Considerazioni su talune implicazioni del pensiero di Giovanni Paolo II° sulla dottrina sociale
di Vincenzo Porcasi
La c.d. globalizzazione non tiene conto di taluni fattori che sono fondamentali nel contesto del processo di crescita internazionale:
a) il continuo ampiamento della distanza economica che intercorre fra taluni paesi ricchi, i paesi portatori di nuova ricchezza e di un tasso d’incremento del PIL superiore al 5% in ragione d’anno e la gran parte dei PVS e dei paesi in transizione che non hanno dal 1990 subito alcun incremento del loro PIL, anzi spesso si è assistito al suo decremento;
b) l’ulteriore impoverimento dei ceti deboli e della borghesia esistenti in tali paesi;
c) l’indifferenza delle compagnie produttive di ogni grado e livello all’andamento dei paesi in cu pongono la loro attività.
Ma ciò che risulta possibile per le scelte proprie dell’operatore economico di diversa dimensione non può lasciare indifferente il paese e soprattutto l’organizzazione multilaterale di cui lo stesso fa parte.
La domanda che si pone oggi l’operatore del diritto è quale sia il ruolo che l’Europa può e deve giocare nel nuovo contesto geopolitico che si mostra dopo la caduta dell’Impero Sovietico e dopo la guerra all’Iraq.
Innanzi tutto occorre che l’Europa riesca ad uscire dallo stato ibrido in cui si trova: divisa com’è fra sovrannazionalismo e intergovernamentalismo, attraverso l’approvazione di strumenti per decidere a maggioranza, che contengono al proprio interno quegli elementi che la possono condurre al superamento della linea Jean Monnet “community method”. Tale linea era puramente funzionale allo sviluppo dell’unione economica e doganale e quindi funzionale alla formazione di un mercato interno unico.
Occorre ora dare vita ad una nuova forma di governabilità fondata sulla comune accettazione di un nuovo ordinamento giuridico, dei processi di elaborazione delle politiche da parte delle parti sociali, e, del comportamento delle aziende produttrici. Tali diversi fattori producono la politica a livello europeo, con particolare riguardo alla visione del mondo, alla partecipazione alla gestione della cosa pubblica e di quella privata, alla contabilità gestionale dell’area ormai allargata a 27 paesi, alla efficacia e all’efficienza dell’azione interna e internazionale e quindi alla sua coerenza temporale (tale definizione è figlia del libro bianco sulla Governabilità pubblicato nel 2001 dalla Commissione dell’U.E.) e risponde agli indirizzi di solidarismo fissati da Giovanni Paolo II°.
Non è possibile svolgere una politica estera anche puramente commerciale se prima non si definisce il proprio modo d’essere, particolarmente quando ci si deve confrontare con l’altissimo nuovo rischio rappresentato dalla criminalità, come mai prima: frodi e truffe finanziarie a livello planetario con l’ausilio del sistema bancario e di revisione, il riciclaggio di denaro, la conseguente distrazione di fondi, la contrapposizione, la violazione di ogni tipo di diritto soggettivo collegato ai diritti immateriali e ai diritti connessi alla proprietà intellettuale, la pirateria marittima e più recentemente il crimine cibernetico e l’onnipresente terrorismo, oltre a epocali flussi migratori.
Tuttavia, è utile non dimenticare che l’approccio pratico voluto da Monnet ha avuto pieno successo per la realizzazione del mercato interno unico e in certa misura per la creazione dell’Unione Monetaria Europea, diversamente da altre esperienze di unioni regionali. Per tale ragione, la Commissione futura, agendo come braccio esecutivo dell’Unione Europea, deve non solo immaginare le politiche ma anche pensare nell’interesse generale dell’Europa e arbitrare fra gli eventuali interessi in conflitto.
Sulla scorta di tale effettiva presa di coscienza, l’Unione Europea deve innanzi tutto dare piena applicazione al “New Neighbourhood Instrument” al fine di consentire lo stabilimento di una piattaforma unica “Pan Europea” che possa proporsi al resto del mondo sulla scorta di un progetto e modello unitario e che vada da Casablanca a Kabul.
Infatti, non è possibile agire nell’agone internazionale, se si continua a parlare di “Europa occidentale”, e, senza coinvolgere i nuovi vicini dell’Est e del Sud.
Siamo davanti a una proposta di Wider Europe che, costruendosi economicamente e politicamente al proprio interno, in termini di stabilità e prosperità, sia a est che a sud, provveda ad avviare un dialogo planetario in termini di pari dignità e non di sfruttamento.
Il dialogo fra Europa e Africa, storicamente, giuridicamente e politicamente deve purtroppo tener conto della perdurante esistenza della dottrina Regan che riserva all’America il diritto di agire a tutela dei propri interessi ovunque, tenuto conto del fatto che le politiche fra l’Europa e il NAFTA sono quanto meno conflittuali in sede OMC e nei confronti delle varie realtà planetarie.
