendo un grande successo. Quest’anno le 12 edizioni del network di Psychologies Magazine hanno invitato ciascuno ad agire concretamente per rendere il mondo (almeno tendenzialmente) migliore.
Non è questa la sede per approfondire l’argomento nello specifico, per il quale si rimanda a Psychologies Magazine Italia, e alle diverse testimonianze dell’evento; se ne prende però spunto per indagare su un aspetto direttamente connesso alla gentilezza stessa: la qualità della vita e del lavoro in azienda, in particolare nel contesto del  “cambiamento”.

Prima di proseguire, però, diamo la definizione del termine “gentilezza” estratta dal Vocabolario Treccani:

gentilézza s. f. [der. di gentile]. – 1. ant. Nobiltà, sia ereditaria sia (secondo l’interpretazione degli stilnovisti) acquisita con l’esercizio della virtù e con l’elevatezza dei sentimenti: prende amore in g. loco (Guinizzelli). 2. a. La qualità propria di chi è gentile, nei varî significati dell’aggettivo: g. d’aspetto, g. di modi; e in senso morale: g. d’animo, di costumi, di sentimenti. Più comunemente, amabilità, garbo, cortesia nel trattare con altri: persona di squisita g.; la sua innata g.; è di una g. rara, incomparabile; per g., formula di cortesia nel chiedere un favore, un’informazione e sim. b. Atto, espressione, modi gentili: fare una g., usare molte g., colmare di gentilezze; gli disse delle g.; trattare, accogliere con gran gentilezza. Spesso iron.: fammi la g. di levarti dai piedi; m’ha dato tutti questi epiteti e m’ha detto altre simili g. (cioè insolenze, impertinenze)

 

Cogliere il cambiamento

“Yet most organizations must change, and change profoundly, if they’re to stay alive(1)”.
“Tuttavia la maggior parte delle organizzazioni devono cambiare, e cambiare profondamente, se vogliono rimanere vive”

Il successo e la sopravvivenza di interi sistemi economici dipendono dalla capacità delle imprese di attuare i cambiamenti necessari per far fronte, possibilmente anticipandola, all’evoluzione del contesto competitivo.
Il “cambiamento” organizzativo quindi condiziona l’evoluzione di un numero crescente di imprese e distrugge la maggior parte dei paradigmi organizzativi validi fino a pochi anni fa, ma rappresenta anche un’occasione di crescita, spesso l’unica, da cui trarre i massimi vantaggi.
Il processo di cambiamento che veramente trasforma un’organizzazione, sia essa una public company o una piccola impresa, è difficile quanto essenziale; richiede che le persone cambino cose a loro care: abitudini quotidiane, fedeltà, modo di pensare. Come contropartita per questi sacrifici, non viene offerto loro nient’altro che la possibilità di un futuro migliore(2).

Se a tutto ciò uniamo il concetto che “Lavorare in un luogo eccellente è la migliore premessa per l'eccellenza del prodotto, nonché un modo certo per dare piacere e motivazione al lavoro e raggiungere i risultati(3)” allora ecco che risulta strategico per il management aziendale monitorare, oltre alle performance del proprio personale dipendente, anche il clima aziendale in cui queste performance si concretizzano.

Il “cambiamento” passa attraverso le persone(4), e questa è la nuova consapevolezza che guida l’impresa nel suo cammino verso il miglioramento costante e continuo. Il “cambiamento” spinge verso un bisogno sempre più crescente di ricercare il coinvolgimento e la partecipazione delle persone per riconoscerli come uno dei maggiori punti di forza dell’impresa. La condivisione degli obiettivi rende i “clienti interni” consapevoli di essere parte integrante della vita di un’impresa, favorendo così una maggiore qualità ed efficienza del loro operato.
Risulta perciò necessario strutturare, intorno a loro, un ambiente sereno e consapevole, che permetta un fluido scambio di informazione a tutti i livelli.

Circa il significato di Benessere Organizzativo(5)

È ormai opinione condivisa che le performance dei lavoratori, e di conseguenza i servizi erogati da un’organizzazione, siano determinati anche dal livello della qualità della vita negli ambienti di lavoro.
Sempre di più, quindi, le organizzazioni sono chiamate a crescere e svilupparsi promuovendo un adeguato grado di benessere fisico e psicologico  alimentando costruttivamente la convivenza sociale di chi lavora in azienda.
Nelle amministrazioni pubbliche, il miglioramento di questa dimensione, e più in generale la valorizzazione delle risorse umane, può significare un concreto salto di qualità nell’efficienza dell’intero sistema, secondo un modello ormai da tempo affermatosi nel settore privato.

