Argomenti per un impegno a favore dei sistemi dei paesi nuovi vicini dell’Unione Europea
di Vincenzo Porcasi
Improvvisamente un sistema economico nasce a nuova dimensione, inventa un suo nuovo stato d’essere. L’effetto immediato è il contestuale venire meno di tutte le relative certezze giuridiche, preesistenti, figlie di quel precedente specifico. La comunità internazionale, non politica ma tecnica, allibisce. Vengono meno i dati statistici di riferimento, dati quali l’ammontare delle riserve in valuta, la loro composizione in oro e in altri mezzi di pagamento internazionali, gli impegni a breve, medio e lungo termine. La capacità di essere attivamente presenti sul mercato dei cambi, il contenimento delle posizioni in valuta entro una adeguata fascia di oscillazione.
La conoscenza delle consistenze in termini di raccolta bancaria e correlativamente di impieghi. Il tipo di vincoli operativi e di garanzia verso i depositanti e verso i terzi. L’ordinamento delle società di persone e delle società di capitali. Il regime dei contratti e delle obbligazioni. Il profilo giuridico degli istituti di garanzia reale e il regime dei diritti reali sono tutti insieme requisiti necessari per impostare qualsiasi programma di inserimento dell’economia dei nuovi vicini nell’U.E..
L’instaurazione del segreto bancario e professionale, nel limite esclusivo della normativa antiriciclaggio internazionalmente accettata. Lo stimolo alla nascita, anche sul modello Triestino di istituzioni finanziarie, assicurative e di intermediazione in cambi, nonché la nascita di società fiduciarie, possibilmente controllate dal sistema bancario, attraverso cui consentire l’afflusso di capitali in maniera capace di non danneggiare l’immagine dell’investitore, avendo altresì chiaro il disegno economico dello stesso, in forza del potere di controllo esercitato da organismi pubblici centrali sul mandato conferito dal fiduciante, di tipo statico o dinamico alla società fiduciaria.
L’annoso problema della scelta fra motore pubblico e privato nell’economia, potrebbe proprio essere superato dall’attività che gli istituti giuridici romano-germanici del tipo “trust”, o, negotium fiduciae cum amico, o, familien stiftung possono assolvere. Tali Enti consentendo al privato di assolvere al suo ruolo di risparmiatore-investitore, con piena trasparenza fiscale, lo portano di volta in volta ad intervenire nell’ambito di quei servizi in cui la sua assenza arrecherebbe un grave pregiudizio al sistema economico-imprenditoriale.
Come noto, l’alternativa fondata sulla creazione di strutture del tipo IRI o di agenzie di sviluppo, risulterebbe, nel lungo termine, eccessivamente penalizzante, in quanto finirebbero (le strutture) per avvolgersi in se stesse, riproducendo la elefantiasi burocratica e la complessità del quadro decisionale che è proprio di tutte le strutture destinate ad operare senza criteri di economicità.
Questo, se vogliamo, è il modello di sviluppo proprio del sistema economico-imprenditoriale giapponese. Strutture centralizzate, ma flessibili, indirizzate al finanziamento a lungo termine con carattere di partecipazione al capitale di imprese aventi a loro base innanzitutto un mercato, ma soprattutto un prodotto.
Infatti, sia chiaro che il presupposto perché nasca un’economia di mercato, oltre il quadro di riferimento giuridico, è da ricercare nella disponibilità di un prodotto di cui i consumatori abbiano effettivo o potenziale bisogno. Pensiamo per un momento, ai chiodi di garofano e alle aringhe che fecero la fortuna degli olandesi a cavallo fra il XV e il XVI secolo, pensiamo agli acciai tedeschi e cecoslovacchi all’inizio del XIX e XX secolo pensiamo alla domanda di oli alimentari e soprattutto di essenze di agrumi e di sale (tutti principi della vita) che hanno fatto la fortuna dei paesi mediterranei; pensiamo alle economie asiatiche che combinando insieme, ricerca scientifica e tecnologia e sistema distributivo, sono riuscite a conquistare completamente i mercati della trasmissione e della conservazione su base multimediale, escludendo progressivamente la concorrenza internazionale, forse anche Philips compresa.
Il tutto all’insegna di una distribuzione per holdings verticalizzate nei vari rami produttivi, che partendo dalle singole fondazioni finanziarie divengono prima banche e assicurazioni, poi compagnie di trasporti e infine di produzione.
In una società, ormai planetaria, nella quale tutti producono tutto, non è pensabile che un paese economicamente “nuovo”, si affacci sul mercato mondiale dei beni e servizi, oltre che su quello interno, scegliendo come settore trainante un comparto tradizionale.
Il tradizionale, può essere utile nella fase di transizione, ma poi deve cedere il passo al prodotto specifico e nuovo capace di infuturare un sistema produttivo.