Ne seppe qualcosa purtroppo la nobile figura dell’Imperatore Massimiliano, ne sappiamo qualcosa i risparmiatori italiani ed europei in generale che sull’onda emotiva dell’America clintoniana abbiamo sottoscritto i bonds argentini, uruguagi e brasiliani, stante il promesso impegno del NAFTA di sostenere le economie di quei paesi.
Non è chi non veda come la Wider Europe abbia bisogno di una politica di investimenti diretti in entrata e in uscita fondata su un quadro giuridico efficace e certo. Bisogna ripartire dal fallimento della Conferenza di Cancun, sviluppando in carenza di una piattaforma planetaria una politica di accordi di partenariato e cooperazione bilaterale con i singoli stati e con le organizzazioni regionali esistenti. Certamente il processo di crescita dei paesi dell’Africa avviene a chiazze di leopardo in funzione della politica di investimento delle grandi multinazionali di diversa origine; contro cui l’Unione Europea non può e non deve combattere. L’Unione, invece, deve affrontare l’antico malessere dell’Africa rappresentato dalla continua fuga dei capitali dei ceti egemonici di qualsiasi origine verso gli Stati Uniti d’America e l’Unione Europea.
E’ una operazione di psicologia politica e di credibilità nella stabilità di un processo di crescita armonico; è una filosofia che va ad introdurre i valori, i principi e gli standards europei nel continente africano. Il processo è tipico di una politica a lungo termine, ma è fondato sulla possibilità di compartecipare a nuove forme di sviluppo produttivo globale senza trascurare un comportamento sostenibile dal punto di vista ecosistemico (mantenimento e sviluppo delle foreste e delle aree recuperabili attraverso un’accurata politica delle acque) e solidale nei confronti dei ceti più deboli della popolazione, attraverso l’elevazione delle misure di democrazia diretta applicata sia in sede politica che in sede economica (scelta della gente sulle priorità da soddisfare e impiego degli strumenti di microcredito partecipativo per consentire l’uscita dalla condizione di povertà). Il rispetto dei diritti umani, nella proposta europea, produce governabilità e la governabilità non corrotta promuove il rispetto del ruolo della legge e della sua funzione anche a tutela dei diritti degli investitori stranieri, sia di portafoglio che diretti. La certezza del diritto consente, cioè, la non discriminazione fra capitali di residenti e di non residenti. Il segreto è ovvio, il ruolo della Legge così come non deve consentire discriminazione fra stranieri e cittadini, non deve neanche danneggiare il produttore locale, rispetto all’invadenza anche scientifica dell’operatore economico straniero, trovando un modo partecipativo per far coesistere le due componenti, in un modello unitario di sviluppo.
In tal senso, la normativa tripartita OCSE, OMC, MIGA che cerca la nuova via per la disciplina multilaterale dei movimenti di capitale, dopo la cennata “Crisi di Cancun” deve porsi la domanda di come dare certezza ai movimenti internazionali di capitali, senza per questo aggravare ulteriormente il problema centrale del mondo di oggi che è rappresentato e costituito dalla povertà. Essa è finalmente percepita e vista in tutta la sua tragica dimensione, avvertita grazie alla globalizzazione dei mezzi di informazione e comunicazione sociale e grazie al fatto che il capitalismo trionfante attuale per essere abbisogna sempre di più di coinvolgere nella sua ascesa e nella sua proposta di un modello unico di tutte le masse del mondo.
Il socialismo ha fallito nel suo sogno di giustizia e di progresso per la gente, lasciando le società dell’Est europeo in uno stato di prostrazione economica e morale, il capitalismo “trionfante” della fine del XX secolo (e dell’inizio del XXI) si rivela sempre più incapace di assicurare alla maggior parte degli abitanti dei livelli di vita “liberi e dignitosi” (per usare una espressione della nostra costituzione).
Alle povertà endemiche del terzo mondo a quelle sopravvenute dei paesi in transizione si accompagna una crescente povertà “strisciante” nelle società capitalistiche avanzate: negli stessi USA è relativamente elevato il numero dei senza tetto e alla crescita economica si accompagna un incremento della disoccupazione anche intellettuale, mentre buona parte dei cittadini non ha accesso all’assistenza sanitaria. In tale situazione occorre interrogarsi sulla consistenza dei valori fondanti la democrazia politica ed economica degli Stati Uniti, il cui modello si vuole esportare ed imporre in tutti gli stati del mondo anche con la forza delle armi: quando solo la metà degli aventi diritto partecipa alle elezioni e gli assenti coincidono in buona parte con le classi sociali più svantaggiate.