Il benessere organizzativo aziendale si riferisce al rapporto che lega le persone al proprio contesto di lavoro, prendendone in considerazione le molteplici variabili, fra le quali: le relazioni interpersonali, il rapporto con i capi, il senso e il significato che le persone attribuiscono al proprio lavoro, il senso di appartenenza alla propria organizzazione, l’equità nel trattamento retributivo e nell’offerta di opportunità di crescita e miglioramento lavorativo, l’ambiente di lavoro accogliente e piacevole(6).

In che modo può essere tradotto in azioni concrete questo concetto(7)?
Prestando, ad esempio, attenzione alle necessità e alle aspettative dei dipendenti, ascoltando le esigenze, gestendo il disagio, chiarificando e condividendo il senso e le motivazioni che fondano l’esistenza dell’organizzazione… e in tanti altri modi, che s’imperniano sempre e comunque sul fatto che  il benessere organizzativo si riferisce al modo in cui una persona vive la relazione con l'organizzazione in cui lavora, ovvero che quanto più una persona sente di appartenere all'organizzazione, perché ne condivide valori, pratiche e linguaggi, tanto più trova motivazione e significato nel proprio lavoro.
Non basta, perciò, che le imprese investano in innovazione tecnologica, in differenziazione dei prodotti/servizi e in immagine, ma diventa necessario tenere conto delle differenti esigenze del dipendente e dell’evoluzione dei propri bisogni. E’ per tali motivi che al fianco delle competenze tecniche diventa necessario sviluppare competenze legate alla dimensione emozionale e relazionale, ovvero al modo in cui le persone vivono e rappresentano l'organizzazione e, soprattutto, tenere conto dell’ambiente, del “clima” in cui i dipendenti si trovano a dover lavorare ogni giorno.
 
Sviluppare il tema del benessere organizzativo aziendale implica un sistema gestionale sicuramente più faticoso e complesso rispetto a quello tradizionale, ma molte ricerche hanno dimostrato quanto a medio e lungo termine il miglioramento, in termini di efficienza e professionalità, sia in grado di premiare gli sforzi impiegati.
Ma tornando al tema della gentilezza, vale forse la pena di chiederci come l’esercizio della stessa possa favorire il miglioramento di cui abbiamo parlato.

La gentilezza da Dante a Aristotele

Per indagare su questo argomento riteniamo sia utile tornare nuovamente all’origine del termine. Se infatti prima ne abbiamo dato una definizione da dizionario, vogliamo ricordare che in essa si faceva riferimento a Guinizzelli, poeta italiano nato nel 1230 a Bologna.  E certamente al Guinizzelli ci si può riferire, ma va ricordato che il termine “gentilezza” è in quel periodo utilizzato da molti ed è, anzi, un termine chiave del periodo.
Cosa stava a indicare e perché è importante?
Come già anticipato nella suddetta definizione, il termine era all’epoca sinonimo di nobiltà, ossia di appartenenza a una casata nobiliare (ad una “gens”, secondo il latino dei romani antichi). E secondo gli stilnovisti (ed altri) tale nobiltà non era solamente ereditaria, ovvero tramandata per via del sangue, ma anche e soprattutto appresa o prodotta dalla persona singola, che in tal caso, pur essendo non “nobile” poteva accedere alla gentilezza, intesa come qualità dell’animo indipendente dalla stirpe di appartenenza.
Si tratta di una grande innovazione, prodromica alla democrazia. Per entrare maggiormente nella questione riprendiamo il pensiero di Dante espresso nel Convivio (composto tra il 1304 e il 1307).
In quest’opera Dante Alighieri, per spiegare in cosa consista la vera "gentilezza", ricorre alla parabola dell’uomo che, nell’inoltrarsi lungo sentieri nascosti dalla neve, per quanto guidato nel suo percorso dalle orme di un saggio che lo ha preceduto, sbaglia strada e "tortisce(8) per li pruni e per le ruine". Se il primo camminatore (il saggio), che è rimasto sulla retta via, può essere considerato "valente" (e dunque nobile), l’altro, che malgrado l’esempio del primo ha sbagliato, è invece uomo "vilissimo".
Dopo avere dimostrato che dissentire da Aristotele e da Federico II riguardo allo specifico argomento trattato non implica mancare di rispetto alle autorità filosofica e imperiale, Dante contesta che la nobiltà dipenda da "antiche ricchezze" e la definisce piuttosto come "perfezione di propria natura in ciascuna cosa", quindi confuta l’etimologia di "nobile" da nosco a favore di quella che fa derivare l’aggettivo da “non vile”, per poi dichiarare che la natura della nobiltà umana si valuta dai suoi frutti, che sono le virtù morali e intellettuali. Dante, dopo aver presentato sulla scorta dell’Etica aristotelica le 11 virtù morali vale a dire: Fortezza, Temperanza, Liberalità, Magnificenza, Magnanimità, Amativa d’onore (senso dell’onore), Mansuetudine, Affabilità, Verità, Eutrapelia (buon umore) e Giustizia, definisce la nobiltà umana dono individuale e non dote di schiatta(9), in quanto "seme di felicità messo da Dio nell’anima ben posta".
Distingue quindi due forme di felicità, connesse, rispettivamente, alle operazioni pratiche (sostenute dalle virtù morali) ed a quelle speculative (sostenute dalle virtù intellettuali, che sono superiori alle prime) in cui si esplica l’attività razionale.
Il seme della nobiltà germoglia negli individui producendo in ciascuna delle quattro età umane diverse "perfezioni":