Per quanto concerne la funzione di traino da esercitare nell’immediato è chiaro che il settore, torna immediatamente a essere quello edile; capace innanzitutto di mobilitare il mix di risorse umane, finanziare e naturali, presenti nell’area, appieno. Tale ipotesi combinandosi con i lavori civili in genere è in grado di assicurare l’occupazione di tutti i vecchi fattori della produzione e di far insorgere il “desiderio” della proprietà privata fin qui sopito.
Ad esempio, il rifacimento della ferrovia Praga/Vienna, da una parte mobilita le dette risorse (leggi acciai e traversine) dall’altra dà maniera per impostare una qualche soluzione diretta ad evitare in questi territori l’obbligo del trasporto su strada, che tanti problemi sta ponendo alle relazioni austro/italiane.
In Europa manca un concetto industriale del trasporto multimodale, diversamente che in Giappone.
I Paesi Nuovi Vicini dell’Unione Europea possono essere la chiave di volta per dimostrare la bontà di un insieme multimodale.
Il settore tradizionale di edilizia civile abbisogna di tutto, ed esiste un problema di bonifica dei centri storici e di espansione abitativa, in chiave ecosistemica e di gestione delle temperature; peraltro, la mobilitazione è lavoro, è uso di inerti e calci, ferro e legname, tecnologia anche vecchia, ma coinvolgente (vedi fra i molti l’esempio della Repubblica Armena).
L’innovazione deve invece avvenire su due aree separate ma convergenti:
- 1)creazione di un ceto artigiano, che riscoprendo i valori contenuti nelle tradizioni popolari, riconosce e faccia riconoscere la cultura degli oggetti, mantenendo saldo il legame simbiotico mutualistico con la natura;
- 2)generalizzazione del concetto di cultura, sulla base dell’equazione di Comenius dove tutto è insegnabile a tutti. Il vero problema dell’umanità oggi è la stupidità contratta con e per la frequentazione delle macchine, nel senso latino del termine, accompagnata dalla disinformazione percepita come conoscenza. Occorre che venga preparata una generazione di uomini che sappia laicamente riappropriarsi della tecnologia, riprogettare le macchine per renderle comprensibili agli altri, nella loro essenza e nei loro contenuti.
Non commettiamo l’errore sovietico di realizzare i missili capaci di dare la soluzione finale all’umanità e poi venuta la pace di sconoscere la maniera di distruggerli. Né si può consentire che l’umanità rinunci alla ricerca delegando ad altri (chi, poi?!) l’invenzione di nuovi brevetti.
Peraltro, da europei ricordiamo di essere la minoranza bianca e obesa di un mondo defraudato della dignità del lavoro e ridotto a mero territorio assistenzialistico. La Pace nel medio/oriente avrà significato se le masse arabe riavranno la dignità perduta dallo sradicamento subito e se ritroveranno il desiderio di una qualche vera, sostenibile operosità.
Il colonialismo bieco e brutale era fondato sulla fatica e sulla sottomissione di uomini, il neo/colonialismo è semplice latrocinio, devastante che disgrega e degrada l’identità di chi lo subisce sia esso uomo che natura.
Da cristiani, il tema è quindi evitare la formazione di una iniqua ricchezza (parole evangeliche) puntando tutto sulla ricchezza del servizio da rendere.
Abbiamo sfide immani dinanzi: il disinquinamento, con il conseguente ridisegno del sistema idrogeologico; la trasformazione delle scorte civili, la riconversione dell’industria bellica, l’uso corretto delle biotecnologie e della genetica alimentare, al fine di soddisfare la fame e l’inedia crescente, la riscoperta delle acque e lo sfruttamento delle energie endogene della terra (l’Islanda è scaldata, per usi civili, da mera energia vulcanica).
L’approccio alle produzioni fluviali e lacustri nonché marine, consente di sviluppare prodotti di basso costo e di facile immissione al consumo, come principio di un servizio capace di produrre lucro da cui deriva, risparmio nella parte non reinvestita, quindi accumulazione capitalistica necessaria al fine di finanziare la ricerca di nuovi prodotti, quelli che l’umanità richiede, anche attraverso l’uso di strumenti di micro e macro finanza partecipativa.
Vincenzo Porcasi: commercialista, anni 63. Laureato in Giurisprudenza e in Scienze Politiche, specializzato in questioni di internazionalizzazione di impresa, organizzazione aziendale, Marketing globale e territoriale. Autore di numerosi saggi monografici e articoli, commissionati, fra l’altro dal C.N.R.-Consiglio Nazionale delle Ricerche e dal Ministero del Lavoro. Incarichi di docenza con l’Università “LUISS”, con l’Università di Cassino, con l’Università di Urbino, con l’Università di Bologna, con la Sapienza di Roma, con l’Università di Trieste, e con quella di Palermo nonché dell’UNISU di Roma. E’ ispettore per il Ministero dello Sviluppo economico. Già GOA presso il Tribunale di Gorizia, nonché già Giudice Tributario presso la Commissione Regionale dell’Emilia Romagna.