MESTIERE, ARTE O MISSIONE?
Identità e responsabilità sociale ed etica del formatore
Pubblicato su Learning News AIF
di Fernando Dell’Agli*
Non si può insegnare niente ad un uomo, si può solo aiutarlo a trovare la risposta dentro sé stesso Galileo Galilei
Lo scenario
In una società come l’attuale, caratterizzata da una crescente complessità e turbolenza, in cui le ideologie tradizionali perdono la loro funzione di riferimento ed i valori forti si affievoliscono o sono messi in discussione, molte persone, dentro e fuori le aziende, sono sempre più disorientate ed incerte. Questa incertezza, che percepisco durante i seminari che conduco, è comune a giovani e meno giovani, anche se si manifesta in maniera diversa. I meno giovani, nei decenni passati, trovavano i loro ancoraggi e i loro riferimenti in regole sociali che permettevano, a chi non era sufficientemente allenato a fare affidamento alle proprie risorse personali, di trovare degli appigli e dei corrimano nel proprio procedere. I rapidi mutamenti descritti di seguito hanno fatto venir meno molti di questi riferimenti.
I più giovani, oggi, soffrono di un’altra contraddizione: mentre sono molto più preparati dei loro padri sul piano culturale e degli studi (molti si specializzano dopo la laurea), l’offerta di lavoro è inversamente proporzionale alla loro accresciuta preparazione. Le occasioni di lavoro sono sempre precarie e spesso molto poco qualificate, creando forte incertezza e demotivazione nei singoli, oltre a rappresentare uno spreco sotto il profilo puramente economico. Tra gli allievi di un master nel quale mi trovo ad insegnare c’è una laureata in filosofia che fa la cassiera in un supermercato, e quando ha chiesto di passare in ufficio per dare un contributo più coerente con la sua preparazione, questo le è stato impedito perché la sua futura coordinatrice ha un semplice diploma e non accettava nel suo team una laureata con un master post-laurea; un’altra allieva, laureata in economia, si è scusata di dover lasciare anticipatamente il seminario per andare a lavorare, e alla mia domanda ha precisato con disagio che andava a fare la cameriera in un ristorante, lavoro su cui conta per vivere.
In passato, tradizioni, regole e costumi cambiavano lentamente: negli anni sessanta e settanta la fedeltà all’azienda era un valore e il legame tra il dipendente e l’organizzazione era più solido di quello tra partner; chi cambiava spesso azienda era considerato inaffidabile. Il lavoro si trasmetteva frequentemente per via dinastica: al genitore che andava in pensione dopo aver servito fedelmente l’azienda, veniva consentito e spesso offerto di fare entrare al suo posto un figlio o una figlia. Il criterio – non sempre verificato – era quello del talis pater talis filius e consentiva all’azienda di risparmiare costose operazioni di selezione. Quello che si era appreso nella scuola superiore o all’università era un investimento di lungo periodo, perché le cose cambiavano lentamente e le conoscenze acquisite in fase di studio potevano validamente essere usate anche dopo molti anni, salvo eventuali aggiornamenti, in genere fatti leggendo pubblicazioni specializzate. La formazione dal canto suo, intesa come formazione ai comportamenti e non solo come addestramento tecnico, cominciava a muovere i primi passi. Questi riferimenti che cambiavano lentamente erano rassicuranti per chi non era abituato a fare affidamento ai propri talenti e ai propri valori interiori e avevano quindi una funzione di guida, anche se, per i più maturi, spesso rappresentavano una gabbia.
Oggi, l’evoluzione tecnologica sempre più rapida ha trasformato profondamente i concetti di tempo e di spazio cui eravamo abituati, con un impatto sulle persone a livello globale: fisico (discrasia tra ritmi biologici e tecnologici), emotivo (l’ansia creata da ritmi sempre più frenetici e da urgenze non sempre reali), cognitivo (l’abbattimento dei confini geografici nei trasporti e nella comunicazione). L’adattamento a questi cambiamenti così rapidi e contrari ai bioritmi che ci caratterizzano da millenni non è stato e non è facile per nessuno; per alcuni è particolarmente disorientante. A questo bisogna aggiungere i mutamenti nei sistemi organizzativi: alle incertezze di un mercato sempre più precario e volubile, si sommano le contraddizioni che si percepisce all’interno delle organizzazioni; le più statiche e burocratiche, che sono anche quelle destinate a scomparire, non si adattano al cambiamento e non si avvalgono della formazione mentre quelle che la usano lo fanno spesso in maniera incoerente. L’incoerenza si manifesta sia nel tagliare gli investimenti dedicati alla formazione non appena vi sono accenni di crisi, con un’ottica che ad essere generosi possiamo chiamare tattica, non strategica, sia nel contraddire nelle pratiche e nei comportamenti dei responsabili quanto viene chiesto ai collaboratori di acquisire tramite la formazione.