Sorge il dubbio che certi consistenti aspetti del socialismo in termini di giustizia sociale fossero idonei, che la via cinese al capitalismo abbia una sua ragione d’essere, che il dibattito sulla cogestione e la partecipazione alla gestione abbia un suo peso specifico non solo germanico, pur mantenendo viva quella formidabile forza trainante che è la libertà d’impresa e nel rispetto comunque del meccanismo di mercato che ha dimostrato di essere l’unico strumento in grado di mobilitare le risorse al servizio della ricerca e quindi della innovazione volta alla ricerca del profitto, funzione tuttavia dei sempre nuovi confini dei bisogni dell’essere umano; motivo per cui forse il liberismo tatcheriano ha ormai raggiunto il suo limite e il pensiero di Lord Keynes e di Fr. D. Roosvelt incomincia a tornare d’attualità.
Va però considerato che il mercato come affermato, è anch’esso un’istituzione e richiede in qualche modo delle regole, scritte o consuetudinarie per poter dispiegare tutte le sue potenzialità.
Può essere necessario costituire una “veltanschaung” europea al mercato e al capitale. Taluni la chiamano “economia sociale di mercato” e hanno fatto propri alcuni parametri che si possono considerare importanti nel valutare i bisogni che il mondo deve soddisfare, in particolare:
- il microcredito, in specie nelle formule elaborate dalla pratica del diritto finanziario islamico e parzialmente applicato anche nell’esperienza della “grameen bank” e delle società di mutuo soccorso e nelle banche di credito cooperativo:
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a) la partnership (Mudharaba) rappresenta l’incontro contrattuale fra un’organizzazione finanziaria e l’operatore che apporta il suo lavoro, la propria capacità, la propria conoscenza e la propria esperienza. In tal modo, una persona che dispone delle capacità, delle conoscenze e delle competenze idonee, ma non dispone del capitale necessario, trova il necessario supporto finanziario sulla base di un accordo preliminare di distribuzione dell’eventuale plusvalenza o della possibile minusvalenza: l’investitore sopporterà le perdite finanziarie mentre il partner subirà la perdita del suo lavoro;
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b) l’equity partnership (Musharaka) è uno dei fondamentali strumenti del sistema di finanziamento senza tasso d’interesse, e, trova normale applicazione nell’ipotesi di investimenti a medio e lungo termine. Due o più soggetti (di cui uno di questi è l’organismo finanziatore) stabiliscono un accordo di joint-venture sulla base del quale il risultato positivo così come quello negativo sono sopportati in proporzione alle rispettive quote di cointeressenza. Nel negozio giuridico di cui è parola, non è specificato il tempo o l’obbligo del rimborso del capitale; infatti non è predeterminato, dal momento che l’istituzione finanziaria è socia nell’operazione.
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c) all’interno del concetto di microcredito poi è inserita una particolare forma di leasing finanziario che in lingua araba prende il nome di Mura ‘baha (Trade Finance o Non profit and non Loss sharing). In tale contratto conosciuto anche come purchase finance o cost plus mark up, l’Ente finanziatore investe il suo capitale nell’acquisizione di beni, fornendoli poi ai partners, a un prezzo formato dal costo sopportato, più quello dell’assicurazione più un margine di guadagno. Il contratto di norma comprende: l’ammontare del credito, la descrizione del prodotto, il piano di rimborso e le imposte da pagare a fronte del servizio prestato. Nella fattispecie, il soggetto finanziato entra in possesso del bene al momento della stipula del contratto, tuttavia, per effetto della clausola di riservato dominio il creditore rimane proprietario del bene fino alla totale restituzione dell’intero dovuto.
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d) Il codice di liberalizzazione dei movimenti di capitale dell’OCSE, comprende poi il prestito a lungo termine con carattere di partecipazione che nell’applicazione irlandese ha preso il nome di loan Q84 e in quella dell’Unione Europea quello di prestito partecipativo, con talune varianti rispetto all’ipotesi originaria. Si tratta a ben vedere di uno strumento contrattuale con il quale si finanzia un progetto di ricerca preindustriale di cui si apprezza il potenziale aspetto di applicazione industriale e/o commerciale, ma incerto sul tempo e sul montante dei risultati. Il finanziamento verrà di norma rimborsato dopo che il piano commerciale (nel senso civilistico) avrà raggiunto e superato il punto di pareggio fra costi e ricavi e la remunerazione del capitale sarà percentualizzata non in funzione del tempo trascorso bensì in funzione percentuale delle plusvalenze in formazione. In Irlanda, al fine di consentire una più facile applicazione del prestito a lungo termine con carattere di partecipazione (in taluni casi anche convertibile) quale strumento di sostegno ad una economia bisognosa di risorse finanziarie, la legge ha espressamente previsto l’esenzione dalla imposta sul reddito dei capital gains realizzati dai soggetti finanziatori. L’esperienza ventennale irlandese così come quella della Grameen Bank e del Fondo Nazionale di Solidarietà tunisino dimostrano come gli strumenti finanziari applicati senza la capitalizzazione del tempo che trascorre possano risultare comunque remunerativi e portatori di un processo di sviluppo non solo teorico, ma concretamente applicabile alla gente che abbisogna della leva finanziaria anche piccola per uscire dalla povertà e dalla condizione di bisogno assoluto.
