Numero 45 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

La signora con gli occhiali neri

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di Giuseppe Davì

 

Come ogni notte, era arrivato il momento. Una mano diafana scostò il leggero lenzuolo viola, la donnina si alzò a scatti dal letto cigolante .
In un angolo della camera, il volpino marrone aprì un occhio, temendo i soliti rimproveri e le solite minacce, ma stavolta fu risparmiato; chiuse l’occhio e si rimise a dormire, tremando.

Buio pesto; nel palazzo, il silenzio era carico di attesa. Qualcuno al piano di sotto e negli appartamenti accanto sperava. La minuta signora controllò l’orologio sul comodino : ore tre.

Perfetto! Pensava. Raggiunse a passi decisi, in pantofole rosa e vestaglia corta color ghiaccio, l’ingresso e impugnò, con una forza insospettabile, l’enorme oggetto di legno. Ora esisteva e poteva fargliela vedere lei a chi la credeva invisibile. Sollevò quella specie di mazza e, curvando le ginocchia e allargando i gomiti, colpì il mondo intero, l’universo. Comunicava a tutti la sua realtà.

L’urto violento col pavimento, della grande massa, produsse un boato potente. Il silenzio, interrotto, amplificò l’esplosione, che la minuta signora ripeté, a intervalli precisi. L’onda sonora, che avvisava tutti della sua onnipotenza, attraversò travature e pareti portanti, diffondendosi opportunamente sia verso i piani sottostanti sia verso quelli superiori e su fino all’attico e giù fino alle nere cantine. Soddisfatta del suo operato, si rimise a letto supina a occhi aperti.

Osservava le ombre del soffitto verde chiaro e pensava che i suoi occhi piccoli e cattivi non doveva mai vederli nessuno; per questo aveva sempre degli occhiali di specchio nero.

Il rito fu ripetuto alle cinque del mattino e alle sette, ora in cui alcuni vicini le inviarono maledizioni e bestemmie varie, alle quali rispondeva a tono dal chiuso del suo rifugio.

Nessuno la vedeva uscire di casa, sceglieva accuratamente orari sperduti. Nessun rimprovero sembrava sortire effetto alcuno, nessun comportamento, educato o indifferente. Si appostava nell’angolo del pianerottolo con la faccia al muro pensando di non essere vista. Per strada camminava rasente i muri perimetrali dei palazzi e nel supermercato la si poteva vedere ferma a lungo incollata a un pilastro o alle pile di acque minerali.

Quando sentiva qualcuno passare per il suo pianerottolo o i vicini chiamare ed attendere l’ascensore, da dietro la porta chiusa emetteva strani ululati o mostrava di parlare con qualcuno.

“ Basta!” gridava continuamente “ Basta , o ti ammazzo!”. Con lei viveva solo il volpino sventurato, bersaglio di umiliazioni continue e urla.
Aveva anche perfezionato una specie di dialogo al telefono; non aveva né amici né parenti, vicini.

“Mi devi dare i soldi!” a voce alta per farsi sentire da dietro la porta blindata “I soldi ! Hai capito?” e ripeteva e ripeteva.

La ‘i’ di capito diventava sempre più forte e strascicata, mentre la voce teneva una specie di esitazione sul ‘ca’, e il ‘to’ tendeva a un ‘tu’, la ‘o’ si chiudeva definitivamente.
Per circa un intero anno un mezzo foglio di quaderno attaccato all’esterno della sua porta avvisava :
“A nessuno deve essere data la mia posta Nessuno deve entrare nel mio monolocale senza il mio permesso specialmente i miei parenti”. In un italiano approssimativo che non si curava né di interpunzione né di maiuscole o minuscole. Era l’unico modo per comunicare con gli altri. Senza pause, senza attendere risposte, senza respirare.
Aveva anche scritto, in un primo periodo, i cognomi di due odiati condomini. Dopo le rimostranze fatte da uno di loro, prima cancellò i nomi, poi sostituì il cartello con la precisazione riguardante solo i suoi parenti.

Aveva ereditato l’abitazione da un convivente a cui aveva promesso di badare fino a tarda età. Quando giunse la prima malattia lo depositò in un lager per anziani, dove in breve morì. I parenti del vecchio provarono a toglierle la proprietà; lei aveva una carta firmata e dovettero piantarsela.
Il volpino abbaiava, abbaiava stizzoso.
Dopo anni di rumorose guerre diuturne e notturne, improvvisamente tutto cessò.
Non la si vedeva neanche più scivolare, ombra di se stessa, nei pianerottoli e nel cortile. Dall’estrema magrezza sembrava essere passata proprio all’invisibilità.

I carabinieri la trovarono, riversa nel suo ingresso, nera e maleodorante, una vena della tempia aperta. L’impermeabile color crema, stretto dalla cintura, le scarpine nere e il carrello della spesa in piedi, accanto. Gli occhiali neri, opachi. Era implosa.
Questa è la storia di una strana creatura, che era venuta nella grande città dalla sua terra lontana.

Forse con altre idee; forse con altri sogni; forse con altre intenzioni.

 

 

Giuseppe Davì, nato a Caltanissetta nel 1944, ha vissuto a Palermo fino al 1971. Laureato in Ingegneria Meccanica presso l’università di Palermo. Vive a Roma dal 1972. E’ stato attore teatrale, radiofonico e di cinema e tv, professore di ‘ Meccanica e Macchine a fluido’. Ha collaborato con l’università UNIROMA3. Oggi pensionato, Cibernauta, Blogger, ama leggere, scrivere e far di conto. Fa parte del circolo Bateson di Roma. Ha una splendida moglie e due figli.