Settembre in New York
Il 2 settembre - Labor Day- segna la fine dell’estate. La data ha poco a che vedere con il cambio di stagione e tanto mento con l’aria frizzante della mattina; segna piuttosto la fine dei “giochi” e il ritorno al lavoro.
Settembre a New York é proverbiale: giornate cristalline di cielo terso e sole tiepido. Sarebbe la stagione ideale per svago e vacanza e, invece, è forse il periodo di lavoro più intenso di tutto l’anno, a tutti i livelli, dalle scuole elementari alle Nazioni Unite che si riuniscono in Assemblea Generale.
Sulla via dell’ufficio, la settimana scorsa, in una di queste mattine cristalline di settembre di 11 anni dopo, riflettevo sull’attentato alle Torri: un colpo secco sul muscolo teso di un corpo operoso. Fosse capitato durante il sonno estivo, lo shock sarebbe stato certamente grande, ma non così devastante.
Settembre, invece, è un mese importante per un’America che ama i “new beginnings”. Quest’anno, poi, con le elezioni ormai prossime, il mese è rovente. Nella manciata di giorni di campagna che restano, i candidati devono convincere un elettorato stanco e disilluso che l’American Dream non è morto: duro lavoro e determinazione possono ancora portare felicità e prosperità economica.
Ci sono volute ben due Convention e infiniti altri quotidiani dibattiti per arrivare a scrollarmi di dosso il mio scetticismo piccolo borghese di fronte a un ideale che sorprende per candore. Per non tradire completamente le mie origini e mantenere un dignitoso cinismo, sono arrivata ad ammettere che, se il tema è ancora così attuale, indipendentemente dagli schieramenti, qualche verità la conterrà. In cuor mio però, confesso che l’idea che chiunque, indipendentemente dalle umili origini, possa avere successo, mi ha completamente conquistato.
Proprio alcuni giorni fa ho preso parte a un convegno organizzato dalla European American Chamber of Commerce e la Fordham University sulle differenti opportunità per le start up in Europa e negli Stati Uniti. Mi ha colpito l’osservazione di uno dei testimoni, un giovane imprenditore americano che aveva aperto un’azienda in Germania. Ebbene, diceva che in Europa il fallimento viene percepito diversamente che in America dove, sì il risultato è importante, ma ancor di più lo è lo spirito di iniziativa e il coraggio di assumere il rischio di tentare e non riuscire. In Europa, invece, il grado di disapprovazione sociale per i tentativi falliti è tale da creare ovunque una sorta di cauto immobilismo anche nei più giovani. Vero, anzi, verissimo! L’America incoraggia lo spirito d’impresa perché riconosce valore a un progetto ambizioso indipendentemente dal risultato. L’America impara sbagliando. L’Europa frena, giudica e non lascia possibilità di riscatto. Difficile imparare a camminare se si ha paura di cadere. L’Europa da questo lato dell’Oceano appare ingessata e spossata: ha bisogno di credere e osare. In una parola: sognare
Laura Del Vecchio: Due lauree, Giurisprudenza con tesi in Economia a Roma e Commercio Internazionale a Le Havre; due specializzazioni, in Economia dei mercati asiatici e in Comunicazione; due esperienze “in azienda” come export manager per Fiat Auto Japan e per Danone; due esperienze “di penna” al quotidiano economico “Nikkei” e all’ISESAO della Bocconi: un “saper scrivere e far di conto” che ha finito per trovare buon uso all’Istituto nazionale per il Commercio Estero. Nata il 13 settembre del 1968: da poco compiuti…. due volte vent’anni