Quanto sopra consente di ritornare alla questione della esportabilità del concetto di Democrazia esistente quale presunto modello in un solo paese. Nella sua recente intervista rilasciata a “La Repubblica” venerdì 5 marzo 2004, pag. 9, il Presidente egiziano, Hosni Mubarak, afferma realisticamente: oggi in Medio Oriente rischiano di spalancarsi le porte dell’inferno. Se il piano di riforme americano del Grande Medio Oriente non verrà studiato con grande attenzione, potremmo piombare in un vortice di violenza e d’anarchia che non risucchierà soltanto noi, ma anche chi ci è vicino. In tal senso bisogna intendersi su che cosa sia il Medio Oriente allargato: è un mosaico di popoli, di tradizioni, di modi di vita, di economie. In forza di ciò come si può imporre una unica soluzione preconfezionata in un’ara sconfinata che va dalla Mauritania al Pakistan, senza peraltro consultare e coinvolgere i diretti interessati.
Al mondo Arabo, prosegue il presidente non servono lezioni. Né abbiamo aspettato l’11 settembre per avviare le riforme. Dagli anni ’80 abbiamo percorso molta strada: la creazione di un sistema giudiziario indipendente, l’avvio di un nuovo sistema elettorale. La nuova legge sulla stampa, le scuole, la condizione femminile; ma per fare tutto questo occorre tempo, il rispetto delle tradizioni e della cultura, che si modificano gradualmente e solo per via analogica. La libertà e la democrazia istantanea possono terremotare un paese, non a caso Moammar Gheddafi ha proposto la creazione di Isratin, con il suo notevole libro bianco e non ha partecipato alla recente Conferenza di Parigi.
Il tema così proposto estremamente importante anche nel processo di armonizzazione dei dieci paesi che mantengono, all’interno del raggiunto obiettivo di adeguamento ai capitoli relativi all’adesione, delle caratteristiche e delle problematiche aperte non di poco conto e delle misure atte a rispettare vuoi le povertà irrisolte anzi vieppiù maggiorate, vuoi i valori propri delle diverse civiltà che sono così entrate a far parte dell’Unione Europea.
La politica europea sembra seguire due grandi direttrici, sul piano interno cercare di portare il reddito pro-capite dei propri cittadini, anche i nuovi, a quello corrente nell’area più virtuosa dell’antico bacino dell’Alto Reno.
Sul piano esterno, l’azione dell’Unione Europea riunificata a Est tenderà a stabilire una comune area di pace, stabilità, sicurezza e prosperità con i nuovi vicini dell’Est e del Mediterraneo meridionale, fondata sul ruolo della legge, la democrazia, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali. Il cuore di questa nuova fase di associazione fra l’Unione Europea e le aree citate è diretta a stabilire intense relazioni commerciali anche attraverso la cooperazione regionale, favorendo nel contempo la creazione di locali unioni doganali d’area con le quali condurre più agevoli attività negoziali.
Estremamente importante in tale contesto, è poi l’importanza data alla formazione delle risorse umane, in particolare quelle femminili, al fine di promuovere la comprensione fra le diverse culture e gli scambi fra enti della società civile diretti a stabilire nuove forme di partenariato, sul piano sociale, culturale e della crescita umana in generale.
Le priorità interne e di buon vicinato
In parallelo così come fissato alla riunione ministeriale del 2 ottobre 2003, i rapporti con i paesi ACP, la Commissione dell’Oceano Indiano e l’Unione Europea, devono essere intensificati in vista della conclusione dei negoziati sugli Accordi di partenariato economico (APE) fra i Paesi ACP e l’Unione Europea; in particolare:
- - deve essere intensificata l’integrazione regionale (cioè subcontinentale), che riveste un’importanza fondamentale per lo sviluppo dei paesi ACP, sul modello dell’accordo di Tunisi;
- - per quanto riguardo l’accesso al mercato gli Accordi di Partenariato Economico (APE) prevedranno un margine di flessibilità. Tali accordi infatti saranno formulati sul principio dell’Asimmetria e saranno diretti a migliorare la situazione giuridica ed economica dei paesi ACP di fronte alla sfida posta dal mercato globale per consentire un accesso certo al mercato, nel quadro dell’Accordo di Cotonou, restando comunque nel contesto delle normazioni positivamente sviluppate dallo OMC;
- - la durata dei periodi di transizione e le attività che ne saranno oggetto verranno precisati in sede di trattative nell’ambito delle Associazioni Regionali di Stati e a tal riguardo sarà consentita l’applicazione di misure di salvaguardia;
- - gli APE dovranno essere accompagnati da adeguate misure di aiuto allo sviluppo;
- - in vista di una seconda fase negoziale le Parti costituiranno un comitato tecnico misto ACP-CE che sarà incaricato di vigilare sulla coerenza generale dei diversi processi regionali;
- - occorre dare applicazione certa al Fondo Mondiale di Solidarietà voluto da S.E. il Presidente Ben Alì e approvato dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
In tal senso un gruppo di 17 paesi africani facenti capo al Comesa (Mercato comune dell’Africa Orientale australe) ha annunciato la propria intenzione di negoziare un accordo di collaborazione economica con l’Unione Europea.