  • nell’adolescenza:
    • obbedienza, soavità, vergogna e adornezza corporale
  • nella gioventù:
    • temperanza, fortezza, amore, cortesia e lealtà
  • nella "senettute":
    • prudenza, giustizia, larghezza, affabilità
  • nell’ultima età, quella del "senio":
    • ciò che rende perfetta l’anima è il fatto che essa ritorna a Dio benedicendo il cammino compiuto durante la propria vita terrena.

Finalmente, ribadito che la nobiltà è una dote individuale e che le stirpi possono dirsi nobili solo in virtù della "gentilezza" dei loro membri, il trattato si chiude.

Ora, a prescindere dalla svalutazione della vita pratica a favore della vita intellettuale o contemplativa (retaggio dell’antichità), troviamo interessante notare come il concetto di gentilezza comporti, in ultima analisi tutta una serie di virtù (in particolare abbiamo messo l’accento su quelle morali). In sintesi, gentilezza vuol dire essere esseri compiuti, umani al massimo grado e quindi capaci di magnanimità, temperanza, verità ecc. ecc.

A questo punto facciamo una domanda: quanto migliorerebbe il clima, ma non solo il clima aziendale, anzi, le performance e ogni attività dell’azienda se venisse praticata la “gentilezza” così come la intendevano Dante, e con lui Aristotele? Non è quello che vorremmo noi tutti?
In genere a queste osservazioni si risponde che “si certo, sarebbe bello, ma poi le dure leggi del mercato ecc. ecc.”
Eppure non è così…. e per limitarci ad una sola questione, prendiamo quella più rilevante (o per lo meno di certo molto critica) in tutto il pensiero organizzativo: la leadership.

Una leadership gentile?

