Numero 39 Registrazione al tribunale di Roma N° 3/2004 del 14/01/2004

Tempo e linguaggio

di Roberto Vacca

 

 

Possiamo misurare il tempo con estrema precisione, ma faremmo bene a rifletterci e a scavare su questo concetto che è stato mirabilmente semplificato e formalizzato dai fisici. Sono riusciti a farlo proprio perché hanno trascurato aspetti difficili da analizzare: i rapporti fra il tempo e noi stessi, dato che siamo complicati e fatti di cervello, sistema nervoso, sensi e di tutti gli elementi fisici che si integrano a produrre il linguaggio. I nostri linguaggi devono essere considerati come la componente più significativa della nostra essenza. Chi non sa usare nessun linguaggio, è umano in un senso e in una misura discutibili, ma molto rudimentali.

E il linguaggio è strettamente connesso con il tempo. Nel 1948 lo psicologo americano K.S. Lashley sostenne che la struttura organizzativa che supporta le funzioni sintattiche nel linguaggio parlato ha una natura essenzialmente ritmica. La radice “ritm” che ritroviamo anche in “aritmetica” è originariamente greca e significa “flusso”

Nel 1968 il fisiologo E.H. Lenneberg mostrò che molti processi fisiologici che sembrerebbero indipendenti da fattori temporali, dipendono criticamente dal tempo. Ad esempio, abbiamo l’impressione che la nostra visione sia un processo istantaneo, ma quando riconosciamo configurazioni anche semplici effettuiamo un’integrazione temporale nel sistema nervoso. Quando usiamo linguaggi articolati, entrano in gioco processi periodici con una frequenza di circa 6 Hz. Per capire come noi stessi funzioniamo nel tempo, dobbiamo studiare le varie forme in cui si presentano i nostri linguaggi.

Si ripete da anni l’osservazione curiosa che nella lingua Inuit non c’è una parola per dire “neve”. E’ vero: gli eschimesi Inuit usano decine di parole per definirne le condizioni di aspetto, consistenza, durezza, età. I popoli primitivi in generale dispongono di vocabolari molto più vasti di quelli delle lingue indo-europee. Secondo alcuni questo dipende dal fatto che non sono in grado di apprezzare i cambiamenti nel mondo che li circonda. Lo considerano immutabile e pericoloso. Quindi più che analizzare le sequenze temporali, tendono a descrivere con puntigliosa precisione il mondo che appare immutabile e standardizzano in riti fissi i loro comportamenti.

Il modo di percepire il tempo è riflesso anche dalle grammatiche. In molte lingue antiche (come l’egizio di 4000 anni fa) si tendeva a esprimere la durata o la ripetizione degli eventi, piuttosto che l’ordine delle loro sequenze. Pare che nelle lingue sassoni, compreso l’anglo-sassone che si parlava prima della conquista normanna della Britannia (1066), non esistesse il tempo (grammaticale) futuro. Notoriamente, poi, è stato costruito con l’ausiliare “will” e in tedesco con l’ausiliare “werden” (che da solo significa “diventare”, non “volere”). Curiosamente anche in cinese il futuro si esprime con la stessa struttura: uo yao chi, significa “io voglio mangiare” o “io mangerò” a seconda del contesto.

Il linguaggio serve a riflettere il passato. Per quanto tempo ne restano le tracce nelle nostre menti? Ricordare eventi significa in larga misura ricordare parole. Questa è una facoltà su cui dovremmo sapere molto di più. Pare che i bambini-lupi cresciuti fra animali selvatici non riescano più a imparare a parlare, se non cominciano prima dei sei anni. Sappiamo poco, invece, sulle differenze individuali nell’apprendimento. Certe persone hanno difficoltà a imparare lingue straniere, altri riescono senza sforzo apparente (ma con lavoro intenso e mirato, come so per esperienza personale) a impararne tante. Le prestazioni eccezionali dei poliglotti più famosi dipendono certamente dall’ambiente umano in cui sono cresciuti e da esperienze ed eventi (purtroppo dimenticati quasi da tutti) che hanno prodotto una motivazione forte e un gusto insaziabile.

Sul tempo e sulla memoria è stato scritto tanto – e sono vasti i territori incogniti. Le misure sono difficili, le testimonianze dubbie, l’introspezione è spesso illusoria. Stranamente si trovano parecchie intuizioni inaspettate (e non giustificate da risultanze e osservazioni concrete) che anticipano conoscenze raggiunte solidamente decenni o secoli più tardi. Ad esempio, Diderot scrisse due secoli fa:

Credo che tutto quel che abbiamo visto, conosciuto, percepito, udito – anche la disposizione dei rami, la forma delle foglie, la varietà dei colori, delle sfumature e delle luci  negli alberi di una foresta o l’aspetto dei granelli di sabbia su una riva la forma della cresta delle onde mosse da un leggera brezza o tempestose, la moltitudine delle voci umane, dei versi di animali, la melodia e l’armonia delle canzoni e dei concerti che abbiamo sentito – senza che lo sappiamo, esistono tutti dentro di noi.”

E’ un’asserzione di cui nessuno saprebbe dimostrare la verità o la falsità. Tendo ad accettarla quando emergono nella mia mente memorie di frasi prive di importanza che udii molti decenni fa. Più concretamente testimoniò a favore il neurochirurgo canadese Wilder Penfield che riuscì a evocare flashback di memoria stimolando con leggerissime scariche elettriche certe parti della corteccia cerebrale di pazienti durante operazioni chirurgiche.

Ancora meno sappiamo di come funzioni la memoria degli animali e, a monte, di come funzioni la loro percezione del mondo. Sappiamo bene che i cani odono frequenze sonore che a noi sono precluse e che certe farfalle vedono la luce ultravioletta. Come ha osservato il fisico J.T. Fraser anche gli oggetti costruiti da animali possono essere un’estensione dei loro sensi. Una ragnatela non serve solo a catturare mosche. E’ una struttura a coordinate polari che con le sue vibrazioni informa il ragno sulle dimensioni e le coordinate dell’insetto incappato nella rete. Al ragno non servirebbe una struttura di percezione tridimensionale dello spazio: le mosche non acchiappate non esistono. Il tempo si conta con le vibrazioni che iniziano al momento dell’impatto.

 

 

Roberto Vacca: Laureato in ingegneria elettrotecnica e libero docente in Automazione del Calcolo (Universita' di Roma). Docente di Computer, ingegneria dei sistemi, gestione totale della qualita' (Universita' di Roma e Milano). Fino al 1975 Direttore Generale e Tecnico di un'azienda attiva nel controllo computerizzato di sistemi tecnologici, quindi consulente in ingegneria dei sistemi (trasporti, energia, comunicazioni) e previsione tecnologica. Tengo seminari sugli argomenti citati e ho realizzato numerosi programmi TV di divulgazione scientifica e tecnologica.
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