Il principio quindi del regionalismo come strumento preparatorio allo sviluppo di accordi con l’Unione Europea in vista di un equilibrato viaggio verso un processo di crescita comune, è considerato un presupposto, insieme con i due altri criteri che l’Unione Europea, intravede come presupposti per qualsiasi attività negoziale:
- a) gli accordi devono innanzitutto mirare al rafforzamento della sicurezza comune;
- b) devono consentire una sostanziale diminuzione della povertà nei paesi oggetto d’intervento, considerando sia il fatto che la povertà è intrinsecamente una condizione di non dignità, sia il fatto che può essere uno dei veicoli atti a rafforzare le reti terroristiche internazionali e il flusso migratorio dei ceti emergenti.
Come giustamente osservato dall’Unione talune delle precondizioni allo sviluppo dei rapporti con l’Africa sono:
inversione della tendenza alla fuga dei capitali privati dall’Africa da una parte e dall’altra, secondo le stime del New York Times, la ripresa dei controlli sulle transazioni occulte (che comprendono narcodollari, profitti illeciti, etc..). Tali flussi in uscita di capitali producono effetti devastanti, portando alla formazione di nuove povertà, accompagnate dai fenomeni della denutrizione, della mortalità infantile, al disastro ambientale e in generale al crollo degli standard su cui è fondata la qualità della vita.
Peraltro, se è fallito in America Latina, come in Asia e in Africa e nei paesi in transizione, il Washington Consensus del FMI, il motivo sta nel fatto che pretendeva di applicare ai Paesi più diversi le stesse linee di politica economica, “chiedendo a tutti di adottare severe politiche di aggiustamento fiscale ha accentuato le spinte recessive. Nel caso del Brasile la conseguenza è stata una politica monetaria restrittiva che ha costretto a mantenere tassi di interesse altissimi che hanno strozzato le imprese e quindi la crescita”.
Oggi non si può proseguire su questa via, anzi, occorre uscire dall’idea che il mercato e quindi la privatizzazione dell’economia sia la panacea di tutte le cose, così come anche la politica economica europea e quella statunitense vanno dimostrando. Occorre prendere atto che i negoziati globali intorno alle nuove leggi del commercio internazionale e degli investimenti diretti da proteggere devono tener conto dei bisogni dei paesi in via di sviluppo o meglio che presentano nel proprio interno diverse velocità di sviluppo, in funzione dei settori economici portanti le loro economie.
Ovviamente, il tema negoziale parte dal problema della liberalizzazione dell’accesso al mercato cui deve corrispondere un credibile e quindi praticabile accordo sulle regole della concorrenza, e, sulla trasparenza che non può non essere flessibile e applicabile gradualmente, occorre uno schema quadro, che consenta il superamento di quelle barriere, oggi non più di governo (l’OMC ha eliminato tale facoltà alla mano pubblica) ma erette dal sistema privato, che facilmente sviluppa azioni dirette a negare la pari dignità nel campo delle regole sulla concorrenza.
Partendo dal tema delle nuove “rules of law on competion”, non è chi non veda come la piattaforma dovrebbe porre a suo fondamento innanzi tutto l’obbligo di certificazione, vuoi sul prodotto, vuoi sulla filiera produttiva, vuoi sulla trasparenza anche economica e finanziaria che sulla responsabilità sociale delle imprese che operano nel contesto globale.
Espressione di tale dinamica legislativa multilaterale, come giustamente rileva Pascal Lamy, non può non essere lo spazio normativo che l’OMC riserva agli Investimenti Diretti all’Estero IDE/FDI.
Infatti, gli IDE sono finalmente riconosciuti (anche in Italia con il concetto del made by Italy world wide) (non esiste la mondo alcun prodotto “made in” ma esistono prodotti e servizi concepiti e organizzati da “made by”) come uno dei fattori chiave determinanti per la crescita economica e il miglioramento della qualità della vita. Infatti, l’operatore che investe vuole stabilire legami economici durevoli, previo pagamento delle imposte nei luoghi in cui produce reddito imponibile. L’IDE quindi può portare benefici a chiunque: crea opportunità per gli investitori e aiuta i paesi in via di sviluppo ad acquisire uno sviluppo sostenibile, riducendo l’inoccupazione, tutelando l’ambiente e rinnovando la tecnologia, fra l’altro. Per i paesi sviluppati gli IDE sono particolarmente importanti: non accrescono il debito, rappresentano una riserva valutaria di seconda linea e ampiano la base operativa delle imprese anche in termini di approvvigionamento di materie prime e semilavorati, rendono più efficiente la logistica facendo diminuire vuoi l’impatto ambientale che il costo dei trasporti.