Sulla leadership si è detto di tutto e di più e spesso sembra che i discorsi su di essa portino a svuotare il concetto stesso. Ciononostante, al di là della “tenuta” del concetto di leader, nella letteratura sulla leadership emergono numerose istanze importanti per gettare lumi sulla natura e sulle esigenze delle organizzazioni, nonché ovviamente su come condurle (o favorirne lo sviluppo). Lungi dal provare a riassumere anche soltanto una parte della letteratura sulla leadership, ci limiteremo nelle pagine che seguono a una sorta di brevissima scorribanda attraverso alcuni contributi essenziali e relativamente recenti sull’argomento, focalizzandoci su quanto ci pare più interessante per un contributo allo sviluppo o all’esercizio della leadership “gentile” e adottando lo stratagemma (molto didattico, ci scusi il lettore) di evidenziare in neretto le parole chiave che a tale scopo ci sembrano più significative.
A partire per lo meno dall’avvento del paradigma della leadership trasformazionale (e diciamo “per lo meno” perché è possibile reperire antecedenti fin dagli albori della letteratura manageriale), ossia a partire dalla fine degli anni ’90 del secolo scorso, la funzione del leader è sempre stata più strettamente legata a capacità etiche, personali, emotive e valoriali.
Se infatti il profilo del leader si può definire a partire dai quattro vertici «visione e sfida, credibilità e fiducia, motivazione ed empowerement, esempio e guida»(10) e si estrinseca al meglio in un caratteristico coaching style,(11) l’approdo più naturale di questo itinerario così fortemente caratterizzato dall’orientamento alla relazione ed al senso in un contesto di cambiamento, a parte gli aspetti più propriamente “energetici”, è una visione del leader che comporti uno sviluppo di sé molto evoluto. Uno sviluppo di sé quale per esempio si configura nelle riflessioni di Koestembaum(12), o Badaracco(13), che qualificano il leader come una persona capace di mantenere la propria ed altrui integrità nei conflitti in cui si vive oggi nelle organizzazioni.
Ricordiamo anche la proposta del più celebre Stephen Cowey, cui ha arriso molto successo e che collega esplicitamente la leadership ad un impianto etico neoaristotelico basato sulle virtù, e a suggestioni neoesistenzialiste derivate dal filosofo Victor Frankl(14). Insomma, per riprendere le parole di Frances Hesselbain, chairman della Peter F. Drucker Foundation, prima di occuparsi della dimensione del “fare” del leader sarebbe meglio discutere «who the leader is, because (…) it’s the quality and the character of the leader that determines an organization’s perfomance and results»(15).

Ciò che ci sembra interessante sottolineare è come tale modello, o ventaglio di modelli sulla leadership, conduca a riscoprire sotto nuove spoglie l’antica figura del saggio.
Il leader di oggi, o meglio, la guida manageriale, che naviga negli oceani tempestosi e mutevoli del cambiamento continuo deve avere molte delle caratteristiche che nel mondo antico si attribuivano al filosofo ovvero all’uomo compiuto: saggio, prudente, moderato, capace di ponderare e comprendere, adattabile, in grado di correre rischi con discernimento, prendersi responsabilità e rivedere le proprie opinioni, così come di porsi come guida e sostegno per gli altri, nonché esempio e punto di riferimento per tutti.
Un tipo di leader saggio, appunto, un leader persona, un leader integro in cui si trova corrispondenza tra pensieri, parole e opere (il modello cristiano del santo non si discosta molto da quello proposto), l’uomo o la donna che dicono quello che fanno e fanno quello che dicono, per quanto possibile e nelle diverse modalità richieste dalla complessità, senza sfuggire all’ideale della veridicità di fronte alle contraddittorie sfumature che prende la realtà del mondo.
Del resto è naturale che il capo, la guida o agente di cambiamento di una certa cultura, la nostra, ovvero quella cristiano-occidentale, ne debba incarnare il modello di umanità ideale. Sarebbe stupefacente il contrario, anche se in effetti accade.
E ciò accade, quando accade, per via delle ambigue contingenze del potere, che può facilmente scadere in dominio(16), lasciando campo libero alle proprietà tipiche di quell’“ombra” della leadership così efficacemente descritta da Conger in The dark side of the leadership, così come in numerosi scritti di Kets de Vries(17), dove si dipinge la frequente figura di un leader “tossico”, incapace di relazioni leali, profonde e adulte, un uomo incompleto e immaturo, funestato da una personalità infantile, arida e narcisista. Non solo per colpa sua, ovviamente, ma con la complicità di un’organizzazione che, al di là di eventuali dichiarazioni contrarie, resta focalizzata sul vecchio paradigma manageriale del controllo, senza trarre le conseguenze dei mutati tempi, che richiedono ben altre visioni.