Per quanto detto sopra, oggi alla formazione penso che venga chiesto – anche se non esplicitamente – qualcosa di più di ciò cui siamo abituati; i formatori – e l’AIF che li raccoglie e rappresenta – sono chiamati ad aprirsi a nuovi interrogativi, nuove responsabilità, interpretando il malessere e aiutando le persone a trovare in sé stesse le risposte che non trovano all’esterno.
Sintesi di alcune tra le possibili cause dell’incertezza e dell’ansia:
- l’affievolirsi di modelli condivisi di comportamento sociale, che privano i meno attrezzati culturalmente e psicologicamente di riferimenti esterni cui appoggiarsi;
- il crescente divario illustrato prima tra “tempo biologico”, cui gli umani sono legati in quanto esseri viventi, e “tempo tecnologico” sempre più esasperatamente accelerato, nel quale le macchine rischiano di prevalere sull’uomo invece di servirlo;
- il prevalere delle logiche economiche su quelle umane, il predominio della finanza sulla stessa politica, che rendono le persone comuni disarmate e angosciate di fronte ai cataclismi sui stiamo assistendo, senza riuscire a comprenderli e a individuarne i responsabili;
- il divario, all’interno delle aziende, tra ciò che si predica e ciò che si fa, tra ciò che si dice di volere e ciò che si vuole realmente, tra valori predicati e comportamenti agiti, spesso derivanti da timori, modelli manageriali obsoleti, insicurezza personale anche a livelli manageriali elevati, sfiducia nelle capacità di iniziativa, autonomia e creatività dei collaboratori, necessità di sacrificare al “dio budget” e ai risultati trimestrali logiche e strategie di più ampio respiro;
- l’inadeguatezza di taluni formatori, che di fronte alle sfide indicate a volte si limitano a trasmettere i contenuti concordati con la committenza o si rifugiano nelle metodologie e nelle tecniche; serve invece una cultura robusta, una sincera volontà di capire l’altro e la realtà, l’umiltà ma anche l’audacia di proporre il proprio sentire ed i propri valori umani, non solo professionali, incoraggiando chi li ascolta a trovare in sé stessi quella bussola che non trovano all’esterno. Questa responsabilità di testimonianza umana è particolarmente forte per i formatori della mia generazione, che se si propongono umilmente ma coraggiosamente come esempio di ciò che suggeriscono hanno dalla loro la credibilità derivante da una esperienza che i formatori più giovani non hanno ancora acquisito.
Alcune ipotesi di risposta
Le risposte vanno trovate insieme, in un onesto e sincero sforzo di ricerca; penso però che i formatori debbano mettersi maggiormente in gioco sul piano personale, proporre dei modelli umani e professionali personalmente sperimentati e non libreschi, infondere nei loro ascoltatori la fiducia che si può navigare nella complessità attingendo alle risorse che la vita ha dato a ciascuno. Il fenomeno della recente elezione di Obama all’insegna del ‘si può fare’ conferma l’importanza di fare leva sulle risorse e sui talenti individuali. Il “saper avere fiducia” e il “saper osare” sono virtù che i formatori dovrebbero praticare per sé stessi per poterle proporre a coloro che sono disorientati e insicuri. La formazione oggi già si rivolge con attenzione all’individuo e al suo disagio, sia emotivo che pratico, e cerca di sostenerlo nel suo “saper fare” e “saper essere” attraverso le professioni di aiuto: coaching, counselling, focussing, reflective learning, ecc.
