Il blame game
di Alfonso Palumbo
Lo scorso 16 febbraio, la copertina di Time riportava un interrogativo eloquente: “How can we get out of this mess?” (come uscire da questa confusione?). Nel catenaccio si precisava che “Il blame game (cioè la ricerca del colpevole) non funziona”. Dubbio e domanda dunque senza risposta, amplificate dal disastro economico corrente.
Ma i dubbi non sono tutti uguali. E non hanno la stessa portata. Alcuni più sottili, altri meno. Per chi ancora ritiene che la persona valga di più della cosa appare giusto spostare il punto di osservazione su un tema che in Italia ha fatto parlare parecchio. La conseguenza è che, come sempre, il caos si è scatenato nelle dichiarazioni quasi cancellandone le premesse originarie. All’ondata di brutalità che ha reso vittime donne e minori, ha fatto seguito una serie di provvedimenti imposti dallo scopo di fermare le violenze. Anche perché - sia chiaro - in determinati ambiti il potere delle parole non può essere forte come quello dei fatti. Quindi, fare: ma cosa? E come? L’informazione ha rilanciato il caos articolato che a sua volta si è riflesso sul pensiero dell’individuo, costretto all’equilibrismo delle virgole e del non-detto per farsi un’idea. Ecco allora che il ministro dell’Interno (di parte leghista; deciso ad agire sempre e comunque) querela un settimanale cattolico (super-partes; abituato a leggere i fatti alla luce della fede) dopo che quest’ultimo scrive di “leggi razziali” in merito al pacchetto-sicurezza.
Situazione troppo grave per non spostare l’attenzione un po’ più su. Riflettendo sulle cause e sugli effetti di una società che si insegue senza prendersi. Frastornata quanto basta e ambigua abbastanza. Varrebbe allora la pena di pensare che questa è l’epoca nella quale si è definitivamente compiuta la distruzione della nostra materia. Annullati tempo, spazio e fisicità, di noi e del nostro essere rimane poco, anzi nulla: tutto è virtuale, tutto è descrittivo. Anche se poi tutto continua a rimanere tale: noi con i nostri sensi, con le nostre paure, con i nostri desideri, con i nostri rimpianti. Ma è la proiezione esterna che inghiotte quella interna. E rotta la materialità, non si riesce a (ri)costruire l’immaterialità che presuppone ricchezza di valori, riflessioni di spirito. Senza scordare che distruggere è molto più facile che costruire.
E’ per tali motivi che si assiste alla distruzione e alla negazione del corpo, inteso come più estrema materialità: stupri, violenze, cancellazione della morte, sballo. La società della comunicazione è complice di tutto questo, accompagnata dal messaggio pubblicitario che esalta corpo e fisico. Forse perché il corpo è visibile e l’anima no; o forse perché con il corpo si guadagna e con l’anima no. Magari perché nella società della velocità il corpo è immediato, con il corpo si può giocare e vincere anche perdendo, un corpo lo si valuta a peso o a curve mentre l’anima no, se è bella va scoperta poco a poco… e non è detto che ce se ne accorga.
Una bella canzone degli America di qualche anno addietro ci ripete della possibilità che “…In the desert, you can remember your name”. Un po’ di deserto, di ascolto interiore, di distacco dal chiasso non ci farebbe male. Se alla cultura anglosassone si può muovere l’accusa di averci avvelenati con il virus della crisi, chissà che non si possa giungere al di là del baratro proprio suo tramite. Perché “name” è sempre meglio di “game”.
Alfonso Palumbo: Giornalista free-lance che si occupa di cronaca e politica. Al momento svolge mansioni di Direttore responsabile per conto di un mensile, family-oriented. Vive a Roma dal 2001 ed é un appassionato di teatro e letteratura. Per diletto scrive sceneggiature e soggetti teatrali; inoltre ha pubblicato due libri di narrativa, il terzo spera esca tra poco. E’ un curioso e gli piace credere che <I giornalisti liberi siano una garanzia di verità>. E’ uscito in questi giorni “I quattro re”, AndreaOppure Editore, Roma, pg. 86 (narrativa).