Tuttavia, il presupposto per cui gli investimenti si muovono non è più tanto la sempre necessaria remunerazione del capitale, ormai contenibile nel concetto di responsabilità sociale che rende giustizia all’antico confronto fra proprietà dei mezzi di produzione e cogestione degli stessi, quanto piuttosto il loro bisogno di operare in un clima di stabilità del quadro sociale e politico nel quale si vanno a inserire, di trasparenza nell’azione amministrativa e di governo, di programmabilità dell’azione imprenditoriale, anche in funzione della determinabilità del prelievo fiscale e della non discriminazione verso gli operatori residenti, o di diversa provenienza. L’accordo che dovrà andare a fissare le nuove regole sui movimenti di capitali e gli IDE, non potrà non tener conto di tali aspetti. Cioè, occorre che mentre si affronta il tema della collaborazione fra l’Europa allargata, lo spazio economico paneuropeo creando e l’Africa, si pongano in essere i preliminari di accordo biregionale in materia di IDE, definibili nei termini anzidetti, prevedendo anche delle stanze di aggiustamento e compensazione conciliativa degli eventuali conflitti applicativi. Tale azione è urgente stante il fatto che non vi sono regole sul campo in questo momento e l’assenza di regole, impedisce fra l’altro il ritorno in patria dei capitali fuoriusciti. Certamente la proposta dell’U.E. è diretta a rafforzare l’azione dell’OMC, dell’OCSE e della MIGA e a consentire la formulazione di una nuova agenda di lavoro per i prossimi vertici multilaterali; è fondata però su una produzione di strumenti laboratorio in corso di attuazione, coesivi con le aspettative del Sud del mondo.
L’atto negoziale deve portare alla creazione di un ambiente favorevole allo sviluppo degli investimenti, determinando all’interno dei singoli stati, la produzione di normative non discriminatorie, automaticamente applicabili e quindi non suscettibili di interpretazione amministrativa e quindi di corruzione.
Aspetti determinanti
Abbiamo visto come sia ampiamente riconosciuto nella lettura teorica ed empirica che gli investimenti diretti all’estero si realizzino quando c’è la contemporanea presenza di tre tipi di fattori[1] : la presenza di ownership advantages, ovvero di vantaggi concorrenziali legati all’impresa, la presenza di locational advantages nel paese destinatario, e la presenza di internalization advantages, cioè di vantaggi commerciali maggiori nell’instaurare delle relazioni intra-firm piuttosto che delle relazioni a distanza tra paese investitore e paese ricevente.
Mentre la prima e l’ultima condizione, riguardano gli IDE ma dal punto di vista dell’impresa, la seconda è relativa al luogo in cui si va ad intraprendere l’investimento e ha un’importanza cruciale per i flussi in entrata verso il paese ospitante. Se si verifica solo la prima circostanza, le imprese procedono tramite l’attività di esportazione, con licenze o la vendita di patenti per servire il mercato estero. Se la terza condizione si aggiunge a quella di vantaggi di proprietà, gli investimenti diretti all’estero diventano il metodo preferito di svolgere la propria attività all’estero, ma solo in presenza di vantaggi di localizzazione. Tra le tre condizioni che dunque si devono verificare perché si intraprenda un investimento diretto all’estero, le caratteristiche di localizzazione sono le uniche sulle quali il governo del paese ricevente l’investimento può intervenire direttamente.
La relativa importanza degli locational advantages dipende da almeno quattro aspetti degli investimenti: dalla motivazione (ad esempio, resource-seeking, market-seeking, ecc.), dal tipo di investimento (nuovo o successivo), dal settore di interesse (ad esempio, manifatturiero o di servizi) e dal tipo di investitore (piccola o media o grande società multinazionale)[2] . Ma l’importanza delle determinanti muta nel tempo, seguendo i cambiamenti dell’ambiente economico che si evolve e nel tempo. E’ perciò possibile che una serie di fattori determinanti che spiegavano gli investimenti diretti all’estero, in un dato paese e la situazione internazionale. Allo stesso tempo, ci sono anche delle determinanti che rimangono costanti nel tempo.
Uno degli aspetti determinanti degli investimenti diretti all’estero tradizionalmente è sempre stato la dimensione del mercato, tanto in termini assoluti quanto in relazione alla popolazione e al relativo reddito di questa, e la crescita economica. Ampi mercati permettono di accogliere più imprese, sia domestiche che straniere, e possono aiutare le imprese che producono beni tradablea raggiungere economie di scala e di scopo. La crescita economica, d’altro canto, agisce come un magnete: elevati tassi di crescita in un paese straniero tendono a stimolare sia gli investimenti domestici, sia quelli diretti provenienti dall’estero. La teoria sottolinea che le aziende che posseggono vantaggi d’impresa, come ad esempio potrebbe essere una nuova tecnica produttiva o anche un ben conosciuto nome, necessitano di mercati considerevoli sia in patria che all’estero per massimizzare la redditività dei loro investimenti generata dai vantaggi unici che esse posseggono.
