Inattesa solidarietà
di Laura del Vecchio
Portiamo tutti, anche se in misura diversa, i segni delle ferite che senza volere infliggiamo a noi stessi e agli altri nel muoverci maldestri nello spazio ristretto del vivere quotidiano. Schivare, farsi largo, indietreggiare, avanzare, fermarsi, lasciare il passo, cadere, rialzarsi: è tutto un urtarsi a vicenda. Siamo così abituati al conflitto da sorprenderci quando proprio dove la sofferenza è maggiore - nell’angustia di un corsia di ospedale – ci viene invece mostrato riguardo. Mio padre da poco ricoverato, a mezza voce per la fatica di un cuore malato, ma con l’occhio acceso di chi ha fatto una grande scoperta, mi aveva sussurrato di avere trovato in quel reparto “persone straordinarie”. Non tanto tra i medici, dai quali già di norma ci si attende miracoli, ma tra i compagni di stanza - i pazienti – dai quali non solo non ci si attende nulla ma si spera anzi di ricevere indifferenza quasi a preservare quel poco che resta del pudore offeso.
Io stessa avevo assistito alla tenera cura con cui un suo vicino di letto gli aveva fatto la barba. Quello stesso che il giorno prima mi aveva messo in guardia dal far sedere papà su una sedia che lui sapeva esposta ai capricci di una finestra mal chiusa. Era divertente vedere come, l’uno più mal concio dell’altro, si incalzassero a vicenda, incoraggiandosi con bonari rimproveri a “non fare il malato”. In quel mondo fuori dal mondo, dove un favore si ricompensa con una caramella o una rivista “recente”, mio padre aveva trovato un calore umano che lo aveva rinfrancato, per un po’ almeno. Io pure mi sono riscaldata a quel tepore. Mi ci sono avvolta e ne ho tratto forza.
Ancora oggi, che mio padre non c’è più, mi ostino a tenere i contatti con quei suoi “compagni d’arme” di cui in fondo non so nulla e che non conosco altro che per quella infinitesima frazione di vita sospesa. Sono loro grata per quelle manifestazioni di disinteressata solidarietà e di affettuosa simpatia. Ma non solo: dopo tanto mio inveire contro mal costume e cattiva fede, mi trovo ora a riconoscere che c’è dell’altro. Che l’uomo è fatto per qualcosa di più elevato rispetto al quotidiano affannarsi per un posto al sole. Una luce di speranza mi ha rischiarato lo sguardo. Trovare empatia in un estraneo ci mette in intimità con uno sconosciuto. La cosa spaventa perché spiazza: azzera le difese. Fa saltare tutti gli schemi di relazione. Destabilizza. Mi sono ritrovata vicina a persone mai incontrate prima e distante invece da amici e parenti che chiedevano dettagli su una morte che non gli apparteneva. Eppure accettare questa vicinanza rianima: mette in contatto con quella umanità condivisa a cui tutti possiamo attingere, da cui tutti veniamo. Una fratellanza di cui fino ad oggi non avevo mai capito il senso: una comunanza di sorti di cui non avevo mai fatto esperienza.
Laura del Vecchio: Due lauree, Giurisprudenza con tesi in Economia a Roma e Commercio Internazionale a Le Havre; due specializzazioni, in Economia dei mercati asiatici e in Comunicazione; due esperienze “in azienda” come export manager per Fiat Auto Japan e per Danone; due esperienze “di penna” al quotidiano economico “Nikkei” e all’ISESAO della Bocconi: un “saper scrivere e far di conto” che ha finito per trovare buon uso all’Istituto nazionale per il Commercio Estero: attuale “ghost writer” del Presidente dell’ICE. Nata il 13 settembre del 1968: da poco compiuti…. due volte vent’anni.