Il pollice opponibile
(In ricordo di Alfredo)
E’ il film della disperazione, è il film dell’onirico, è il film del dolore.
E’ un soave inno alla morte.
Il magnifico “ Adagietto “ di Malher, le cui note struggenti liquefacevano il volto morente del professore Gustav von Ashenbach in “Morte a Venezia”, si trasforma nel lacerante, gutturale suono del sassofono tenore di Gato Barbieri.
In una Parigi di sopraelevate, di scale, di ponti e di metrò. Di vecchi appartamenti immersi in luminosità di rubino, acquosi come acquari. Dove ancestrali simboli vengono domati da altri più ordinari simboli.
L’interno di una casa come la propria interiorità. L’assenza di nomi che svuota l’uomo da qualsiasi individualità riportandolo nel caldo, pulsante ventre materno. Il sesso come unico, primordiale alito di vita, ma insieme traghettatore per l’inferno.
La purezza dell’essere, raccolto nel proprio liquido amniotico. La bellezza di non essere nati. La nascita come supplizio. L’incapacità di praticare il proprio “mestiere di vivere”. La volgarità della vita. La grande immensa scelta di liberarsi dell’anima, tagliandosi le vene dei polsi in un cesso di un albergo a ore.
E’ ovvio che sto parlando de “L’ultimo tango a Parigi”di Bernardo Bertolucci, etichettato come film porno, considerato da “critici di rango” un falso capolavoro, anzi un film di merda, censurato per vilipendio dei valori della famiglia, ritirato e messo al rogo con l’accusa di oscenità. Sì, proprio come Giordano Bruno, dato alle fiamme.
Bruciare un film è come bruciare libri. E’ l’atto più insensato che l’umanità possa compiere contro se stessa, anche se in nome di una rivoluzione: è la bestialità assoluta.
Distruggere un film che parla del disagio di vivere è da veri idioti.
Ma c’è Paul che sodomizza Jeanne elencando le “dolci prerogative familiari”; violenza, prevaricazione, ipocrisia. E quando la polposa Jeanne dichiara il suo amore, le vengono proposte prove orribili in virtù di questo amore.
Dov’è il gesto romantico, dov’è la poesia? Dov’è il sacrificio virile di chi riconosce nell’altra l’anima gemella? Dov’è l’apostrofo rosa stampato sulle labbra dell’amato? Dov’è il cuore trafitto da una freccia scoccata da un bambino fuori di testa:guardone e assassino?
Nel cadavere di un vecchio topo di chiavica?
Queste scene che hanno turbato il sonno dei nostri sensibili, ascetici censori sono propedeutiche a quel che sta per accadere: il suicidio “assistito” di Paul, eroe disfatto, diseredato con mille fatiche da compiere e mille trasformazioni da assecondare. Il volto di Marlon Brando, unico possibile interprete del personaggio di Paul, è struggente nella sua bellezza, appena devastata dal carico dell’età, esplicitamente sensuale. Un volto contratto da un dolore irremovibile che si scioglie, si pacifica soltanto quando un colpo di pistola lo libera da una insopportabile realtà.
Prende tra l’indice e il pollice, il nostro maestoso evoluto pollice opponibile, il chewing- gum dalle labbra, lo preserva attaccandolo alla balaustra, come si fa quando si deve compiere un’azione importante, e scivola morente in una posizione finalmente fetale.
Ho visto questo film insieme a mio marito in una sala cinematografica parigina nel 1972 . E fu una epifania, un innamoramento adolescenziale: c’era qualcosa di diverso dalla tesi, da tutti condivisa, che si trattasse di un film sulla lotta di classe tra un povero diseredato ed una graziosa borghese un po’ mignotta. Di un rapporto basato solo sul sesso barbarico, fortemente misogino. Per noi c’era qualcosa di enormemente diverso.
Rivedendolo, oggi, ci guardo dentro come una foto color seppia, che immortala una vita in primo piano davanti ad un panorama sfocato. La casa evoca la dimensione del sogno, ne possiede l’odore, il sapore e il colore. La figura tragica di Brando copre tutta la realtà modificandola: ogni cosa si svolge in uno squallido paesaggio, con sordidi personaggi. La madre di lei alla quale lui addossa colpe così gravi da non poter essere nominate, l’amante anziano che, nella sua stupidità, cerca la giovinezza in performance ginniche, che fa concludere al protagonista “Mi chiedo:cosa mai abbia visto Rosa in te”.
La ragazzotta borghese, orfana di un padre orgogliosamente fascista e colonialista, con pistola, stivali, divisa e foto di giovane amante berbera nascosta nel portafogli. Nella sua casa in cui il puzzo di torture, decapitazioni, carni lacere è ancora vivo, Bertolucci fa nascere il ricordo aspro d’Algeria.
Quattordici anni prima Sartre scriveva nella sua terribile prefazione a “La Tortura” di Henry Alleg: ”Nel 1943, in via Lauriston, erano dei francesi a gridare d’angoscia e di dolore. La Francia intera li udiva. L’esito della guerra non era certo, e non si voleva neppure pensare al futuro; ma una sola cosa ci pareva comunque impossibile: che si sarebbero fatti urlare altri uomini, un giorno, in nostro nome. Ma impossibile non è francese: nel 1958, ad Algeri si tortura abitualmente, sistematicamente; tutti lo sanno, da Lacoste ai contadini dell’Aveyron… Durante la guerra, quando la radio inglese o la stampa clandestina ci parlavano dei massacri di Ouradour, guardavamo i soldati tedeschi passeggiare per le vie con aria innocua, e ci capitava di osservare fra noi: Eppure sono uomini che ci rassomigliano. Come possono fare ciò che fanno? Eravamo fieri di noi, perché riuscivamo a non capirli. Oggi sappiamo che non c’è nulla da comprendere; tutto si è compiuto insensibilmente, con abbandoni impercettibili; quando abbiamo levato il capo, abbiamo visto nello specchio un volto sconosciuto, odioso: il nostro”.
Nel 1972 si combatte ancora in Vietnam. E’ l’inizio della disfatta americana e l’ennesima escalation dei bombardamenti sui vietcong, voluta da Nixon come regalo di Natale.
Nel settantadue si era immersi nel sangue delle guerre irrisolte e dei terrorismi. Bertolucci ci mostra questo liquido color cremisi scorrere nei pensieri del mondo. Lo sguardo di Brando e il gorgoglio indecifrabile nel sorriso appena accennato della sua morte fetale racconta tutto questo.
E noi ? Noi abbiamo veramente creduto che il seme di tutte le guerre fosse divenuto infertile dopo il 1975? Che il dolore inflitto ad altri uomini con la tortura potesse finire?
Ora sappiamo che non era vero.
Che no, non è vero. Non è mai stato vero.
Osare.
Avere il coraggio di andare contro corrente, di andare oltre, di valicare confini, di non fermarsi alla superficie. Non esiste una cultura alta ed una meno alta esiste solo la noia. Un gesto creativo senza vita, asfittico, pavido, furbo, conveniente è merda.
Laura Lambiase Profeta ha scritto di musica per “Laboratorio Musica” e “l’Unità”; ha descritto Napoli sul “Mattino” e sulla guida “dell’Espresso”; si è divertita su “Cosmopolitan”.
E nata a Pontecagnano molti, molti anni or sono e vive a Napoli tra Paradiso e Provvidenza.