Ma l’importanza della dimensione del mercato nazionale è diminuita, come conseguenza della globalizzazione e dell’integrazione economica, mentre è aumentata quella di aspetti come la differenza dei costi tra luoghi d’investimento, e quello della qualità delle infrastrutture. Con il termine infrastrutture non ci si riferisce solo al trasporto o alle comunicazioni, ma alla presenza di un ambiente favorevole per lavorare ed oziare. Queste condizioni sono vitali per qualsiasi sorta di investimento, sia esso domestico o estero.
Basso tassi d’inflazione e tassi di cambio stabili sono aspetti determinati per gli investimenti diretti all’estero per più di una ragione. In primo luogo, essi attestano la stabilità e rilevano la forza dell’economia. Secondo, essi inducono un certo grado di certezza riguardante il futuro corso dell’economia e impartiscono fiducia nella capacità delle imprese di rimpatriare i profitti e i dividendi. Infatti, solitamente le economie deboli, con alti tassi di prestiti ed indebitamento, sono costrette ad instaurare controlli sui cambi e sui conti capitale della bilancia dei pagamenti. Da ultimo, spesso un ambiente stabile dal punto di vista macroeconomico è anche accompagnato da una certa stabilità a livello politico. Frequenti cambiamenti politici legati all’ambiente in cui operano le imprese straniere, alla politica fiscale e di cambio sono distanti dall’ispirare fiducia nella stabilità delle economie dei paesi destinatari degli investimenti da parte delle aziende investitrici. La stabilità politica e quella economica risultano spesso intrecciate.
Le tradizionali determinanti economiche, come le risorse naturali e la dimensione del mercato nazionale di protezione dei prodotti manifatturieri dalla concorrenza internazionale tramite elevate tariffe e quote, ancora giocano un ruolo importante nell’attrazione di investimenti diretti all’estero, da parte tanto di paesi in via di sviluppo ed industrializzati quanto delle economie emergenti.
Le politiche relative agli investimenti diretti consistono in leggi e regolamentazioni che governano l’entrata e le operazioni che un investitore diretto estero può svolgere all’interno del paese straniero, gli standard di trattamento loro accordati e il funzionamento dei mercati all’interno dei quali essi operano. Tra le varie politiche supplementari utilizzate per influenzare le scelte di dove avviare l’investimento, la politica commerciale di un paese gioca il ruolo predominante. Tra le altre politiche si possono considerare quelle di privatizzazione e quelle messe in atto grazie ad accordi internazionali, come i trattati bilaterali di investimento. Questi focalizzano l’attenzione su aspetti come quello della tutela dell’investitore e delle garanzie relative agli investimenti.
A parte questo tipo di politiche, oggi risultano un aspetto determinante degli investimenti diretti all’estero gli incentivi, cioè tutti quei vantaggi economici accordati ad una specifica impresa, o ad una categoria di imprese da parte del governo di un paese, con il fine di spingere le aziende a comportarsi secondo determinati criteri. Gli incentivi possono comprendere esenzioni fiscali, concessioni fiscali ed esenzioni da dazi sulle importazioni di parti e componenti, tassi sull’esportazione. Non è ancora certo che questi incentivi abbiano un ruolo determinante nella scelta dell’investitore. Alcuni paesi potrebbero essere costretti ad offrire determinati incentivi solo perché la concorrenza lo impone, mentre se, nessuno offrisse tali incentivi, i processi decisionali delle imprese straniere si baserebbero sulle dotazioni fattoriali del paese destinatario e sul clima per lo svolgimento di efficienti operazioni che essi forniscono.
Con la creazione di regimi regionali di integrazione, l’accesso ai mercati regionali sostituisce l’accesso al mercato nazionale come determinante. In generale, gli schemi di integrazione regionale permettono il libero scambio tra i paesi che ne fanno parte, ma hanno come effetto la riduzione di importazioni nei confronti di paesi terzi. Infatti, il fattore di libertà commerciale è utile come stimolo alla dimensione del mercato, mentre l’elemento tariffario impedisce le importazioni all’interno o della regione da parte di paesi ad essa esterni. Entrambi questi effetti possono far aumentare il flusso di investimento verso la regione. L’effetto desiderato di allargamento del mercato è molto più significativo di quello tariffario nell’attrarre un maggior volume di IDE. Inoltre, quello di eliminare le imperfezioni del mercato, e di liberalizzare il commercio e gli investimenti, è compito della politica che precede o accompagna gli accordi di integrazione. In realtà, l’integrazione di per se non sortisce grossi effetti: i fattori che davvero stimolano il volume degli investimenti sono la rimozione di barriere e di ostacoli al commercio e al regime degli investimenti[3] .