E’ necessario sostenere i formatori nello sviluppare non solo padronanza delle tecniche ma apertura al nuovo, visione sistemica, capacità di analisi e di sintesi per aiutare chi li ascolta a comprendere da dove veniamo e dove ci troviamo, per avere minori difficoltà nell’individuare in quale direzione andare e come farlo. Le aziende dovrebbero sviluppare maggiore fiducia nella formazione, chiedendole molto ma creando le condizioni per le quali i semi che essa pianta siano messi in condizione di dare i frutti desiderati.
Formare persone motivate e soddisfatte perché possono dare un contributo reale, coerente con la loro preparazione e le loro aspirazioni, si traduce inevitabilmente in migliori performance aziendali e in un miglior clima sociale.
La “metaformazione”
L’aspetto della responsabilità sociale del formatore nel senso sopra descritto è fortemente sentito da alcuni membri del Consiglio Direttivo dell’AIF del Lazio che stanno progettando un convegno dal titolo “Mestiere, arte o missione? L’identità e la responsabilità sociale ed etica del formatore” che dovrà svolgersi nell’autunno 2009. L’intenzione è quella di guardare all’oggi e soprattutto al domani, in un ideale sviluppo del percorso tracciato nel Convegno “2015: la Competenza del Formatore del Futuro”, tenuto a Roma nel dicembre 2007, per esplorare quale responsabilità sociale abbiano i formatori, sia aziendali che consulenti, e quale contributo possano e debbano dare al disagio diffuso tra le persone e nelle aziende, di fronte ad una società sempre più mercificata e dominata dai valori puramente economici. Nel convegno del 2007 si è parlato della necessità per il formatore di sviluppare “meta competenze” di tipo essenzialmente relazionale; io oggi propongo di parlare di “meta formazione”, indicando con questo termine un atteggiamento ed una visione olistici del formatore centrato sulla persona e sulle sue risorse come presupposto necessario per declinare efficacemente la formazione nei suoi diversi aspetti – contenuti, metodologie, tecniche – che è chiamato in concreto ad erogare.
Le domande e le risposte per costruire questo approccio in maniera efficace e non velleitaria dovrebbero essere oggetto di un confronto sia all’interno del mondo della formazione che secondo una logica interdisciplinare, coinvolgendo sociologi, psicologi, politici, manager. Bisogna evitare due pericoli: quello dell’auto-referenzialità, ponendosi in posizione di ascolto e di ricerca più che erogare formule e soluzioni preconfezionate, stimolando i destinatari della nostra attività a farsi protagonisti del loro presente e del loro futuro, e quello di escludere i giovani relegati a meri ascoltatori o fruitori di ricette cucinate da altri più anziani, mentre possono dare contributi validi e aiutare a ringiovanire e vitalizzare una società che almeno in Italia è gerontocratica.
Personalmente sono confortato da due recenti esperienze.
La prima: nel “convegno-non-convegno” tenuto a Roma dall’AIF Lazio l’11 dicembre 2008, la parte per me più interessante è stata la terza, nella quale c’è stato un confronto tra pari sui temi proposti, con un fruttuoso scambio tra giovani e seniores; ritengo che si debba dare più spazio al confronto di esperienze che limitarsi ad ascoltare oratori per quanto sapienti o tavole rotonde con poco tempo per il dibattito, e si debba dare sempre più spazio ed ascolto ai giovani, tra i quali alcuni sono veramente sensibili e preparati.
La seconda: nel convegno ‘Risorse umane e non umane’ tenuto a Roma dalla Società ESTE e dalla rivista ‘Persone e Conoscenze’ il 12 febbraio 2009, ho sentito molti relatori fare le seguenti affermazioni: l’importanza di farsi carico della solitudine delle persone nelle organizzazioni, la necessità di combattere il management quando ignora il ruolo strategico e vitale della formazione, l’invito ai formatori e a tutti coloro che si occupano di personale ad avere coraggio.
Fernando Dell’Agli: Consulente e Formatore, Vice Presidente uscente AIF Lazio. Ha svolto diversi incarichi in una multinazionale: tra questi Responsabile Vendite prodotti industriali, Customer Service Manager, Responsabile Selezione Formazione e Sviluppo del Personale. Da 16 anni Consulente Formatore free-lance nell’ambito delle competenze manageriali e dello sviluppo organizzativo. Master in Comunicazione secondo la Gestalt e Master in Counselling della Riprogrammazione Esistenziale. Docente in inglese e spagnolo.
* Salvador Dali Metamorphosis of Narcissus