Gentilezza e nobiltà come driver

Visioni che comprendono una maggiore democrazia aziendale, una minore importanza delle gerarchie formali(18) e una maggiore determinanza da parte delle leadership naturali, ossia da quelle riconosciute dai pari e dai followers(19). Perché in un contesto dinamico e mutevole, in un ambiente dominato dall’economia della conoscenza e da un tasso di crescente innovazione (di processo, di prodotto, strategica e organizzativa) è solo con il consenso, la passione e l’entusiasmo delle persone che si possono portare al successo le imprese. Ed ancora: come potrebbe mai essere possibile fare questo senza la fiducia che si può ingenerare solo mediante comportamenti retti, responsabili, etici e tali da abbracciare in un “noi” profondamente sentito, un’esperienza di costruzione di identità (proprie ed altrui, singole e collettive) realmente soddisfacente per tutti? È chiaro che non è possibile, così come è chiaro che, da tutto quanto anzidetto, emerge una figura del leader capace di favorire conversazioni tra alterità, gestire complessità inclusive di conflitti, affrontare e risolvere complessi e critici trade offorganizzativi, come per esempio tra disciplina e creatività, efficacia e attenzione agli altri, profitto e responsabilità sociale, efficienza e ricerca di nuove soluzioni.
Una figura di leader che, per realizzare ciò, si fa carico della necessità di costruire campi di senso abitabili dalle persone, e di farlo ricorrendo tanto alle risorse della descrizione e della norma quanto a quelle dell’esempio e della narrazione, che si propone come una dimensione ineludibile in quanto capace di tenere insieme senso, storicizzazione e individualità ovvero peculiarità specifiche di persone, gruppi e situazioni.
Una figura di leader che, lungi dal proporsi come il grande uomo per tempi d’eccezione, promuove la leadership dei propri followers e lavora per rendere l’organizzazione capace di fare a meno di lui: cosa che implica un bel paradosso per chi ama la rendita di potere di cui parlavamo poco sopra e che probabilmente dovrebbe rendere l’organizzazione un poco più responsabile dei processi coi quali dovrebbe essa stessa produrre la leadership(20).
Una figura di leader così descritta, ci sembra si possa forse a questo punto ricomporre e riassumere finalmente in un suo modo di essere più alto, che vada ben oltre l’individualismo che bene o male spesso permea di sé il concetto di leader.
Intendiamo un leader concepito come persona che sia in grado di esporre pubblicamente il proprio operato, di essere un “manager in pubblico”, cioè che fondi la sua autorità ed autorevolezza sulla «disponibilità a dare conto della propria azione in un dialogo pubblico riconoscendo a tutti gli stakeholder, interessati dalla propria azione, il diritto di esercitare la propria critica ed avvertendo il dovere di rispondere fornendo le proprie ragioni»(21).
Etica, dialogo e impegno per una verità co-costruita nel tempo e nella storia, imperniata sul riconoscimento ed il rispetto, aliena dal dogma e dall’episteme(22), si rivelano dunque essere gli orizzonti più ampi e determinanti della vita del leader.
Per concludere una parola sul senso che ci pare sia giusto dare al termine leadership.
Al di là del concetto di leadership diffusa, o del fatto conclamato che nelle attuali organizzazioni le capacità ispirazionali e di sense making non sono solo appannaggio dei capi, crediamo che la leadership così come tratteggiata in questa breve nota sia una questione di gradi: in una certa misura siamo tutti chiamati a renderci esseri umani e completi, responsabili, etici, comprensivi, integri e virtuosi.
Di certo è un ideale, per certi versi inattingibile, come per l’appunto riteniamo sia la saggezza, ovvero la dantesca gentilezza. Ma ciò non esime nessuno dal provarci. Così come non impedisce che alcuni vi riescano meglio degli altri, o siano chiamati ad un più severo impegno.
E se è vero, come è vero, che leader è colui che ha un seguito, allora leader è davvero colui da cui ci si aspetta con buoni motivi che sia in grado di esserlo: un paradosso dirimibile forse soltanto col chiarimento di quali siano e come si riconoscano i suddetti “buoni motivi”.

 