Il proponibile trattamento degli investitori stranieri agenti anche attraverso fiduciarie o trust companies dovrebbe essere basato sui principi generali dell’OMC di non discriminazione (Trattamento della Nazione più favorita e equiparazione ai residenti, anche per quanto attiene il regime degli espropri e delle nazionalizzazioni). Di conseguenza la applicazione dei detti principi manterrebbe inalterato il diritto dei paesi ospiti di legiferare sul loro territorio in materia di politiche economiche e del lavoro, in maniera tuttavia non discriminatoria, verso i capitali di non residenti. L’U.E. dovrà assistere i paesi aderenti al proposto accordo nella elaborazione delle politiche dirette all’attrazione di capitali esteri, in particolare nei settori a più alta occupazione, soprattutto in termini di promozione di opportunità (pensiamo ai pacchetti diretti alla creazione dei distretti produttivi applicati dall’EIRE o dal Galles) e alla creazione di un unico Marketing d’area.
Gli investitori sono permeati nella scelta dei luoghi dove investire, da una serie di preoccupazioni sul rischio di investimento all’estero, talune vere altre frutto d’immaginazione. Un tale approccio spesso vanifica le singole politiche di attrazione poste in essere dai diversi paesi vuoi in via di sviluppo che in transizione. Certamente, l’elaborazione di un nuovo sistema giuridico multilaterale, dotato di propri strumenti per la conciliazione delle controversie da solo non garantisce il risultato in termini di nuovi flussi d’investimento. Ma certamente una normazione adeguata dovrebbe consentire un’espansione dei flussi riducendo a livello minimale il rischio associato a qualsiasi nuova allocazione all’estero.
Tali garanzie normative potrebbero poi sposarsi con singoli programmi di incentivazione fiscale, finanziaria e assistenziale, anche in termini di aree attrezzate (cfr. il citato modello irlandese).
L’attuale frammentazione di norme sul trattamento degli IDE (in atto, esistono fra stati ben 11.000 strumenti di protezione bilaterale “BIT-Bilateral Investment Treaties”, senza considerare gli accordi regionali o multilaterali) non è soddisfacente. Gli investitori considerano tale proliferazione come segno di inefficienza e di mancanza di trasparenza. Per tale ragione gli operatori, anche le multinazionali, sono sempre alla ricerca di paesi in grado di offrire certezze giuridiche e non agiscono in funzione solo di criteri di opportunità economica, come dovrebbe essere.
Il problema è ancora più sentito dalle PMI come le italiane e quelle dei paesi dell’est che vogliono internazionalizzarsi. Esse non hanno le capacità di verificare e di adattarsi a sistemi legislativi in continuo cambiamento, specie nel campo delle politiche di protezione degli investimenti e quindi considerano il rischio connesso alla politica del diritto troppo elevato. Per muoversi le PMI abbisognano di regole certe, vuoi dinanzi ai nuovi paesi confinanti che verso l’Africa e l’Asia Centrale.
Ovviamente, i Governi devono conservare il diritto di regolare l’attività economica dei paesi in cui operano con riferimento al modello di sviluppo, all’ambiente e alle condizioni sociali, nel quadro tuttavia del principio del diritto alla coesistenza e alla pari dignità.
La questione dell’accesso al mercato dovrebbe quindi essere indirizzata in maniera tale da consentire a ciascun paese di assorbire gli IDE in una maniera e a un ritmo compatibile con le politiche interne, prevedendosi in caso di apertura la gestione dei conflitti solo attraverso procedure di tipo conciliativo.
Il futuro dei rapporti con l’Africa, l’Asia Centrale e i nuovi vicini è fondabile solo sulle regole e su tale base dobbiamo operare.
Nel rispetto delle vocazioni dell’UMA insieme con l’Europa mediterranea occorre costruire quell’arco latino che nei vari settori economici, secondo il principio della solidarietà, di cui anche alla social corporate responsability esterna consenta di assumere un ruolo finalmente rispettoso dei valori che le religioni del Libro da sempre affermano.
[1] Dunning J., Multinational Enterprises And The Global Economy, Addison Wesley, (1993) London
[2] UNCTAD, World Investment Report 1998: Trends and Determinants, United Nations, (1998) New York and Geneva
[3] OECD, New Horizons For Foreign Direct Investment, Global Forum on International Investment, (2001) Paris
Vincenzo Porcasi: commercialista, anni 63. Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, specializzato in questioni di internazionalizzazione di impresa, organizzazione aziendale, Marketing globale e territoriale. Autore di numerosi saggi monografici e articoli, commissionati, fra l’altro dal C.N.R.-Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Ministero del Lavoro. Incarichi di docenza con l’Università “LUISS”, con l’Università di Cassino, con l’Università di Urbino, con l’Università di Bologna, con la Sapienza di Roma, con l’Università di Trieste, e con quella di Palermo nonché dell’UNISU di Roma. E’ ispettore per il Ministero dello Sviluppo economico. Già GOA presso il Tribunale di Gorizia, nonché già Giudice Tributario presso la Commissione Regionale dell’Emilia Romagna.