Note

(1)  fonte: Hirschhorn L., Campaigning for change, Harvard Business Review, Boston, July 2002, pag.98
(2)  fonte: Heifetz, R.A., Linsky, M., A survival guide for leaders, Harvard Business Review, Boston, 2002
(3) fonte: Franco Garello, Direttore del Personale Ferrari e Maserati - http://www.campusone.it/link/?ID=429
(4)  fonte: Borgonovi, E., Ripensare le amministrazioni pubbliche, Egea, Milano, 2003
(5) fonte: Programma “Cantieri” - Dipartimento della Funzione Pubblica  http://www.cantieripa.it/inside.asp?id=1909
(6) fonte: Dipartimento della Funzione Pubblica - Amministrazioni alla ricerca del benessere organizzativo, Ed. Scientifiche Italiane, Napoli, 2005
(7)fonte: Il Benessere organizzativo:fantasia o realtà - Six Seconds Italia
http://italia.6seconds.org/modules.php?name=News&file=article&sid=96
(8) Tortire. Definizione: Torcere, Deviare. Lat. Deflectere
(9)  n.f. [pl. -e] ( lett.) stirpe, discendenza - Dal germanico * slahta.
(10) G. P. Quaglino, C. Ghislieri, Avere leadership, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2004.
(11) D. Goleman, Leadership than Gets Results, in “Harward Business Review”, March-April, 2000, pp. 78-90.
(12) Cfr. Koesetembaum, P., Leadership. The inner side of greatness, Jossey Bass, New York, 1992
(13) Cfr. Badaracco, J., Leading Quietly, Harward Business School Publishing, Boston, 2002
(14) Cfr. Covey, S.,  I sette pilastri del successo, Bompiani, Milano, 1993
(15) AA.VV. (intervista collettiva), All in a Day’s Work, in “Harward Business Review”, Special Issue, Dicembre 2001.
(16) Michel Foucault distingue tra potere e dominio dicendo che il potere è inevitabile e ce l’ha chiunque, mentre il dominio è una particolare conformazione del potere che prevede sfruttamento e massimizzazione, ovvero, a nostro parere, sintetizzando, ingiustizia.
(17) Cfr. tra i tanti Kets de Vries, Manfred F. R., Kets de Vries on Leadership, John Wiley & Sons Ltd, 2008
(18) Vedasi sull'argomento: "Il Futuro del Management" di Gary Hamel, Etas Editore, Gennaio 2008. Gary Hamel, esperto di strategia d’impresa, ha focalizzato la propria produzione intellettuale verso una riforma radicale del management.
(19)Ci sembra interessante notare che in gran parte della letteratura sull’argomento, le caratteristiche tipiche del buon followers sono per larga misura le stesse del buon leader: cfr. per esempio R.L. Daft, Leadership. Theory and Practice, The Dryden Press, Orlando, 1999.
(20) Per tutto quanto detto, molto en passant, in questo paragrafo ci permettiamo di rimandare, per  un primo approccio, al mirabile libricino di Pier Luigi Celli, Narrare la leadership, Luiss University Press, 2007
(21) S. Carpo, F. Cecchinato, M. Fardin, M. Leonzio, I. Pipitone, G. Porcellini, V. Valfrè (a cura di), Report sulla letteratura mangeriale, Milano, ISTUD, 2002.
(22) Episteme = n.m. o f. [pl. -i] nella filosofia di Platone (427-347 a.C.), il sapere certo, obiettivo, contrapposto alla credenza e all’opinione | ( estens. non com.) scienza esatta. Dal greco epist¢me ‘conoscenza scientifica’.

 

 

Paolo Cervari: Laureato in filosofia, ho cominciato come copywriter e quindi ho fatto il giornalista, il romanziere, il consulente in comunicazione e il consulente di staff. Comunicazione, relazioni tra le persone e sviluppo di sé sono sempre state le mie passioni (insieme al free climbing e al taj chi chuan). Da diversi anni lavoro come consulente e formatore in contesti di cambiamento e innovazione. Sono consulente filosofico di Phronesis (Associazione per la consulenza filosofica italiana), Problem Solver and Strategic Coach per l’MRI di Palo Alto (California, USA) e formatore certificato presso il Centro di Terapia Strategica di Arezzo. http://www.cervari-consulting.com/http://paolocervari.blogspot.com/

Adelio Schieroni:  "Se dovessi sintetizzare la mia preparazione professionale in un singolo concetto mi definirei "impollinatore di idee" allo scopo, molto spesso appagato, di realizzare progetti sia di ricerca tecnologica e scientifica (Unione Europea, Regione Lombardia, Enti pubblici ed Aziende private) sia di comunicazione.
Membro del Consiglio di Amministrazione di AEM Milano dal dicembre del 1990 per 2 mandati consecutivi.
Per affinità con i discorsi trattati nel testo, cito il fatto che nel 1994 ho ideato e realizzato il primo server sanitario italiano, quello dell'A.O. Istituto Ortopedico Gaetano Pini di Milano; nel 1996 il Progetto di Comunicazione Globale di www.see.it e successivamente il Progetto GMS U.P.C. - Unità Personale di Comunicazione – per un uso multidisciplinare degli apparati di telefonia mobile, in sinergia con il Laboratorio di Ricerca Educativa dell’Università degli Studi di Firenze.

Articolo pubblicato su http://www.istitutoinnovazione.org il 30 gennaio 2011